ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
ANTONIO GARGANO: INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA GRECA. Da Talete a Parmenide
PARMENIDE
Le contraddizioni del pensiero pitagorico, che avevano portato al suo superamento, mostravano che la realtà è continua, che il vuoto non esiste. Ma, se è cosi, la realtà non è divisa in parti, non è una somma di realtà minori, bensì è unitaria. Continuità e unità della realtà sono appunto affermate dalla scuola Eleatica, dapprima con Senofane, con l’affermazione del Dio-uno contro il politeismo antropomorfico, poi con Parmenide, che afferma l’unità dell’essere, infine con Zenone, il quale trova argomenti a favore dalla continuità della realtà.
Parmenide tira le conseguenze della diversità dei possibili approcci conoscitivi alla realtà che già i suoi predecessori avevano individuato: conoscenza sensibile e intellettuale. La prima — egli afferma con decisione — è illusoria e trae in errore, infatti il mio stato corporeo può variare (sanità, malattia) fornendomi impressioni diverse della realtà (ora avvertirò un oggetto come caldo, ora come freddo) e d’altra parte le sensazioni di individui diversi sono a volte antitetiche (un daltonico scambierà il verde con il rosso, una persona miope non scorgerà oggetti distanti, ecc.). La via dei sensi andrà dunque respinta come fallace, come via delle opinioni (dòxai). In contrapposizione a questa, l’intelletto mostra la via della verità (alèteia).
Mentre i sensi ci mettono di fronte alla molteplicità e al divenire, implicanti il non essere, il pensiero afferma in maniera inequivocabile: «l’Essere è, il non-essere non è». Tra pensiero ed essere vi è infatti una strettissima connessione: non si può pensare se non l’essere. Nel momento in cui si pensa il non-essere, il niente, il vuoto, questi diventano essere, perché «sono» in quanto pensati. Il pensiero non può essere vuoto, è sempre pensiero di qualche cosa, anche quando questo qualche cosa è il vuoto stesso. Procedendo con metodo deduttivo (traendo cioè le conseguenze logiche da un’affermazione iniziale), Parmenide dimostra che l’essere è uno, continuo, immobile, immutabile ed eterno.
È uno in quanto se vi fosse un altro Essere questo coinciderebbe con l’Essere stesso in quanto non potrebbe essere separato da esso: altrimenti, infatti, si dovrebbe ammettere l’esistenza del non-essere come elemento di separazione. La realtà è dunque continua e una. L’Essere è immobile in quanto se si muovesse dovrebbe muoversi verso altro da sé, ma altro rispetto all’Essere è il non-essere. Dal momento che il non-essere non è, l’Essere è immobile.
È inoltre immutabile perché se divenisse dovrebbe divenire altro da sé, cioè non-essere, ma il non-essere non è, dunque l’Essere è immutabile.
È infine eterno, perché se fosse stato generato avrebbe dovuto esserlo dal non-essere (il che è impossibile perché il non-essere non è) o dall’Essere stesso (e questo implicherebbe che l’Essere preesiste a se stesso).
Con la sua affermazione dell’àrchè come Essere (simboleggiato nello Sfero, una figura perfettamente compatta, equilibrata e priva di discontinuità), Parmenide si contrappone ad Eraclito, come filosofo del divenire. I due pensatori sono però accomunati da una decisa polemica contro il senso comune, contro l’opinione. Eraclito critica duramente i «dormienti», coloro cioè che si abbandonano alla opinione, che non seguono la via rigorosa del logos; Parmenide definisce «ciechi» coloro che si affidano al senso, che non si rendono conto che l’unica via per penetrare la realtà oltre l’apparenza è la via del pensiero.
Le due vie di Parmenide, la giusta e la sbagliata, quella della ragione e quella dei sensi, hanno anche un significato morale. Esse significano la scelta, davanti alla quale ogni uomo si trova con la sua responsabilità, fra una vita moralmente buona, protesa all’universale, e una vita che si chiude angustamente nell’individuale.
Una scuola, forse una setta, quella di Parmenide. che in Elea-Velia affondò profonde radici, la cui pianta non è ancora del tutto esplorata. Certamente una scuola che ha lasciato profonde influenze nella terra feconda di filosofi della Magna Grecia e che, come qualche recente ritrovamento archeologico e felici intuizioni di Giovanni Pugliese Carratelli fanno intravedere, potrebbe aver avuto un risvolto medico-terapeutico (in quello stesso territorio, mille e più anni dopo, germogliò la Scuola Medica Salernitana!). Si può anche pensare che la sacra Y a due bracci che vediamo su monumenti funebri posteriori di ambito neopitagorico, e che simboleggia la decisione del defunto di fronte al bivio della vita fra vizio e virtù, risalga al venerando Parmenide e alle sue due vie.
Appunto la via giusta è quella della legge della ragione, è madre della legge umana, di ciò che permette un rapporto stabile e paritario fra gli uomini. Dike, la dea della giustizia, guida nel cammino incerto il viandante del poema parmenideo. La legge è universalità. «Dike vendicatrice possiede le chiavi che aprono e chiudono», e la porta si apre sulla necessità, sull’ordine necessario dell’universo. Parmenide è «terribile» anche perché è il sublime veggente della necessità. «L’antica Grecia — esclamò Einstein — fu la culla della scienza moderna. Là avvenne per la prima volta il miracolo concettuale della nascita di un sistema logico: la geometria euclidea». La stessa esclamazione ammirata si può ripetere per quel greco della Magna Grecia che fu Parmenide, il primo eroe di quella titanica impresa della mente umana che consiste nel disvelare le tracce logiche assolutamente necessarie non solo dei sistemi a priori delle matematiche e delle geometrie, bensì anche della realtà fisica.
Frammenti
1 (B 1)
Le cavalle che mi portano, conformemente all’impulso della mia mente, anche ora mi guidarono, poiché m’avevano spinto su quella famosa via della dea che porta l’uomo che sa per ogni dove. Su quella via fui condotto; su quella via infatti mi portavano le cavalle esperte che tiravano il carro, e fanciulle indicarono il cammino. L’asse [ruotando] nel mozzo mandava un acuto stridore, sprizzando faville (poiché era mosso dalle due ruote che vorticosamente si muovevano da una parte e dall’altra), quando si affrettarono, le fanciulle figlie del Sole, liberato il capo dai veli, a spingermi verso la luce, abbandonando la regione della Notte. Là c’è la porta che divide il cammino della Notte e del Giorno, col suo architrave e con la sua soglia di pietra: e la porta, chiara come il cielo, è chiusa da grandi battenti, dei quali Dike vendicatrice possiede le chiavi che aprono e chiudono.
E allora le fanciulle, esortandola con gentili parole, la persuasero accortamente a togliere per loro velocemente la sbarra dalla porta: e la porta si aprì rivelando un ampio passaggio e facendo girare nei cardini, da una parte e dall’altra, i suoi assi di bronzo fissati con cinghie e con chiodi. Per di là attraverso la porta le fanciulle guidarono immediatamente sulla strada il carro e le cavalle. E la dea mi accolse benevolmente, mi prese la mano destra con la sua mano, e così, con queste parole, mi parlò: «O giovane, che insieme a immortali guidatrici vieni alla mia casa portato dalle cavalle, salve! Giacché non una cattiva sorte ti ha condotto per questa via (che infatti è lontana dalla via battuta dagli uomini), ma una legge sacra e giusta. È necessario che tu apprenda ogni cosa, sia il fondo immutabile della verità senza contraddizioni, sia le esperienze degli uomini, nelle quali non è vera certezza. Ma ad ogni costo anche questo apprenderai, dal momento che le esperienze debbono avere un loro valore per colui che indaga tutto in tutti i sensi.
2 (B 2)
Ebbene, io t’esporrò — e tu fai tesoro del discorso che odi — quali siano le sole vie di ricerca pensabili.
L’una che esiste e non può non esistere — è il cammino della Persuasione (infatti segue la Verità), l’altra che non esiste e che è necessario logicamente che non esista, e questa io ti dico che è una strada del tutto impercorribile. Perché ciò che non è non puoi né conoscerlo (infatti questa conoscenza è irrealizzabile) né esprimerlo.3 (B3)
... infatti è la stessa cosa pensare ed essere.
4 (B 6)
Bisogna dire e pensare che ciò che è esiste: infatti è possibile che solo esso esiste mentre il nulla non esiste: su questo ti invito a riflettere. Infatti da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma anche da quella per la quale uomini che nulla sanno vanno errando, uomini con due teste. Poiché l’incertezza che hanno nel petto guida la loro mente indecisa; ed essi si lasciano trascinare, sordi e insieme ciechi, storditi, gente che non sa giudicare, per la quale è la stessa cosa e poi non lo è più il considerare l’esistere e il non esistere e [per la quale] in ogni caso c’è sempre un cammino in senso inverso.
5 (B5)
... per me è lo stesso da quale punto cominciare: lì infatti di nuovo ritornerò.
6 (B 4)
Guarda come anche le cose lontane, per mezzo della mente, divengano sicuramente vicine: infatti non scinderai ciò che è dalla sua connessione con ciò che è, né separandolo completamente dalla sua connessione sistematica con tutti gli altri enti, né costituendolo in se stesso.
7-8 (B7-B8)
Poiché giammai si potrà imporre con la forza questo, che esistono le cose che non esistono.
Ma tu allontana i tuoi pensieri da questa via di ricerca; né l’atteggiamento dispersivo degli uomini ti costringa lungo questa altra via, facendo uso di occhi che non vedono e di orecchie rimbombanti, usando vuote parole, ma giudica con la ragione le prove piene di argomentazioni polemiche da me addotte. Rimane ora solo da parlare della via che esiste: su questa via vi sono molti segni, in relazione al fatto che, ciò che è, è ingenerato e indistruttibile.
È infatti compatto nelle sue parti e immutabile e senza un fine a cui tendere: non era né sarà, poiché è ora un tutto omogeneo, uno, continuo. E infatti quale origine gli cercheresti?
Come e da dove potrebbe essere accresciuto? Da ciò che non è non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo: poiché esso non è né esprimibile né pensabile dal momento che non esiste. E quale necessità l’avrebbe spinto a nascere prima o dopo, se comincia dal nulla?
Pertanto è necessario che esista in assoluto o non esista affatto.
Né mai la forza della certezza concederà che da ciò che non è nasca qualcosa accanto a ciò che è.
Perciò né nascere né perire gli ha permesso Dike allentando i suoi vincoli, ma lo tiene saldamente. Su queste vie dunque la decisione consiste in questo: esiste o non esiste. Si è deciso dunque, com’era necessario, di lasciare una delle vie come impensabile e inesprimibile (non è la vera via, infatti) mentre l’altra esiste ed è autentica.
Come potrebbe, ciò che è, esistere nel futuro? Come potrebbe nascere?
Se infatti era, non è; così pure, se ancora deve essere, non è.
Così si eliminano i concetti incomprensibili di nascita e morte.
Neppure è divisibile, giacché è tutto uguale: né vi è in qualche parte un di più che gli impedisca d’essere continuo, né un di meno, ma è tutto pieno di essere.
Perciò è tutto continuo: poiché, ciò che è, è tutt’uno con ciò che è.
Inoltre è immobile nei limiti di potenti legami, senza principio né fine, poiché nascita e morte sono state respinte lontano ad opera della vera certezza. E rimanendo sempre se stesso, nella propria identità, riposa in se stesso e così rimane saldo nel suo luogo; infatti la possente Necessità lo tiene nei legami del limite che d’ogni parte lo avvolge, poiché ciò che è non può essere incompiuto.
Infatti non manca di nulla: ciò che non è invece manca di tutto.
Ed è la stessa cosa il pensare e ciò che è pensato.