ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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NORBERTO BOBBIO

Vico e la teoria delle forme di governo*

I. Dai Greci, in modo particolare da Aristotele, il pensiero politico occidentale ha ereditato un enorme patrimonio di concetti fondamentali, di vere e proprie categorie per l'intendimento del «mondo delle nazioni» nelle sue diverse forme e nei suoi corsi (o ricorsi) storici: tanto grande che non è ancora stato consumato malgrado il trascorrere dei secoli. Di questo patrimonio una parte cospicua è costituita dalla tipologia delle forme di governo, specie nella esposizione aristotelica diventata canonica delle tre forme pure e delle tre corrotte. Nella sua versione classica la tipologia delle forme di governo costituisce un vero e proprio sistema concettuale, cioè un insieme di concetti interdipendenti che ricoprono e delimitano congiuntamente un'area del mondo oggettivo, e sono connessi fra di loro in modo tale che la modificazione dell'uno importa la modificazione dell'altro. Come ogni sistema concettuale costituito nell'ambito delle discipline storiche e sociali, anche la tipologia delle forme di governo può essere adoperata ed è stata di fatto adoperata a questi tre scopi: a) per descrivere e classificare le forme di governo storicamente date, mediante l'assimilazione del simile e la diversificazione del diverso con un'operazione mentale non diversa da quella che compie il botanico che classifica piante o dello zoologo che classifica animali; b) per esprimere una preferenza nei riguardi di una forma piuttosto che di un'altra secondoché l’ordine in base al quale le diverse forme sono disposte nel sistema sia non soltanto ontologico ma anche assiologico, ovvero stabilito in base a giudizi di valore; c) per descrivere (o prescrivere) le tappe del movimento storico secondoché nell'ambito dello stesso sistema concettuale le diverse forme siano disposte in un determinato ordine cronologico, che non è da confondere, e di fatto spesso non coincide, né con l'ordine ontologico né con quello assiologico. Per brevità chiamo questi tre usi descrittivo, prescrittivo, storico (con l'avvertenza che quello storico può essere a sua volta descrittivo o prescrittivo).

Che la tipologia delle forme di governo sia stata adoperata sin dalle origini con questi tre scopi, per dare una rappresentazione oggettiva di tutti i possibili modi con cui si costituiscono e si tramandano le società politiche (uso descrittivo), oppure per distinguere le forme buone dalle cattive, o le migliori dalle peggiori, o l'ottima dalla pessima (uso prescrittivo), oppure per rappresentare il corso storico come passaggio (obbligato) da una forma determinata all'altra (uso storico ora soltanto descrittivo ora anche prescrittivo), non ha bisogno di ulteriori commenti. Mi limito a osservare che la sua enorme vitalità dipende sia dalla sua capacità rappresentativa (che corrisponde all'uso descrittivo), sia dalla carica emotiva che le parole usate per designare questi concetti, come monarchia, aristocrazia, oligarchia, democrazia, portano con sé (da cui trae forza l’uso prescrittivo), sia dall'idoneità che è stata ad essa riconosciuta a rappresentare il movimento storico, come passaggio o mutazione dall'una all'altra costituzione (cui corrisponde l’uso storico).

Il tema è affascinante e meriterebbe ben altro sviluppo[1]. Ho fatto questa breve premessa unicamente per giustificare l'ordine che seguirò nell'esposizione della teoria vichiana delle forme di governo. Dedico all'uso descrittivo il § II, all'uso prescrittivo il § III, all'uso, storico, di gran lunga il più importante per un autore, come il Vico, tutto intento a ricostruire la storia delle nazioni «ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini», i §§ IV e V.

II. Dalla tradizione, giunta sino a lui immutata, Vico accoglie la partizione delle «tres rerum publicarum formae merae» o delle «tre forme degli Stati civili», che sono la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia, per designare le quali usa preferibilmente se non esclusivamente i termini «respublica regia, optimatium, libera» nelle opere latine; «regno o monarchia», «repubblica aristocratica o eroica», «repubblica popolare o libera» in quelle italiane. La tripartizione era stata per secoli un luogo comune della dottrina politica ed era ancora tale ai tempi di Vico, nonostante la correzione introdotta da Machiavelli che aveva ridotto la tripartizione a bipartizione unendo sotto l'unico concetto di repubblica tanto l'aristocrazia quanto la democrazia. Ma lo stesso Machiavelli non aveva esitato a ripetere la tripartizione classica delle repubbliche in «Principato, Ottimati, Popolare», quando aveva dato inizio alla interpretazione della storia romana attraverso il commento a Tito Livio. Solo con Montesquieu, il cui Esprit des Lois esce quattro anni dopo l'ultima edizione della Scienza nuova, ha inizio la fortuna di una tripartizione diversa (dispotismo, monarchia, repubblica) che avrà una influenza determinante su Hegel. Ma anche dopo Montesquieu e dopo Hegel, la tripartizione classica non è mai stata del tutto abbandonata: il Treitschke nell'intero libro dedicato alle forme di Stato nella sua opera fondamentale sulla Politica combinerà la tipologia classica con quella di Montesquieu‑Hegel, distinguendo tre forme, la teocrazia (che corrisponde al dispotismo), la monarchia e la repubblica (comprendente tanto l'aristocrazia quanto la democrazia). Prima di Vico la tripartizione classica era stata accolta da uno scrittore politico, che l'autore della Scienza nuova aveva ben presente, Jean Bodin[2], il quale aveva affermato recisamente non esservi «che tre regimi o tre forme di Stato: la monarchia, l'aristocrazia, la democrazia»[3]. Nonché da Hobbes e da Pufendorf, per citare altri due scrittori, noti all'autore della Scienza nuova[4].

La tripartizione compare, anzi occupa un posto importante, nel De uno. Vi occupa un posto importante perché è una delle triadi, incasellantisi l'una nell'altra, su cui il De uno è costruito: è l'omologo politico della triade fondamentale (tratta dal patrimonio concettuale dei giuristi, che è quello al Vico più familiare) che sorregge tutto l'edificio tanto ingegnoso quanto artificioso dell'opera: dominio (cui corrisponde la monarchia), tutela (cui corrisponde l'aristocrazia), libertà (cui corrisponde la democrazia). Però le definizioni delle tre forme sono date in un ordine che non corrisponde a quello classico: non monarchia, aristocrazia, democrazia, ma repubblica degli ottimati, regno, repubblica popolare, giusta la tesi, che Vico considererà una delle sue maggiori scoperte, secondo cui la forma più antica di stato non è la monarchia ma l'aristocrazia (ma su questo tema ritornerò più oltre, a proposito dell'uso storico della tipologia). Quest'ordine peraltro non è ancora il definitivo, quale comparirà nella Scienza nuova, dove l'ordine sistematico e l'ordine storico vengono a coincidere, e sarà: repubbliche aristocratiche, repubbliche popolari, monarchie[5]. Per quanto l'intendimento di Vico sia di trarre le categorie della nuova scienza dalla comparazione di storie di popoli diversi, le definizioni delle tre forme nel De uno sono chiaramente desunte, come del resto la loro successione (lo vedremo più oltre), dallo studio della storia romana: «Optimatium respublica nititur tutela ordinis, qua primum fundata est [...], ut soli patricii habent auspicia, agrum, gentem, connubia, magistratus, imperia, et apud gentes sacerdotia»; «regia eminet unius dominatu et summo ac maxime libero apud eum unum omnium rerum arbitrio»; « libera celebratur aequalitate suffragiorum, libertate sententiarum et aequo omnibus ad honores vel summos aditu, qui aditus census est, seu patrimonium» (capitolo CXXXVIII, 2, 3, 4).

Dal punto di vista sistematico l'interesse della tipologia vichiana sta nella sovrapposizione di una partizione per due alla partizione per tre[6]. Già nella Scienza nuova prima, la tripartizione classica cede il posto alla semplice bipartizione fra repubbliche aristocratiche o eroiche e repubbliche umane, giacché le repubbliche umane comprendono tanto la repubblica popolare quanto il regno (cpv. 471).

Questa diversa composizione all'interno dell'identico sistema concettuale dipende naturalmente dall'introduzione di un criterio di distinzione diverso da quello tradizionale. Il criterio tradizionale è il numero dei governanti (l’uno, i pochi, i molti); il criterio sopraggiunto è derivato dalla distinzione delle tre età, degli dèi, degli eroi e degli uomini, di cui la prima, come vedremo, abbraccia il periodo dello stato delle famiglie o delle monarchie primitive che precede il periodo in cui hanno origine gli stati propriamente detti, sicché soltanto due sono le età attraverso cui si svolge la storia degli stati, l'età degli eroi e quella degli uomini. Ciò che le repubbliche popolari e le monarchie hanno in comune rispetto alle repubbliche eroiche è di appartenere entrambe, se pure con diversa pienezza, all’età della ragione, mentre le repubbliche eroiche appartengono all’età della fantasia, e di essere fondate, in quanto appunto stati cui giunge l'umanità nell'età della ragione, sull'eguaglianza dei cittadini, e non sulla disuguaglianza fra nobili e plebei, e di essere governate in base all'equità naturale dalle leggi e non dalle consuetudini. Com'è stato a mio parere giustamente osservato, l'ordinamento triadico dei concetti è affiancato nel Vico da un ordinamento diadico più semplice, che si fonda sulla contrapposizione fra mente spontanea e mente riflessa[7]. Anche nella tipologia delle forme di governo la diade governi eroici e governi umani affianca e in un certo senso offusca la triade governi aristocratici, popolari, monarchici. Disponendo le tre forme in ordine di successione temporale, che corrisponde in una concezione progressiva della storia, come quella di Vico, a un ordine assiologico, secondo cui ciò che viene dopo è assiologicamente superiore a ciò che è prima, tra repubblica eroica e repubblica popolare c'è un salto di qualità, mentre nel passaggio da repubblica popolare a monarchia c'è un passaggio graduale. In termini più tradizionali, tra la prima forma e le altre due c'è una vera e propria « mutazione », mentre nel passaggio dalla seconda alla terza c'è continuità. In termini più moderni, quando c'è «mutazione», ciò vuol dire che è avvenuta una trasformazione della base sociale (i plebei diventano cittadini), mentre nel passaggio dalla repubblica popolare alla monarchia è avvenuto un cambiamento soltanto nella forma politica (è proprio il caso di dire nella «sovrastruttura»). A rigore, più grande è la mutazione storica tra repubblica eroica e repubblica popolare che non tra lo stato delle famiglie, che precede la formazione degli stati, e le repubbliche eroiche: dal punto di vista dei rapporti fra governanti e governati (rispettivamente i padri di famiglia e i famoli, oppure l'unione dei padri di famiglia e i plebei), o, in termini moderni, dal punto di vista dei rapporti di classe (rispettivamente il padrone e i servi, la nobiltà e la plebe), vi è fra stato delle famiglie o monarchia primitiva e repubblica eroica‑aristocratica maggiore continuità che non fra repubblica eroico‑aristocratica e repubblica popolare.

Strettamente connessa alla presentazione della tipologia delle forme di governo era negli scrittori politici la discussione se fosse esistita o meno un'altra forma di governo oltre le tre (o sei) canoniche, il cosiddetto governo misto, che veniva concepito come un «mescolamento» (l’espressione è di Vico) delle tre forme classiche. Teorizzata e lodata da Polibio in relazione a quella stessa storia di Roma, da cui Vico aveva tratto gran parte delle sue testimonianze, era stata accolta, nei tempi moderni, da Machiavelli, respinta da Bodin, da Hobbes, e da Pufendorf che l'aveva sostituita con la forma degli «stati irregolari»[8]. Vico affronta il problema nel De uno e lo riprende nella Scienza nuova seconda, se pure con una diversa prospettiva e offrendo del dibattutissimo problema una soluzione in parte nuova[9]. Anzitutto, non diversamente dai precedenti avversari del governo misto, anche Vico riafferma il principio che non possono esservi se non le tre forme pure («merae») di stati perché il potere sommo è e deve restare unico[10]. Ma, come Bodin e Pufendorf, non si limita a confutare la teoria del governo misto ma cerca di darsi una ragione perché certi stati del passato o anche del suo tempo (come appunto l'impero germanico, e più ancora la monarchia inglese o la repubblica di Venezia) siano stati interpretati scorrettamente in questa guisa. Naturalmente la critica di Vico si fonda in modo particolare sulla interpretazione dello stato romano che del governo misto era stato, ancora per Machiavelli, l'esempio più autorevole. Senonché, Bodin aveva sostenuto che non si può dare un governo misto perché là dove il potere regio, aristocratico e popolare sono riuniti insieme questi «danno per risultato nient'altro che una democrazia», e sulla base di questa conclusione aveva cercato di dimostrare che la repubblica romana era stata sin dall'inizio uno stato democratico[11]. Per dimostrare l'inesistenza di un governo realmente misto, un governo cioè in cui la sovranità sia realmente divisa fra corpi diversi, rappresentanti di diverse forze sociali, e nello stesso tempo per dare una spiegazione dell'esistenza di stati istituzionalmente complessi come la repubblica romana, in cui il potere sommo appare diviso fra magistrature non soltanto diverse ma in conflitto fra loro, Vico ricorre a una spiegazione più ingegnosa e storicamente plausibile. Partendo dalla «dignità» che «cangiandosi gli uomini, ritengono per qualche tempo l'impressione del loro vezzo primiero»[12], scopre che nella fase successiva di una forma politica non scompaiono mai del tutto modi e forme di governare della fase precedente. Ciò spiega, per esempio, che nelle repubbliche aristocratiche «restaron intieri gl'imperi sovrani privati a' padri delle famiglie, quali gli avevano essi avuto nello stato già di natura»; che vi siano state «repubbliche libere per natura», come fu appunto la repubblica romana nella fase del governo popolare, «governate aristocraticamente»[13]. Questa argomentazione non di tipo ipotetico, come quella di Bodin, ma storica, permette al Vico di sostenere che, se è vero che non possono darsi stati misti nel senso proprio della parola, cioè stati in cui sarebbe diviso ciò che non può essere diviso (il potere sovrano), vi sono nella realtà stati in cui le forme successive sono «mescolate» con le forme precedenti. Il che accadde a Roma, dopoché la repubblica da aristocratica diventò popolare (accadimento che Vico fa risalire alla legge Publilia). Com'è stato osservato[14], questa soluzione data da Vico all'interpretazione di una costituzione complessa, e trasformatasi nel tempo, mostra che egli ha avuto presente la distinzione introdotta dal pur criticatissimo Bodin fra forma di stato e forma di governo, in base alla quale si può sostenere che in uno stato storico, in cui la forma «pura» («mera») non può non adattarsi continuamente alle circostanze tanto da diventare impura, il titolare legittimo della sovranità può essere diverso da chi esercita realmente, per delega o per altre cause, la parte anche più grande di questo potere, anche se, quando egli parla, per esempio, di una repubblica libera governata aristocraticamente, intende questa duplice natura del governo non tanto come una differenza formale quanto come una successione storica, o meglio come la conseguenza del sovrapporsi di una forma nuova a una forma vecchia[15].

III. Questa discussione intorno al governo misto apre la strada al secondo argomento, relativo, come ho detto, all'uso prescrittivo della tipologia. Da Polibio in poi, infatti, coloro che avevano accolto il governo misto come una forma di governo diversa da quelle tradizionali, ne avevano parlato trattando il problema della miglior costituzione, e l'avevano infatti accolta come la forma migliore (così il nostro Machiavelli nei Discorsi). Allo stesso modo, del resto, di coloro che l'avevano respinta. Per gli uni, il pregio del governo misto, rispetto alle forme semplici, era la maggiore stabilità (sulla stabilità come connotato positivo, per eccellenza, dei buoni governi, mi limito qui a richiamare l'attenzione senza potervi fare un più lungo discorso); per gli altri, come per Bodin, come per Hobbes, per i quali da un potere effettivamente diviso, da uno stato non unitario, non potevano derivare se non continue convulsioni e distruttive lotte interne fra i detentori delle diverse parti del potere in concorrenza fra loro, lo stato misto, posto che potesse dirsi in senso proprio uno stato, era il più instabile di tutti[16]. Anche in Vico non vi è traccia di un qualsiasi uso prescrittivo della categoria del governo misto.

In realtà per Vico, data la prospettiva storica, o meglio di filosofia della storia, da cui si pone per cercare di capire la natura in senso assoluto e il significato in senso relativo delle diverse forme di governo, il problema tradizionale della miglior forma di governo, e ancor più dell'ottima repubblica, non si pone neppure. Piaccia o non piaccia, storicismo è sempre anche relativismo (etico, politico, estetico, insomma assiologico): per un filosofo per il quale non esiste altra «storia ideal eterna» se non quella su cui «corrono in tempo le storie delle nazioni», non vi può essere un unico ed esemplare ottimo stato, disegnato in tutti i suoi minimi particolari una volta per sempre, come quello inventato da Platone, «il quale fa una quarta spezie di repubblica, nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori; che sarebbe la vera aristocrazia naturale»[17]. Non vi può essere neppure uno stato per i diversi tempi «migliore» di un altro, perché ogni tempo ha nel disegno di quella «mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti»[18] (e fosse pure quest'uomo il divino Platone), il proprio stato, e non può averne un altro diverso. Il capitolo conclusivo della Scienza nuova seconda, che riassume in alcune bellissime pagine le varie tappe che le nazioni percorrono per uscire dalla barbarie, entrare nella civiltà e ricadere infine dopo lunga ed estenuante dissoluzione in una nuova barbarie, è intitolato significativamente: Sopra un'eterna repubblica naturale, in ciascheduna sua spezie ottima, dalla divina provvedenza ordinata. Forse nessuno mai prima di Vico aveva espresso, e chi sa forse neppure dopo di lui, se non Hegel, esprimerà con tanto rigore, il senso profondo della assolutezza relativa (non sembri un bisticcio perché ogni forma relativa rispetto ai diversi tempi è assoluta rispetto al tempo che le è proprio) di ogni forma politica con una formula cosi pregnante come quella testé citata: «in ciascheduna sua spezie ottima». Che ogni repubblica sia nella sua specie - la repubblica aristocratica per i tempi eroici, la repubblica popolare e la monarchia per le diverse fasi dei tempi umani - «ottima» significa che ogni discorso sull'ottima repubblica in generale e in astratto è privo di senso.

Beninteso, questo rifiuto di porre il problema di un'ottima repubblica al di fuori di ciò che è buono, o addirittura ottimo, «in ciascheduna sua spezie», o l'analogo problema di una repubblica migliore di un'altra in quella determinata fase dello sviluppo storico, non esclude che Vico esprima la sua preferenza per una forma di governo piuttosto che per un'altra: com'è ben noto, per la monarchia. Ma questa preferenza dipende esclusivamente dal fatto che in una concezione progressiva, se pure ciclica, della storia, la fase successiva è assiologicamente superiore alla precedente, tanto è vero che il progresso consiste proprio nel succedersi di forme di società o di stato via via migliori (e inversamente il regresso nel succedersi di forme via via peggiori). Ciò che fa delle monarchie la forma migliore è che esse «sono le più conformi all'umana natura della più spiegata ragione»[19]: dove si vede che la ragione della superiorità di questa sulle altre forme sta nell'essere la più adatta alla fase culminante del corso storico interpretato come un corso il cui movimento è nel senso del processo dal bene al meglio. Anche la monarchia, come tutte le altre forme, è «in sua spezie ottima», ma è anche per il tempo in cui cade e per il quale è «ottima», migliore delle altre forme di governo, anch'esse ottime nella loro specie ma appropriate a tempi che appartengono a un grado inferiore del movimento ascendente della storia umana. Peraltro queste forme cronologicamente e anche assiologicamente (in quanto cronologicamente) inferiori non sono, nel senso tradizionale della parola, cattive o corrotte. Già il Croce nel capitolo dedicato alle «società eroiche»[20] aveva osservato che pur nell'età degli dèi, che nasce dalla crisi dello stato ferino, ed appartiene ancora alla preistoria (la storia si può far cominciare per Vico dalle repubbliche aristocratiche o eroiche, cioè dai primi e veri propri stati), Vico è interessato a cogliere al di dei segni della barbarie e della rozzezza dei costumi gl'indizi del primo e decisivo avanzamento civile, il culto religioso con la divinazione per auspici, i matrimoni, le sepolture, e guarda a essa con quella simpatia umana, con quella fervida ammirazione di cui è capace soltanto chi sia riuscito a deporre, di fronte alle ricchissime testimonianze della storia ancor così poco esplorata dei tempi oscuri, la boria dei dotti.

Vico non conosce la distinzione classica fra forme di governo buone e forme corrotte. Anche in questo peraltro era già stato preceduto da Bodin, il quale aveva affermato che non si può distinguere i governi in base alla maggiore o minore quantità di virtù o di vizi di coloro che detengono il potere; e da Hobbes per il quale cadeva la distinzione tradizionale fra governo secondo le leggi e governo contro le leggi giacché il sovrano, qualunque sovrano, in quanto tale era sempre al di sopra delle leggi (e se fosse stato limitato dalle leggi non sarebbe stato più sovrano). Per un autore per il quale ogni forma di governo è «in sua spezie ottima» non vi possono essere forme cattive: chi considera cattiva o corrotta la forma di governo antica esprime un giudizio etico là dove è possibile soltanto un giudizio storico. Vico non conosce la distinzione fra forme buone e cattive neppure nell'ambito della prospettiva storica che gli è propria: in una prospettiva storica come quella polibiana, ripresa pari pari da Machiavelli[21], le forme corrotte rappresentano il necessario momento di passaggio dall'una all'altra forma buona, la degenerazione della monarchia in tirannia essendo condizione del sorgere dell'aristocrazia, la degenerazione dell'aristocrazia in oligarchia, della democrazia, la degenerazione della democrazia in oclocrazia, del ritorno alla monarchia. Nella concezione vichiana dello svolgimento storico non vi è posto per i momenti negativi (in questo senso, ma solo in questo senso, non è una concezione dialettica della storia): lo svolgimento storico avviene per momenti uno dopo l'altro tutti positivi che sono le monarchie primitive dell'età degli déi corrispondenti allo stato delle famiglie, le repubbliche aristocratiche, le repubbliche popolari, le monarchie dell'età degli uomini. Il progresso segue una linea retta, non spezzata, è continuo non discontinuo, è sempre ascendente e quindi senza alti e bassi. O almeno, vi è posto per i momenti negativi ma soltanto al principio del ciclo (lo stato ferino) e alla fine (la barbarie della riflessione che chiude il «corso» e rappresenta il momento di passaggio al «ricorso»). L'interpretazione vichiana della storia è progressiva e unilineare, ma è anche ciclica: in quanto unilineare e progressiva espunge i momenti negativi dal principio alla fine del corso; in quanto ciclica, non può non introdurre almeno un momento negativo alla fine del corso, col quale il primo corso si chiude e si apre il secondo. Senonché, neppure attraverso la considerazione di questi due momenti negativi, al principio e alla fine del ciclo, Vico fa posto alle tradizionali figure delle forme di governo corrotte: lo stato ferino è uno stato presociale che corrisponde funzionalmente e in parte anche sostanzialmente allo stato di natura hobbesiano, cioè allo stato che precede ogni forma di consorzio umano; lo stato in cui avviene la dissoluzione della monarchia dei tempi umani è uno stato post-sociale e perciò stesso, come lo stato presociale, anti-sociale, contraddistinto com’è da «ostinatissime fazioni e disperate guerre civili» che vanno «a fare selve delle città, e delle selve covili d'uomini»[22]. Insomma per entro al ciclo non vi sono che forme di governo buone; al principio e alla fine non c'è ancora forma alcuna, o non c'è più forma alcuna, di governo[23]. Vi è soltanto quello stato eslege che precede, sotto forma di stato ferino primevo e segue sotto forma di stato ferino ritornato, ogni specie di consorzio civile.

Delle tre forme classiche di governo corrotte, l'unica che Vico nomina talvolta è la tirannide. Ma la maggior parte delle citazioni si riferisce al regno di Tarquinio il Superbo e al passaggio dal regno alla repubblica, che è per Vico, come si è detto, un passaggio dall'una all'altra forma di repubblica aristocratica. Altrove tirannide è detto anche il momento del passaggio dalla repubblica popolare alla monarchia, ma in senso improprio, dove tirannide sta per dissoluzione del governo, per anarchia, come nella seguente espressione: «Finalmente [le plebi] vogliono mettersi sotto le leggi: ecco l'anarchie, o repubbliche popolari sfrenate, delle quali non si dà peggiore tirannide, dove tanti son i tiranni quanti sono gli audaci e dissoluti delle città»[24]. Altrove ancora «tanti minuti tiranni» sono detti gli eroi diventati «da casti dissoluti, da forti infingardi, da giusti avari, da magnanimi crudeli»[25]. Ma una vera e propria teoria della tirannide, come forma degenerata della monarchia, nella duplice specie di esercizio illegale del potere e di conquista illegittima del potere non si trova in Vico, come invece si trova in Bodin, in Pufendorf, in Locke. Al realismo di Vico, al suo senso della profondità e della complessità della storia, ripugna la distinzione tra forme buone e cattive di governo, che presuppone, come era apparso ben chiaro, del resto, a Bodin e a Hobbes, che infatti l'avevano respinta, un giudizio etico, un giudizio che non solo non agevola ma preclude l'esatta comprensione del processo storico.

Nel processo da una forma all'altra sarebbe se mai da rilevare l'emergere di quella concezione antagonistica della storia che Vico, memore del detto di Machiavelli secondo cui le lotte fra patrizi e plebei avevano avuto il benefico effetto di «tener libera Roma» ha illustrato con tanto vigore[26]. Ma è tema già troppo noto perché sia il caso di soffermarsi su di esso ancora una volta. Qui, dove si discorre di forme di governo, può valer la pena di far notare ancora che generalmente questi passaggi sono determinati più che dalla degenerazione della costituzione buona e dalla sua trasformazione nella costituzione cattiva, anche se non mancano indicazioni in questo senso[27], da movimenti dal basso, come sono la rivolta dei famoli nel passaggio dalle prime monarchie alle repubbliche eroiche, o i tumulti della plebe nel passaggio dalla repubblica aristocratica a quella popolare, conformemente a una concezione provvidenzialistica della storia per cui dal male nasce il bene, il male è a fin di bene, e quindi non è, questo male, in una visione globale del corso storico, qual è appunto l’oggetto della Scienza nuova, se non un male apparente, perché tale appare all'uomo, o necessario, e quindi non assoggettabile a un giudizio morale (in questo senso, e solo in questo senso, si può parlare di «dialettica» nel pensiero vichiano).

IV. Dei tre scopi cui può essere indirizzata la tipologia delle forme di governo di gran lunga più rilevante e più interessante nell’opera del Vico è quello che ho chiamato «storico»: quando un autore dispone le costituzioni note in un certo ordine di successione tende a dare una spiegazione plausibile del movimento della storia, ovvero si serve della tipologia non per fini sistematici o politico‑pedagogici ma per esprimere la propria visione del corso delle vicende umane. Quest'uso della tipologia classica era ben noto agli scrittori greci. Uno dei massimi criteri per ricostruire le tappe dello svolgimento storico era la successione delle costituzioni: il corso della storia veniva determinato dall'ordine in cui le costituzioni si erano succedute e si sarebbero prevedibilmente succedute anche in futuro. Guardando agli sviluppi successivi, sembra indubbio che una delle più frequenti maniere di segnare il ritmo della storia sia stato il ciclo delle costituzioni. Il criterio principale con cui sarà costruita la più grandiosa filosofia della storia del pensiero occidentale, parlo della filosofia della storia di Hegel, sarà ancora la successione delle costituzioni, anche se la tipologia delle forme di governo di cui si servirà Hegel per rappresentare il corso della storia del mondo non sarà più quella classica di cui si serve ancora il Vico, ma quella proposta da Montesquieu, che introducendo la categoria del dispotismo accanto a quelle di monarchia e repubblica permetteva di includere nella storia universale i paesi dell'Oriente, ma nello stesso tempo di escluderli dalla storia intesa come processo e progresso, propria soltanto del mondo occidentale. Veramente nello stesso Montesquieu era già presente, se pure non utilizzata a questo scopo, la distinzione delle varie fasi della storia dell'umanità, in base ai diversi modi con cui le diverse società umane hanno provveduto a procurarsi i mezzi di vita, in popoli selvaggi‑cacciatori, barbari‑pastori, civili‑agricoltori (poi mercantili)[28]: una successione di epoche storiche per tipi di società economiche che sostituirà a poco a poco quella classica (e trionfante in Hegel) per tipi di sistemi politici sino a essere a sua volta sostituita da quella marxiana che procede in base ai diversi tipi di forme di produzione (in cui peraltro la forma di produzione asiatica tiene il luogo del dispotismo nell'assegnare ai paesi dell'Oriente un destino storico diverso da quello dinamico e positivo dei popoli europei).

La filosofia della storia di Vico è ideata, interpretata e ricostruita, come quella classica, principalmente sul ritmo di successione delle diverse forme di organizzazione politica o di passaggio da una classe politica a un'altra. Non già che nella ricostruzione storica vichiana manchi ogni considerazione dei rapporti economici: basti richiamare l'attenzione sull'importanza che nella distinzione fra una fase e l'altra egli attribuisce alle leggi agrarie, cioè alle leggi che regolano i rapporti di proprietà, come la riforma del censo compiuta da Servio Tullio «la qual legge di Servio Tullio fu la prima legge agraria del mondo, ordinatrice del censo pianta delle repubbliche eroiche, ovvero antichissime aristocrazie di tutte le nazioni»[29] o quella successiva imposta dai tribuni della plebe che stabilendo il tributo non doversi più pagare ai nobili ma all'erario diede il colpo di grazia alla libertà signorile e introdusse la libertà popolare[30].

Ma ciò che serve a identificare una determinata società e a distinguerla da un'altra è pur sempre per il Vico la sua forma di governo, e più in generale il suo tipo di organizzazione politica, onde anche il passaggio da una fase storica ad un'altra può dirsi avvenuto quando una determinata forma di governo si è trasformata in modo tale da dare origine alla nuova, e ancor più in generale il passaggio dalla preistoria alla storia coincide con la nascita dello stato, cioè col passaggio dallo stato delle famiglie che è una società ancora prestatale alla società politica, e la fine del ciclo coincide con la dissoluzione della monarchia che rappresenta insieme la dissoluzione di ogni forma di organizzazione politica (o anarchia). Anche per questo aspetto le riflessioni politiche di Vico appartengono compiutamente alla storia della filosofia politica moderna, che, nata con Machiavelli e conclusa con Hegel, accompagna la formazione, la crescita e la fortuna dello stato moderno, di quel Dio terreno dal quale e per il quale l’uomo esce dalla barbarie («lo stato ferino») per entrare nella vita civile («il mondo delle nazioni »), e dopo il quale e senza il quale precipita nella «barbarie seconda». Mi è accaduto spesso di citare l'apologia della società civile contrapposta allo stato di natura contenuta in un celebre brano del De cive di Hobbes per documentare il forte senso dello stato dei maggiori filosofi politici tra Cinque e Ottocento[31]. Ma che dire delle parole solenni e ammonitrici con cui si chiude la Scienza nuova prima? «... senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo altro stato che errore, bestialità, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e sangue; e, forse e senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta oggi non sarebbe genere umano»[32]. Senza un Dio provvedente, occorre precisare che, costretti i bestioni primitivi a uscire dalla gran selva, li fece entrare nella società civile e attraverso le varie forme da questa di volta in volta assunte percorrere il corso degli «ininterrotti progressi» sino a farle «riposare» sotto le monarchie, che sono per l'appunto, come volevasi dimostrare, quella forma di governo in cui quegli stessi scrittori, siano essi i Bodin o gli Hobbes, i Montesquieu o gli Hegel, che hanno esaltato lo stato come il grande arco sotto il quale l’uomo deve passare se vuole entrare nella società civile, erano concordi nel riconoscere il momento più alto di questa stessa storia (oltre il quale ci sarebbe stato soltanto il ritorno allo stato di natura).

Nell'epoca d'oro delle grandi monarchie, in un'epoca in cui lo splendore delle monarchie aveva offuscato la luce in altri tempi brillante delle repubbliche democratiche e faceva apparire anche al Vico i «pochissimi» stati aristocratici, come Venezia, Genova, Lucca in Italia, Ragusa in Dalmazia, Norimberga in Germania, sopravvivenze rimaste «da essi tempi della barbarie»[33], era naturale che la forma di governo monarchica apparisse la forma più alta e ultima dello sviluppo storico. Il che produceva in una storia progressiva e ascendente, com'era quella dei moderni, contrapposta alla storia regressiva e discendente degli antichi, un rovesciamento completo della successione: la monarchia, anziché essere all'inizio del movimento storico, secondo la visione degli antichi, finiva per comparire alla fine; anziché essere l'inizio favoloso da cui erano proceduti gli altri modi di convivenza, era destinata a giungere come forma della ragione tutta spiegata alla fine dei tempi. L’inversione della successione comportava naturalmente il mutamento non soltanto della fine ma anche dell'inizio. All'inizio non poteva più essere collocata la monarchia ma l'una delle altre due forme di governo.

In questo mutamento dell'inizio che discendeva come logica conseguenza dal mutamento della fase finale Vico era stato preceduto da Pufendorf, il quale aveva fatto la interessante ma anche interessata scoperta che la forma più antica di governo non era la monarchia, come avevano sempre ritenuto gli antichi e sulla loro traccia pedissequamente la maggior parte dei moderni, ma la democrazia. Spiegava che era conforme alla ragione, e quindi indipendentemente dalle testimonianze storiche, sulle quali invece si era consumata la «grande fatiga» di Vico, supporre che coloro che avevano rinunciato allo stato di libertà e di eguaglianza naturali per congiungersi in un solo corpo, avessero voluto «rem communem communi consilio administrare, adeoque democratiam constituere». Ribadiva che non era presumibile (ricorrendo ancora una volta a una congettura razionale anziché all'indagine storica) che un padre di famiglia, volendo abbandonare la vita solitaria ed entrare volontariamente in una società civile insieme con altri padri di famiglia, come lui desiderosi di condurre una vita più civile, avesse dimenticato il suo stato d'indipendenza tanto da sottomettersi alla volontà di una sola persona. Che gli antichi ci avessero tramandato tante storie di genti governate all'origine da re, era ben vero; ma si trattava, a ben guardare, di personaggi provvisti più di «suadendi auctoritate» che di «iubendi potestate»[34]. Qui occorre osservare soltanto che un argomento di questo genere non era tale da escludere l'origine aristocratica delle prime società, che era appunto quella proposta da Vico, giacché, volto com'era a con­futare l'origine monarchica dei primi stati, era perfettamente compa­tibile con la tesi dell'origine aristocratica.

Troppo nota è la scoperta di cui Vico trae vanto, contrapponendola alla tesi tramandata dagli antichi e accolta acriticamente dai moderni (ma tacendo del Pufendorf), secondo cui le prime repubbliche «nacquero al mondo di forma severissima aristocratica»[35], onde il movimento storico non procede più dalla monarchia alla democrazia attraverso l'aristocrazia ma dall'aristocrazia alla monarchia attraverso la democrazia, perché vi si debba tornare su ancora una volta. Di fatto poi questo ordine di successione è corretto dall'aver il Vico interposto fra lo stato ferino e la nascita delle repubbliche uno stato che non è più presociale ma non è ancora politico (è insieme sociale e prestatale), lo stato delle famiglie, che è assimilabile, a causa dell'unica autorità del padre di famiglia, alla forma di governo monarchica, e dove insomma i padri sono «i re delle loro famiglie», e sono stati quindi «i primi monarchi del mondo»[36]. In tal modo la monarchia non è soltanto alla fine del ciclo ma è anche al principio, se pure in una forma imperfetta, giacché la famiglia non è ancora uno stato, e lo stato, secondo la tradizione classica che risaliva a Aristotele ed era stata accolta dal Bodin e dal Pufendorf, nasce dalla prima unione dei padri di famiglia. Con le stesse parole del Vico, le «monarchie familiari» non sono da confondere con le «monarchie civili», come risulta bene da questo passo: «Incominciarono i governi dall’uno, con le monarchie famigliari; indi passarono a’ pochi, con l'aristocrazie eroiche; s'innoltrarono ai molti e tutti nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all'uno nelle monarchie civili»[37]. Del fatto poi che i primi stati nati dall'unione dei padri di famiglia fossero aristocratici e non democratici, come aveva ipotizzato o meglio immaginato il Pufendorf, il Vico cerca di dare una spiegazione storica, osservando che l'unione dei padri non fu dovuta puramente e semplicemente alla necessità di uscire dallo stato di natura infermo, instabile e insidioso, ma dall'ammutinamento, dei famoli su cui i padri di famiglia avevano imposto con la forza il loro imperio e che dovettero essere pacificati con la forza, con l'astuzia e con qualche concessione, ma pur sempre con quella ineguale partizione dei diritti e dei beni che contraddistingue un governo aristocratico da uno popolare.

V. La rappresentazione vichiana del corso storico differisce da quella tradizionale, tramandata dai Greci, non soltanto per l'ordine di successione delle diverse costituzioni, ma anche per il senso del movimento storico, che è, si, ciclico come quello prevalente degli antichi, ma è anche progressivo. All'interno di ogni ciclo i modelli prevalenti di movimento erano i due segmenti: regressivo e lineare, come quello descritto con tanta efficacia da Platone nell'ottavo libro della Repubblica, secondo cui dalla forma perfetta di stato discendono le forme via via sempre più imperfette, la timocrazia, l'oligarchia, la democrazia e la tirannia, in un crescendo di degenerazione culminante nella celebre raffigurazione del tiranno, sanguinario e sospettoso, travolto dalla brama di potere, ardente di desideri illeciti, terrorizzante e terrorizzato, massimamente infelice ed egli stesso causa dell'infelicità generale; regressivo e alternato, come quello descritto da Polibio, secondo cui alla prima e più alta forma pura (la monarchia) seguiva la relativa forma corrotta (la tirannia), la quale apriva la strada alla nuova forma pura inferiore (l’aristocrazia), così di seguito sino alla forma corrotta (l’oclocrazia o governo della plebe) della terza forma pura (la democrazia). Il movimento descritto da Vico è invece progressivo e, come si è già detto, anche lineare[38]. In quanto ciclico, ripete il modello classico, ma in quanto progressivo entra a pieno diritto nel novero delle interpretazioni della storia caratteristiche del pensiero moderno. Quando Kant in una nota pagina di uno dei suoi scritti di filosofia della storia espone le possibili concezioni dello sviluppo storico menziona la teoria regressiva o terroristica, per cui la umanità è in continuo regresso verso il peggio, quella progressiva o eudemonistica per cui è in continuo progresso verso il meglio, e quella stazionaria o abderitismo, secondo cui il genere umano rimane eternamente fermo allo stesso punto[39]. Non fa alcun cenno della teoria ciclica, salvo ad adombrarla nell'ultima in cui il bene e il male si avvicendano continuamente e senza un apparente disegno[40]. In realtà la teoria ciclica di Vico non è stazionaria, neppure considerandola ciclo per ciclo: com'è stato più volte osservato, il secondo ciclo inizia ad un grado più alto del primo, proprio nel senso del movimento verso il meglio. Il movimento progressivo avviene non soltanto all’interno del ciclo, ma anche da ciclo a ciclo, o meglio, giacché i cicli storici sono stati soltanto due, almeno sino al momento in cui Vico pone mano alla «scienza nuova», dal primo ciclo al secondo. Oltretutto la barbarie seconda non è soltanto una barbarie, se si può dir cosi meno barbara della prima (basti pensare che il suo inizio coincide con la nascita del cristianesimo), ma rappresenta un avanzamento reale dell'umanità rispetto alla degenerazione cui l’umanità è giunta nel periodo della decadenza dello stato romano, in cui ha fatto la sua apparizione ed ha esteso il suo perverso dominio la peggiore di tutte le barbarie, la «barbarie della riflessione». In uno di quei passi di mirabile forza espressiva che non ci si stancherebbe mai di citare, Vico contrappone al male della decadenza il minor male della barbarie ritornata e quindi ancora un volta rappresenta un moto, nonostante tutto, là dove il ricorso tocca il punto più basso, ascendente. Di contro una «fierezza vile, dentro le lusinghe e gli abbracci», che «insidia alla vita e alle fortune de' suoi confidenti ed amici» sta la «fierezza generosa, dalla quale altri poteva difendersi o campare o guardarsi». Contro le «malnate sottigliezze degl'ingegni maliziosi», contro la «riflessiva malizia», la provvidenza ha fatto in modo che i popoli «così storditi e stupidi, non sentano più agi, dilicatezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilità della vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e, per la ritornata primiera semplicità del primo mondo de’ popoli, sieno religiosi, veraci e fidi»[41].

Essendomi proposto di esaminare la teoria politica di Vico alla luce della tipologia classica delle tre forme di governo mi sono soffermato in modo particolare sul movimento storico che le comprende e che non può non essere triadico. Ma non bisogna dimenticare che il movimento storico quale Vico cerca di interpretare e dominare nella sua complessità è più ampio, comprendendo, oltre lo stato ferino, lo stato delle famiglie e il momento finale della dissoluzione della monarchia che, come già ho detto, Vico chiama genericamente tirannia. Lasciando fuori del momento storico lo stato ferino, le tappe non sono quindi tre ma cinque. Di cinque «sensi politici del genere umano» egli parla in un passo della Scienza nuova prima, e sono, cominciando dall'ultimo, cioè dalla dissoluzione dell'ultima forma di governo, i tiranni, le monarchie, le repubbliche libere, le repubbliche eroiche, i padri monarchi[42]. Altrove, nella Scienza nuova seconda, dove a ogni momento egli fa corrispondere un personaggio storico emblematico, i momenti diventano sei: ai Polifemi corrisponde lo stato delle famiglie, agli Achilli le repubbliche eroiche, agli Scipioni le repubbliche popolari, agli Alessandri e ai Cesari le monarchie, ai Tiberi lo stabilimento delle monarchie, ai Caligoli, Neroni e Domiziani il loro rovesciamento[43]. Altrove, come si è visto in precedenza, in base al criterio del numero, i momenti si riducono a quattro, l’uno, i pochi, i molti e di nuovo l'uno. D'altra parte, il movimento triadico principale secondo il quale è scandito il corso delle nazioni non è quello corrispondente alle tre forme classiche di governo ma è quello tramandato dagli Egiziani, delle tre età degli dèi, degli eroi e degli uomini, che abbraccia anche lo stato delle famiglie, perché all'età degli déi corrispondono i governi «divini», cioè le monarchie dei primi padri, all'età degli eroi, i governi eroici o aristocratici, all'età degli uomini i governi umani, comprendenti tanto le repubbliche popolari quanto le monarchie. Nel capitolo della Scienza nuova seconda dedicato alle «tre spezie di governi», questi non sono le tre forme classiche, ma i governi «teocratici», «ne' quali gli uomini credettero ogni cosa comandare gli dèi», cioè le prime monarchie, i governi eroici o aristocratici «ché tanto dire quanto ‘governi d'ottimati’, in significazione di ‘fortissimi’», nei quali «tutte le ragioni civili erano chiuse dentro gli ordini regnanti de’ medesimi eroi, ed a’ plebei, come riputati d'origine bestiale, si permettevano i soli usi della vita e della natural libertà», e i governi umani, nei quali «tutti si uguagliano con le leggi», e sono le repubbliche popolari, o «i monarchi uguagliano tutti i soggetti con le lor leggi», e sono le monarchie[44]. In altre parole il ritmo triadico di Vico nella sua forma più ricorrente comprende anche lo stato delle famiglie attraverso l'accorgimento, su cui ho già richiamato l'attenzione, della unificazione in una sola «spezie» della democrazia e della monarchia. Al di fuori della triade resta lo stato ferino al principio, e la dissoluzione del governo monarchico alla fine.

Nonostante la ricerca quasi ossessiva della corrispondenza fra le più diverse triadi nella natura dell'uomo in generale e dell'uomo associato, nei costumi, nelle forme religiose e politiche, nella giurisprudenza e nel diritto, nelle lingue e nei caratteri, il sistema vichiano della storia delle nazioni può essere anche ricompreso e reinterpretato diadicamente secondo tre grandi dicotomie: delle quali la prima contrappone il mondo pre‑umano (o presociale) dei giganti erranti nella gran selva della terra in «bestial libertà» al mondo umano (o sociale), che abbraccia le tre specie di governi corrispondenti alle tre età degli dèi, degli eroi e degli uomini; la seconda contrappone l’età prestatale, che comprende tanto lo stato ferino quanto lo stato delle famiglie, all'età in cui sorgono gli stati civili e si svolgono nelle tre forme della repubblica aristocratica, della repubblica popolare e della monarchia; la terza contrappone il mondo della barbarie o i tempi oscuri, che si estendono sino alle repubbliche eroiche, alla storia delle nazioni civili che ha inizio con le repubbliche popolari e si perpetua, sino alla loro estenuazione, nelle monarchie. Fermo restando che i momenti dello sviluppo storico sono cinque, stato ferino, stato delle famiglie, repubbliche aristocratiche, repubbliche popolari, monarchie, la prima dicotomia divide la prima dalle altre quattro, la seconda le prime due dalle altre tre, la terza le prime tre dalle altre due. La grande triade non comprendendo lo stato ferino, come fase che resta al di fuori del corso storico, divide i quattro momenti restanti facendo corrispondere alla prima parte della triade il primo, alla seconda il secondo, alla terza il terzo e il quarto.

Va da sé che diade, triade e altri consimili castellucci concettuali valgono quel che valgono come strumenti per contenere e ordinare una materia traboccante come quella raccolta da Vico attraverso fonti disparatissime. Valgono quel che valgono, non solo per l'interprete ma fortunatamente anche per lo stesso autore che «con brutta incostanza» (ma felice), per riprendere il biasimo che egli muove al Bodin, non riesce sempre a trattenere negli argini che egli stesso si è costruito il fiume impetuoso della passione che lo muove alla scoperta dei principi di un «altro sistema» (proprio così lo chiama) di diritto naturale.

 

a cura di Francesco Iannello

 


* Riprendo il tema già svolto in un capitolo del mio corso, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Torino, 1976, pp. 117-132, e in una conferenza tenuta il 2 ottobre 1976, in occasione dell’inaugurazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli.

[1] Per un ampio sviluppo di questa tesi rimando al mio corso, La teoria delle forme di governo, in cui esamino con questo criterio le teorie di Platone, Aristotele, Polibio, Machiavelli, Bodin, Hobbes, Vico , Montesquieu, Hegel, Marx.

[2] JEAN BODIN, Les six livres de la République (1576), libro II, cap. I, nella trad. italiana di M. Isnardi Parente, Torino, 1964, vol. I, p. 544.

[3] THOMAS HOBBES, De cive (1647), cap. VII e cap. X; Leviathan (1651), cap. XIX.

[4] SAMUEL VON PUFENDORF, De iure naturae et gentium (1676), libro VII, cap. 5.

[5] Nel cap. CXLIV del De uno, intitolato Ordo nascendi sive natura rerumpublicarum merarum, Vico spiega l’ordine di successione delle forme di governo, che non corrisponde né a quello che adotterà nella Scienza nuova, facendolo derivare dalla triade delle forme di conoscenza: la « sensuum tutela », cui corrispondono le repubbliche degli ottimati; la « affectuum libertas  », cui corrispondono le monarchie, qui considerate soprattutto nella loro forma degenerata di « dominatus » (o dispotismo) e di tirannia, attraverso il solito  riferimento ai popoli asiatici « qui summe capiunt sui misereri et unice spectant ad suorum regum largitiones » (come ad esempio il regno di Nino); e  il « dominium rationis », cui corrisponde la repubblica popolare, che è « omnium maxime excogitata ». Nell’ordine di successione della Scienza nuova scompare la monarchia come forma intermedia, la repubblica popolare discende immediatamente dalla repubblica aristocratica, e la monarchia, non più nella sua forma degenerata, compare subito dopo la repubblica popolare come forma alternativa, e anche più perfetta, di dominio della ragione. Nella Scienza nuova prima il mutamento dell’ordine, onde dalle repubbliche aristocratiche derivano le repubbliche popolari, lascia immutato il riferimento alla monarchia di Nino, dalla quale Vico fa cominciare la « storia universale » (cpv. 471). Non diversamente nella Scienza nuova seconda, cpv. 736.

[6] Data una triade, A,B,C, la riduzione a diade può essere compiuta o avvicinando B a C, e staccando A, oppure avvicinando A a B, e staccando C, oppure avvicinando A a C, e staccando B. Nella storia delle teorie delle forme di governo si ritrovano tutte e tre le combinazioni. Date le tre forme in questo ordine, monarchia, aristocrazia, democrazia, la diade di Machiavelli, monarchia o repubblica, è il risultato dell’isolamento di A e dell’unificazione di B e C; la diade della maggior parte dei teorici odierni del diritto pubblico, autocrazia-democrazia, è il risultato dell’isolamento di C e dell’unificazione in una sola categoria di A e B. La diade di Vico è, salvo errore, il solo esempio della terza possibile combinazione, che si ottiene isolando il termine intermedio, B, e unificando i due estremi, A e C. Mi riprometto di tornare su questo argomento, che dimostra quanto siano limitati e quindi monotoni i nostri giochi mentali, in una prossima occasione. 

[7] F. AMERIO, Introduzione allo studio di G.B.Vico, Torino, 1947, in particolare p. 437 e ss. Amerio è tornato sul tema nell’articolo Sulla dialettica vichiana della storia, in AA.VV. , Omaggio a Vico, Napoli, 1968, pp. 115-140. Lo stesso Croce del resto nel capitolo in cui tratta della filosofia della storia vichiana, o più precisamente della « teoria empirica dei ricorsi », parla di « determinazione e illustrazione del nesso tra epoche di prevalenza fantastica ed epoche di prevalenza intellettiva, tra spontanee e riflesse, onde dalle prime escono le seconde per potenziamento e dalle seconde, attraverso la degenerazione e la decomposizione, si torna alle prime » (La filosofia di Giambattista Vico, Bari, 1933³, pp. 133-134), e continua parlando di periodi positivistici contrapposti a periodi spiritualistici nella storia della filosofia, di periodi realistici contrapposti a periodi idealistici nella storia della letteratura, concludendo: « Ecco altrettanti casi di veri e propri ricorsi vichiani » (p. 134); dando in tal modo a divedere di attribuire maggior importanza alla alla diadie che non alla triade. Contra, A. PARENTE, La dialettica nella filosofia. Le divagazioni di di Franco Amerio, in « Rivista di studi crociani », VI, 1969, pp. 393-402, che nega si possa parlare correttamente di dialettica a proposito della concezione vichiana della storia. Sul problema della dialettica in Vico, paragonato a Hegel, si veda il saggio di P. PIOVANI, Vico senza Hegel, in Omaggio a Vico, cit., pp. 553-585, ove fra l’altro si legge « la triade vichiana, non aliena dall’accorcairsi in diade » (p.562).

[8] SAMUEL VON PUFENDORF, De iure naturae et gentium, libro VII, cap. 5, § 14. Il tema del governo misto era stato al centro della discussione sull’opera che Pufendorf sotto lo pseudonimo di Severino di Mozambano aveva pubblicato intorno alla costituzione dell’impero, De statu imperii germanici (1667), in cui aveva negato la communis opinio che l’impero tedesco fosse da annoverarsi fra i governi misti e sostenuto essere l’impero una forma di governo irregolare, anzi mostruosa. Da notare che Vico, rifiutando la teoria tradizionale del governo misto, afferma che governi in cui fossero mescolate le diverse forme « sarebbero mostri » (Scienza nuova seconda, cpv. 1004).

Già Hobbes, del resto, per condannare il governo misto l’aveva considerato una forma mostruosa, ricorrendo a questa forte immagine: « Non so a quale malattia del corpo naturale di un uomo io possa esattamente paragonare questa irregolarità di uno stato. Però ho visto un uomo che aveva un altro uomo che gli veniva fuori dal fianco, con una testa, delle braccia, un petto e uno stomaco propri; se avesse avuto un altro uomo dall’altro lato, allora il paragone avrebbbe potuto essere esatto  »  (Leviathan, cap. XXIX, nella trad. it. di G. Micheli, Firenze, 1976, p. 325).

[9]  Nel cap. CLVII del De uno, intitolato De rebuspublicis mixtis, Vico sostiene che forme di governo pure possono diventare miste mediante patto. Il che accade quando chi detiene il sommo potere è costretto a sottomettersi al potere altrui per propria difesa. In questo caso il potere civile che ha sottomesso la propria sovranità ad altri è necessario trattenga una qualche parte della libertà per conservare la quale ha implorato l’aiuto altrui, onde segue fra questi e il protettore un’alleanza inuguale (foedus inaequale). Molte sono le forme che possono assumere i governi misti così intesi. Vico si sofferma a illustrare ciò che avvenne nella repubblica romana in un primo tempo quando, in occasione dello stupro di Lucrezia commesso dal figlio del re Tarquinio, L. Giunio Bruto, a nome degli ottimati, chiese aiuto al popolo e fondò in tal modo la libertà romana; in un secondo tempo, quando gli ottimati implorarono la protezione del popolo e ne nacque un governo fondato precipuamente sulla libertà « sed cum aliqua optimatium mixtura »; infine, quando il popolo per sfuggire alle prepotenze degli ottimati chiese aiuto a uno solo, e venne fondato il regno  « sed cum aliqua libertatis temperie ». Conclude che le repubbliche pure per loro natura possono diventare miste in in seguito a un patto, giacchè la natura degli stati, come dei contratti, può essere mutata mediante patti. L’osservazione di Vico che è impossibile enumerare tutte le cause che possono dare origine a governi misti perché  « innumera rerumpublicarum mixtarum genera esse possunt, uti certa contractus natura pactis variari in immensum potest » corrisponde all’osservazione con cui Pufendorf dà inizio al paragrafo in cui illustra con esempi la specie delle repubbliche irrregolari: « Caeterum irregularium reipublicae formarum neque certus iniri numerus, neque certae constitui species queunt, propter magnam varietatem, quae heic revera occurrit, aut animo fingi potest  » (De iure naturae et gentium, VII, 5, § 15).

[10] Al tema dell’unità (e quindi indivisibilità) del sommo potere Vico dedica il § 2 del cap. CLI del De uno, intitolato In unaquaque respublica unus summus, citando il passo di Tacito:  « Unum esse reipublicae corpus, et unius animo regendum ». L’autorità di Tacito era invocata abitualmente dai critici del governo misto (anche da Bodin), e Vico stesso la invoca nella Scienza nuova seconda, sia nell’Idea dell’opera (cpv. 29) sia nel capitolo dedicato appositamente al problema del « temperamento delle repubbliche », ove si legge: « Onde Tacito […], dice […] che, oltre a queste tre forme di Stati pubblici, ordinate dalla natura de’ popoli, l’altre di queste tre, mescolate per umano provvedimento, sono più da disiderarsi dal cielo che da potersi unquemai conseguire, e, se per sorte ve n’hanno, non sono punto durevoli » (cpv. 1004). Per Tacito si veda Ann., IV, 33, dove si legge il testo parafrasato da Vico (e riportato anche da Bodin, trad. cit., p. 561): « Num cunctas nationes et urbes populus aut primores aut singuli regunt: delecta ex his et consociata reipublicae forma laudari facilius quam evenire; vel, si evenit, haud diuturna esse potest ».

[11] JEAN BODIN, Le six livres de la République, trad. cit., p. 544. I rapporti di Vico con Bodin sono stati variamente illustrati, a cominciare dalle frequenti annotazioni di F. NICOLINI, nel Commento storico alla Seconda scienza nuova, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1949 (soprattutto al cpv. 663, I, p. 294). Per il tema qui trattato particolarmente importante il saggio di M. D’ADDIO, Il problema della politica in Bodin e in Vico, in  « Rivista di studi salernitani », II, 1969, n. 4, pp. 3-100.

[12] Scienza nuova seconda, cpv. 1004. A dire il vero una Dignità che corrisponda esattamente a questa affermazione non esiste. Nicolini cita la Dignità LXXI che dice: « I natii costumi, e sopra tutto quello della natural libertà, non si cangiano tutti ad un tratto, ma per gradi e con lungo tempo » (cpv. 249, e il Commento di Nicolini al cpv. 1004, II, p. 98).

[13] Scienza nuova seconda, cpv. 1005 e 1006. Diverso però è il caso descritto in questo modo:  « perché nelle repubbliche libere per portarsi un potente alla monarchia vi deve parteggiare il popolo, perciò le monarchie sono le più conformi all’umana natura della spiegata ragione » (cpv. 1008)

[14] Mi riferisco al saggio sopra citato di D’Addio, nel quale l’autore sostiene che nella spiegazione del governo misto Vico abbia fatta propria la distinzione bodiniana fra status civitatis e ratio gubernandi (Il problema della politica in Bodin e Vico, cit., p. 81).

[15] Per fare un altro esempio sempre tratto dalla storia di Roma, Bodin aveva potuto sostenere che in base alla Lex regia, per la quale il principe esercita la propria potestà perché gli è stata conferita dal popolo, lo stato romano ai tempi del principato era uno stato democratico governato monarchicamente (Les six livres de la République, libro II, cap. I, trad. cit., pp. 564-566).

[16] Basti ricordare qui quel che scrive Bodin del regno di Danimarca dove « il re e la nobiltà si dividono la sovranità » con la conseguenza che « proprio per questo quello stato non ha pace […] ed è una corruzione di stato piuttosto che un vero stato » (Les six  livres de la République, libro II, cap. I, trad. cit., p. 562). Quanto a Hobbes, assertore intransigente e coerente dell’unità del potere, la sua polemica contro i fautori dello stato misto è in tutte le sue opere politiche ricorrente. Si veda, per tutti, il brano del De cive, VII, 4, dove espone il suo pensiero nella forma dilemmatica che gli è abituale: « […] sinché tutti i poteri sono concordi fra loro, la soggezione di ogni singolo cittadino è cosí grande che non potrebbe essere maggiore, se invece nasce qualche dissenso, si arriva ben presto alla guerra civile e al diritto di spada privata, ciò che è peggiore di ogni soggezione ».

[17] Scienza nuova seconda, cpv. 1097.

[18] Scienza nuova seconda, cpv. 1108.

[19] Scienza nuova seconda, cpv. 1108.

[20] B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, cit., pp. 173-190.

[21] Sui rapporti tra Machiavelli e Polibio, G. SASSO, Machiavelli e la teoria dell’anacyclosis, in « Rivista storica italiana », LXX, 1958, pp. 333-375; ID, Polibio e Machiavelli: costituzione, potenza, conquista, nel vol. Studi su Machiavelli, Napoli, 1967, pp. 223-280.

[22] Scienza nuova seconda, cpv. 1106.

[23] A dire il vero, nel De uno c’è ancora un capitolo dedicato alla sequenza classica delle forme buone e delle forme cattive, in cui ogni forma cattiva serve di passaggio alla successiva forma buona, ma nella Scienza nuova questo luogo comune della filosofia politica classica è ormai dissolto nella rappresentazione non schematica, non scolastica, non convenzionale, potentemente drammatica, delle vicende umane.

Mi riferisco al cap. CLIII del De uno che descrive brevemente e senza alcuna originalità l’ordine con cui avviene la corruzione delle repubbliche, partendo, ed è questo l’unico elemento nuovo, dalle repubbliche degli ottimati; dalle quali nascono le fazioni che fanno emergere i promotori delle repubbliche popolari; per la corruzione delle quali il popolo trova scampo nel rifugiarsi sotto l’autorità di uno solo; sino a che anche la monarchia degenerando in tirannide provoca nel popolo il desiderio di nuovo mutamento. Si confronti questo capitolo con il capitolo conclusivo della Scienza nuova seconda in cui Vico riassume in poche efficacissime pagine le varie fasi della storia universale dalla barbarie prima alla barbarie seconda, e ci si renderà conto della distanza che separa l’abbozzo dall’opera conclusa.

[24] Scienza nuova seconda, cpv. 292.

[25] Scienza nuova prima, cpv. 174.

[26] Mi limito a ricordare l’importanza che dà al tema dell’antagonismo come molla della storia del pensiero del Vico D. PASINI, Diritto e stato in Vico, Napoli, Jovine, 1970, specie da p. 171 in poi, in particolare p. 226; e che questo è uno degli argomenti della vasta letteratura su Vico e Marx, su cui da ultimo E. KAMENKA, Vico and Marxism, in Giambattista Vico. An Intellectual Symposium, a cura di G. Tagliacozzo, Baltimore, 1969, pp. 137-143.

[27] Mi riferisco a due brani già citati, quello in cui Vico parla degli eroi diventati « tanti tiranni », che fa pensare alla classica « mutazione » dell’aristocrazia in oligarchia (Scienza nuova prima, cpv. 174); e quello in cui la repubblica popolare degenera nell’anarchia ovvero nella « sfrenata libertà de’ popoli liberi », secondo lo schema clasico della corruzione della democrazia in olocrazia (Scienza nuova seconda, cpv. 1102).

[28] MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, XVIII, 11.

[29] Questo modo tutt’altro che nuovo di considerare la filosofia della storia di Vico non intende escludere la ben nota interpretazione crociana secondo cui la Scienza nuova non è tanto una filosofia della storia quanto un abbozzo di filosofia dello Spirito, che avrebbe per oggetto non  « le estrinseche e vuote forme politiche », ma « le forme di cultura, che abbracciano in sé tutti gli atteggiamenti della vita, l’economia e il diritto, la religione e l’arte, la scienza e il linguaggio », sicchè, « riportandole alla loro intima fonte, che è lo spirito umano, ne stabilisce la successione secondo il ritmo delle elementari forme dello spirito » (La filosofia di Giambattista Vico, cit. p. 128); ma soltanto sottolineare, nonostante il poco conto in cui la tiene il Croce, il rilievo preminente che ha per Vico la successione delle forme di governo per la ricostruzione dei corsi e ricorsi storici, come mostrano ad abbondanza sia la conclusione dell’opera che contiene esclusivamente una una esposizione sintetica delle varie forme in cui la « eterna repubblica naturale » si dispiega nelle diverse età, sia la frequente polemica che egli conduce contro gli scrittori politici antichi e moderni che non avrebbero « inteso il ricorso che fanno le nazioni, secondo il quale si conducono le forme politiche da noi scoverte per gli principi di questa Scienza » (Scienza nuova seconda, cpv. 1387). Il passo della Scienza nuova prima (cpv. 78) che Croce cita per dimostrare la scarsa considerazione che Vico avrebbe avuto per la teoria classica dei cicli, là dove invita i lettori a considerare « quanto i filosofi abbiano con iscienza meditato sui principi dei civili governi, e quanto con verità Polibio abbia ragionato sulle loro mutazioni », dimostra a mio parere proprio il contrario, perché ricorre in un contesto in cui Vico intende opporre non già il proprio criterio generale di concepire la storia ad un altro, ma l’ordine di successione delle forme di governo da lui scoperto a quello dei classici, onde « nelle nazioni già fornite di lingue convenute, i governi mutar si possono di monarchici in popolari ed a rovescio; ma nella storia certa di tutti i tempi di tutte le nazioni non mai si legge che, in tempi umani e colti, alcun de’ due siasi cangiato in aristocratico » (cpv. 78).

[30] Scienza nuova seconda, cpv. 107 e cpv. 619-621.

[31] Il passo, che si trova in De cive, X, 1, termina con queste parole: « Denique extra civitatem, imperium affectuum, bellum, metus, paupertas, foeditas, solitudo, barbaries, ignorantia, feritas. In civitate, imperium rationis, pax, securitas, divitiae, ornatus, societas, elegantia, scientia, benevolentia ».

[32] Scienza nuova prima, cpv. 476.

[33] Scienza nuova seconda, cpv. 29 e cpv. 1018. Questo elenco di governi aristocratici è tratto, come è stato già notato da Nicolini (Commento storico, cit., II, p. 103), dal Bodin, il quale, nel cap. VI del libro II dei Six livres de la République dedicato alla forma di governo aristocratica, si sofferma nella sua esemplificazione storica su Genova, Venezia, Lucca, Ragusa, Norimberga (vedi in particolare trad, cit., p. 636).

[34] PUFENDORF, De iure naturae et gentium, VII, 5, § 4.

[35] Scienza nuova seconda, cpv. 26.

[36] Scienza nuova prima, cpv. 132, e Scienza nuova seconda, cpv. 256.

[37] Scienza nuova seconda, cpv. 1026.

[38] Sulla concezione « rettilinea » o « evolutiva » della storia in Vico, con particolare riguardo alla storia romana, si vedano le osservazioni di S. MAZZARINO, Vico, l’annalistica e il diritto, Napoli, 1971, passim, e più precisamente a p. 70-71: « Non potremo intendere il pensiero di Vico, se non accentuiamo, nel suo procedere metodico, il presupposto di una evoluzione graduale e progressiva, senza salti o svolte, nell’ambito della storia romana ».

[39] I. KANT, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, 1956, pp. 214-216.

[40] « Il risultato ne sarebbe la inerzia […], un’attività a vuoto, un succedersi di bene, di male, di progresso e di regresso, per cui l’intero gioco degli scambi reciproci della nostra specie su questa terra dovrebbe considerarsi come un gioco da marionette » (p. 216).

[41] Scienza nuova seconda, cpv. 1106.

[42] Scienza nuova prima, cpv. 138 e 140.

[43] Scienza nuova seconda, cpv. 243.

[44] Scienza nuova seconda, cpv. 925-927.

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