ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
CARLO IANNELLO Note sul federalismo
Nell’aprile del 1848 tramontò definitivamente l’idea che l’unità d’Italia potesse realizzarsi attraverso l’unione federale tra i sette stati preunitari. Dopo di allora il tema del federalismo non è stato più affrontato in maniera conforme al suo significato storico, ossia come percorso politico in grado di realizzare l’unità statuale fra enti prima sovrani, così come è accaduto negli Stati Uniti d’America, in Svizzera o in Germania, ma si è sovente confuso con una diversa questione, quella relativa alle autonomie locali.
Come è stato autorevolmente osservato, in Italia tale dibattito si è spesso ricollegato «alla messa in discussione dell’unità stessa»[1]: è stato cioè il frutto di una contestazione dell’unità politica realizzata con lo Stato unitario uscito vittorioso dalle vicende del Risorgimento italiano, e si è caratterizzato, il più delle volte, esprimendo un desiderio per un «ritorno al passato preunitario»[2].
Altra caratteristica negativa del dibattito in questione è stata la forte connotazione ideologica: vi è stato, e vi è ancora oggi, «un uso ideologico dell’autonomismo che, con diversi accenti, si ritrova in tutta la storia italiana, e che raramente ha condotto a formulare risposte tecniche concrete ai problemi del momento»[3]. In altri termini, la concessione di ampie autonomie rappresenterebbe, di per sé sola, la risposta ai gravi problemi, non solo amministrativi, ma anche sociali, della penisola.
Nei decenni successivi l’Unità d’Italia, tuttavia, l’interesse per la questione delle autonomie locali diminuì progressivamente, salvo ridestarsi durante i lavori dell’Assemblea Costituente, nel cui seno si scontrarono due posizioni: una, portata avanti dai cattolici e dagli azionisti, favorevole alla istituzione delle Regioni; l’altra, sostenuta anche da comunisti e socialisti, nettamente contraria alla concessione della potestà legislativa ad enti diversi dallo Stato.
In Costituente, tuttavia, il dibattito sul decentramento prese una piega molto diversa da come esso si era sviluppato negli anni immediatamente successivi all’Unità: oggetto della discussione non fu più esclusivamente la previsione di amministrazioni regionali differenziate, ma, per la prima volta, si propose di attribuire alle Regioni anche il potere legislativo. Si cominciava in tal modo a intaccare uno dei tratti caratterizzanti dello Stato unitario ereditato dal Risorgimento, e cioè la esclusiva titolarità del parlamento nazionale della funzione legislativa.
Come è noto, a prevalere furono le posizioni cattoliche, sicché la Costituzione repubblicana approvata nel 1948 istituì l’ordinamento regionale, e concesse ai nuovi enti territoriali anche il potere legislativo, limitatamente alle materie elencate nell’art. 117 Cost.; per soddisfare comunque le esigenze di carattere unitario, nelle stesse materie attribuite alla potestà legislativa regionale si attribuì parallelamente allo Stato il compito di emanare delle leggi cosiddette cornice, con le quali individuare i principi fondamentali delle materie elencate nell’art. 117 a cui le regioni si sarebbero dovute attenere nell’esercizio del potere legislativo loro attribuito.
La vicenda successiva, relativa all’attuazione dell’ordinamento regionale, è efficacemente affrontata nell’introduzione dell’Inganno federalista, così come quella relativa al dibattito sul federalismo che si è sviluppato nel corso degli anni Novanta, determinato dall’ascesa politica della Lega Nord. A tale proposito, si può aggiungere che la Lega Nord è riuscita a condizionare l’agenda politica italiana, indipendentemente dalla maggioranza di governo, attraverso una continua azione di propaganda ideologica priva di qualsiasi riferimento culturale, che ha fatto leva esclusivamente sugli istinti egoistici degli abitanti delle regioni economicamente più avanzate.
Il dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni in Italia sul federalismo non è solo inficiato dal vizio originario di essere nato in un ordinamento statale già unito, e quindi in mancanza del presupposto storico che ha determinato la formazione degli ordinamenti federali, ma si è posto addirittura in controtendenza rispetto alle dinamiche che si sono manifestate negli stessi ordinamenti federali durante lo scorso secolo. Gli Stati federali, nati nel periodo liberale in virtù di un processo di integrazione di ex realtà statuali indipendenti, hanno realizzato un costante processo di accentramento delle funzioni esecutive e legislative durante tutto il corso del XX secolo.
Nel XIX secolo, in un periodo storico in cui il ruolo dei pubblici poteri era ristretto quasi esclusivamente alla difesa, alla giustizia e alla sicurezza interna, il federalismo assunse un carattere che la dottrina giuspubblicista ha definito duale. In questo contesto, le attribuzioni degli stati membri erano dotate di ferree garanzie, e i loro poteri erano rigidamente separati da quelli dello Stato federale. Attraverso l’aggettivo duale, dunque, si è voluto mettere in evidenza la caratteristica saliente dello stato federale nel periodo liberale, cioè la netta separazione delle rispettive sfere di competenza che caratterizzava i rapporti tra Stato centrale e membri. Una siffatta rappresentazione, peraltro, corrispondeva alle stesse intenzioni dei costituenti americani: si legge nel Federalista, cioè nel «liber sapientiae dello Stato federale»[4], che «La Costituzione [federale], lungi dall'implicare una abolizione dei governi statali, li rende parti costituenti di una nazione sovrana, concedendo loro una diretta rappresentanza in Senato, e lasciando nelle loro mani una buona parte della sovranità. Il che corrisponde in pieno al concetto di governo federale in ogni possibile e ragionevole estensione del termine»[5].
Durante il corso del XX secolo, tuttavia, il progressivo aumento delle funzioni pubbliche ha prodotto una lenta ma constante trasformazione dello Stato federale, che si è andato sempre più accentrando. La dottrina ha utilizzato il termine cooperativo per descrivere il nuovo modo di atteggiarsi degli ordinamenti federali. Nel contesto dello Stato sociale, in cui ai pubblici poteri è richiesto un massiccio intervento in tutti i settori della vita economica, al fine di assicurare ai cittadini degli standards minimi, ed eguali per tutti, nella fruizione dei servizi sociali, il centro ha progressivamente eroso i poteri degli Stati membri. Il maggiore grado di accentramento raggiunto dagli ordinamenti federali è stato tuttavia ‘compensato’ da una diffusa previsione di forme collaborative: l'affermazione del «modello costituzionale ‘sociale’» ha cioè determinato «una profonda modificazione nel sistema liberale della divisione ‘orizzontale’ dei poteri», nel senso che le «competenze normative dello Stato centrale sono ora sempre estesissime in campo economico-sociale, anche se di questo campo non coprono necessariamente tutti i settori; esse non escludono in genere analoghe competenze degli Stati membri nelle stesse materie, ma si sovrappongono a queste e, nella concorrenza, prevalgono su di esse, talvolta e anche spesso lasciando spazi alla legislazione periferica che viene così in qualche modo a ‘cooperare’, da posizione subordinata, con quella centrale»[6]. È stato a tale proposito significativamente affermato che «nella realtà attuale il sistema federale non appare più, come era all’origine dell’esperienza statunitense, un presidio della libertà dei cittadini e degli Stati ma piuttosto come un modo per ridistribuire le ricchezze e ridurre le diseguaglianze esistenti nell’ambito della federazione»[7].
Gli studiosi giuspubblicisti fanno risalire la modificazione del federalismo americano cui si è fatto cenno agli anni del New Deal[8], in cui il sistema federale ha subito la trasformazione da sistema dualista a sistema cooperativo, nel cui solco è andato ulteriormente evolvendosi.
Il diverso modo di atteggiarsi che ha assunto l’ordinamento federale ha condotto la dottrina a ritenere che tale forma di Stato rappresenti un sottotipo di quello unitario[9]: «lo Stato federale non è una distinta forma di Stato, ma si risolve piuttosto in una formula atta a distinguere gli ordinamenti statali che attuano al loro interno il più alto grado di decentramento compatibile con la loro unità». In altri termini, oggi non sembra negabile non solo la netta superiorità della costituzione federale su quelle statali ma anche del diritto federale su quello degli Stati[10]. Sulla base dei dati di diritto positivo provenienti dalle costituzioni federali, la dottrina ha pertanto superato la visione che individua lo Stato federale come composto, ritenendo che esso si risolva piuttosto in «uno Stato politicamente decentrato».
Occorre tuttavia avvertire che sono state registrate recenti tendenze, di segno opposto, necessarie per comprendere i processi di decentramento in atto. È stato infatti messo in evidenza che negli ultimi anni[11] si assiste ad una tendenza definita di federalismo centrifugo; tendenza, si badi, che non ha nulla in comune con il federalismo classico. È stato efficacemente osservato che «Il federalismo centrifugo che punta oggi ad affermarsi è, in definitiva, un modello di organizzazione sociale che contiene, geneticamente, in sé i presupposti della secessione». Esso sarebbe un effetto della mondializzazione delle economie che mette i territori in competizione tra loro per cui quelli più ricchi vorrebbero svincolarsi dagli obblighi di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza alla comunità nazionale. Dimostrazione ne è la circostanza che tali tendenze si manifestano in Europa con riguardo ai territori più ricchi, come la Catalogna o il Nord Italia. Si tratta, in sintesi, di un ‘neofederalismo’, come avverte Gianni Ferrara, che ha identificato nella riforma del titolo V il frutto di tali tendenze disgregatrici.
Come osservato, sia la riforma del titolo V, sia la progettata revisione costituzionale del centro-destra, si pongono in controtendenza non solo rispetto all’origine storica del federalismo, ma anche in contraddizione con le vicende che gli ordinamenti federali hanno attraversato nel corso del XX secolo. Tali processi di decentramento, invero, sono espressione di quella recente tendenza, appena citata, di dimensioni globali, che, da un lato, pone in discussione l’esistenza di forti poteri statuali e, dall’altro, favorisce il rafforzamento delle unità sub-statali. Il tentativo di riduzione del ruolo dell’ente Stato, infatti, è chiaro nel contesto normativo della riforma del titolo V. L’art. 114 della Costituzione, novellato nel 2001, sancisce che la Repubblica è ‘costituita’ da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, consentendo all’interprete anche la possibilità di desumere un rapporto di parità tra tutti gli enti ivi nominati. Sebbene in sede interpretativa sono state prospettate soluzioni diverse, in linea di continuità con la tradizione giuridica che vede nello Stato l’espressione unitaria della Repubblica, è indubbio che il tenore letterale di tale norma svela un tentativo di riduzione del ruolo dell’ente Stato, specie con riguardo alla sua superiorità rispetto agli ordinamenti degli altri enti territoriali.
Allo stesso modo può anche essere interpretato il nuovo art. 117, che attribuisce allo Stato una potestà legislativa limitata alle sole materie ad esso specificamente attribuite, alle Regioni una potestà legislativa di carattere generale, ossia in tutte quelle materie che non sono espressamente menzionate dallo stesso art. 117 Cost. Mentre nell’impostazione originaria della Costituzione la potestà legislativa di carattere generale, ossia in tutte le materie non espressamente elencate, spettava allo Stato, il nuovo articolo 117 ha compiuto un vero e proprio ribaltamento. La cultura sottesa a questa impostazione si pone anche in contraddizione con gli stessi principi affermati nella prima parte della Costituzione, primo fra tutti quello d’eguaglianza. L’ampiezza del potere legislativo attribuito alle regioni con il nuovo titolo V, infatti, ha preoccupato alcuni costituzionalisti, come Giuseppe Ugo Rescigno, il quale ha affermato, a tale proposito, che «se l’eguaglianza, almeno quella davanti alla legge, principio schiettamente borghese, è ancora un valore, e lo è per noi, allora bisogna ribadire che solo la legge, la quale disciplina tutti, permette tale eguaglianza. La legge regionale per definizione crea disuguaglianza tra i cittadini». Inoltre, a differenza delle stesse costituzioni federali, nel nuovo Titolo V manca anche una clausola espressa per affermare la prevalenza del diritto federale su quello statale.
Occorre osservare infine che in Italia, dai tempi dell’Assemblea Costituente ad oggi, il dibattito sull’ampliamento dei poteri degli enti territoriali non si è mai sopito, nonostante che a diverse riprese la politica abbia assecondato le istanze autonomiste e provveduto ad ampliare i poteri delle autonomie territoriali. Dopo la prima regionalizzazione, avvenuta nel 1970, infatti, nel 1977, con il D.P.R. 616 venne attuata un’ulteriore devoluzione di competenze alle Regioni. Successivamente, nel 1997, con la legge n. 59 è stata realizzata un’altra ampia cessione di potestà amministrativa alle regioni. In particolare, il legislatore ha trasferito al complesso degli enti territoriali minori, buona parte delle funzioni amministrative, riservando all’amministrazione centrale dello Stato solo alcune materie, espressamente elencate nella legge stessa. Nel 2001, come ricordato, la stessa Costituzione è stata radicalmente modificata per ampliare i poteri legislativi e amministrativi delle regioni, realizzando un’ampia devoluzione di poteri alle Regioni e agli enti locali. Proprio in questi mesi, inoltre, è in discussione in Parlamento un nuovo disegno di legge di revisione costituzionale, presentato dal governo di centro-destra, che si propone, tra l’altro, di ampliare ulteriormente i poteri delle Regioni.
Può conclusivamente osservarsi che proprio il dibattito di questi giorni dovrebbe rendere evidente la fallacia della motivazione generalmente addotta a giustificazione dei processi di devoluzione dei poteri: ossia la supposizione che così operando possano almeno essere sedate le spinte autonomiste. Al contrario, l’autonomismo è un processo che si autoalimenta per cui ogni nuova concessione di poteri produce nuove richieste di maggiori poteri, innescando una reazione a catena dagli esiti imprevedibili quanto preoccupanti. Erano state profetiche, a tale proposito, le parole pronunciate da Benedetto Croce e da Francesco Saverio Nitti in Assemblea costituente quando avevano ammonito le forze politiche che con la concessione delle autonomie regionali si sarebbe instaurato un processo inarrestabile, potenzialmente in grado di condurci fino alla disgregazione dell’Unità d’Italia.
[1] R. Ruffilli, La questione del decentramento nell’Italia liberale, in Quaderni fiorentini, 1976, p. 299, il quale nota come in Italia la battaglia contro l’accentramento politico «trae alimento da un contestazione della ‘unità politica’, realizzata attraverso uno ‘stato nuovo’, e sentita come il frutto di un ‘colpo di mano’» con la conseguenza che «viene messa in discussione la validità della unità stessa e del monopolio giuridico e politico ad essa collegato, e si punta alla sua revisione, in chiave di pluralismo, con il ritorno al passato preunitario o con l’avvento di un sistema federale»; questo legame tra le richieste autonomiste e la contestazione del nuovo ordine uscito vittorioso dal Risorgimento è messo in evidenza da R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in R. Romanelli, Storia dello Stato italiano dall’unità ad oggi, Donzelli, Roma 1995, pp. 125-140.
[2] R. Ruffilli, La questione del decentramento nell’Italia liberale, cit., p. 299.
[3] Ibidem.
[4] N. Bobbio, in «L’Italia e l’Europa», gennaio-agosto 1975, Anno V, n. 78, p. 29.
[5] A. Hamilton, Il Federalista, ed. it., con introduzione di G. Ambrosiani, e appendici di G. Negri e M. D’Addio, trad. di B. M. Tedeschini Lalli, Pisa 1955, p. 55. Deve tuttavia osservarsi che subito dopo la creazione della federazione si formò in America un pensiero costituzionalista avverso al federalismo il quale negava che con la Costituzione di Filadelfia si fosse in realtà costituita una nuova nazione sovrana: sul presupposto dell’unicità della sovranità, si negava il progresso compiuto con la Costituzione di Filadelfia, ritenendo che nulla fosse cambiato rispetto al passato, che si fosse ancora in presenza di una Confederazione di Stati, che non intaccava l’indipendenza e la sovranità degli Stati membri. Era questa la tesi di J. C. Calhoun, sulla quale si veda A. La Pergola, Sguardo sul federalismo e i suoi dintorni, in «Diritto e Società», 1992, pp. 493 e ss. Si tratta in realtà di posizioni antifederaliste, sostenute politicamente dagli Stati del Sud i quali diedero luogo alla secessione nel 1865 e strumentali alla difesa degli States rights e del diritto di nullification, cioè il diritto degli Stati membri di invalidare le decisioni del livello federale. J. C. Calhoun, Discorso sul governo e sulla Costituzione degli Stati Uniti, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1986, p. 145.
[6] G. Bognetti, Federalismo , in «Digesto delle Discipline Pubbliche», 1991, dove si mette chiaramente in evidenza il superamento della ripartizione dei poteri fra Stato centrale e Stati membri tipica del periodo liberale: sull'argomento si veda anche De Vergottini, Stato federale, cit., p. 850, il quale afferma che a partire «dal New Deal gli organi federali, appoggiati dagli orientamenti della Corte Suprema, hanno dato una interpretazione della costituzione che ha progressivamente esteso le competenze di intervento regolatore non solo a tutti gli aspetti dell'economia, ma all'insieme della vita sociale americana tanto quanto basta per rendere gli Stati membri entità politico amministrative subordinate».
[7] F. Pizzetti, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Giappichelli, Torino 1996, pp. 22-23.
[8] Sul punto cfr. A. La Pergola, Un momento del federalismo statunitense: entra in scena il «new deal», in Scritti in onore di Costantino Mortati, Giuffrè, Milano 1977, pp. 663 e ss.
[9] Livio Paladin, Diritto costituzionale, Cedam, Padova 1991, p. 55.
[10] M. Volpi, Stato federale e Stato regionale: due modelli a confronto, in G. Rolla (a cura di), La riforma delle autonomie regionali, esperienze e prospettive in Italia e Spagna, Giappichelli, Torino 1995, pp. 33 e ss.
[11] C. De Fiores, Secessione e forma di Stato, in C. De Fiores, D. Petrosino, Secessione, Ediesse, Roma 1996.