ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI
Direttore dell’Istituto Italiano per gli Studi FilosoficiLibertà di ricerca e di insegnamento e funzione dell’Università di Stato
Il compimento del primo decennio di vita dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici induce a porsi alcune domande, anche in relazione a recenti dispute sulla funzione e sulla validità degli istituti di cultura fondati e sostenuti da privati, sul loro diritto a ricevere aiuti dallo Stato, e quindi implicitamente sulla funzione che appare propria dell’Università nell’àmbito dell’indagine scientifica, umanistica o naturalistica che sia.
Il successo e la vasta risonanza delle iniziative culturali dell’Istituto fondato da Gerardo Marotta in Napoli e della Scuola di Studi Superiori annessa all’Istituto mostrano che l’uno e l’altra rispondono ad inappagate esigenze di numerose persone vocate agli studi e dotate di mente criticamente disposta; e vi rispondono almeno quanto altri istituti che hanno scopi non diversi ma sono sorti da assai maggior tempo e sono interamente sostenuti dallo Stato.
Di ciò è facile darsi ragione, quando si riesca a svincolarsi – come peraltro raramente avviene – da alcuni idola fori, che inducono a ravvisare negli istituti universitari e accademici e in altri pubblici “organi di ricerca” le sedi naturali e primarie dell’indagine scientifica e le forze promotrici di progresso del sapere. Non è necessario un lungo discorso per rilevare quel ch’è a tutti evidente: che la funzione di tutti questi istituti è quella di ospitare chi mostra reale attitudine alla ricerca e di fornirgli la preparazione tecnica ed eventualmente gli strumenti; e che la mente di un autentico studioso opera altrettanto efficacemente in qualunque altra sede in cui possa disporre dei necessari sussidi tecnici.
Alla nascita delle Università ha presieduto un’esigenza pratica. Come è noto, all’Academia, al Liceo, al Portico, come alle altre forme di scuola superiore fiorite per iniziativa privata nell’età classica, si sono aggiunte, fin dall’età imperiale, scuole speciali o generali istituite e sostenute dallo Stato, col fine di preparare, per il servizio della comunità, esperti delle attività necessarie o utili, dalla sfera didattica alla medica, alla giuridica, alla meccanica, e di garantire legalmente ai cives la capacità professionale di quelli che avessero regolarmente compiuto i prescritti corsi di studio e di tirocinio.
L’esigenza di tali garanzie e certezze da parte dei governanti come dei governati non è poi venuta mai meno, fino ai nostri giorni – naturalmente nelle forme di tempo in tempo dettate dalle vicende politiche, dai conflitti ideologici, dalle trasformazioni sociali. Autorità di docenti, suggestione di discipline astruse, prestigio dei titoli accademici: tutti questi elementi, di carattere scientifico alcuni, di valore pratico gli altri, hanno contribuito a dare all’Università, nell’opinione comune, l’immagine di massima autorità negli studi. Non può stupire che ne siano convinti i più; ma la storia delle università mostra che solo episodicamente qualcuna di esse ha svolto una funzione di guida in un settore degli studi, oppure ha visto emergere tra i suoi maestri geniali pensatori e arditi novatori. Di questi, non pochi sono stati estranei a scuole universitarie, e non raramente in antagonismo a quelle; e se, specialmente nell’età moderna, grandi scoperte scientifiche e teorie originali si sono manifestate in àmbito universitario, si tratta pur sempre di espressioni di ingegni singolari, ai quali l’Università ha potuto offrire strumenti di lavoro e sussidi tecnici e in qualche caso un’atmosfera propizia: ma scoperte e innovazioni non meno importanti son avvenute fuori dell’Università, nella sfera della libera ricerca. Nel processo di costruzione del sapere, oltre all’alternarsi di successi e di insuccessi, v’è un continuo avvicendarsi di parti e di protagonisti, di studiosi universitari e di liberi ricercatori; e tuttavia l’ovvia considerazione che nel vasto campo degli studi non v’è autorità precostituita non impedisce che, più spesso di quanto si immagini, autorevoli esponenti del corpo docente universitario affermino che all’Università spetti, in virtù della sua autorità, di intervenire con funzione moderatrice se non censoria nell’attività di istituzioni private che hanno fini di ricerca e di promozione scientifica. Con questa distorta visione della realtà è connesso un altro assioma che non meno frequentemente viene proposto: che le istituzioni non statali non debbano ricevere alcuna sovvenzione dallo Stato, non essendo lecito che pubblico denaro sia adoperato in favore di enti non pubblici; quasi che un serio ente culturale privato non possa giovare alla comunità contribuendo quanto un ente statale al progresso scientifico e alla formazione dell’immagine civile della nazione. L’infondatezza di questo principio è stata d’altronde riconosciuta dai legislatori, che in data recente hanno previsto l’assegnazione di contributi finanziari dello Stato ad istituzioni culturali private di comprovata utilità pubblica; e una ulteriore, indiretta conferma è nella legge che dichiara esenti da imposte le somme donate da privati, per fini culturali, ad enti privati al pari che ai pubblici.
L’Università è dunque insostituibile per quel che concerne una delle sue funzioni, vale a dire l’attribuzione, nei termini e modi prescritti, di titoli accademici aventi valore legale; ma per la funzione scientifica – dal cui sviluppo deriva la validità degli insegnamenti e quindi la serietà della preparazione dei laureandi – non ha ragione di porsi come un organo privilegiato, né di pretendere il riconoscimento di un’autorità che non sia commisurata all’effettivo suo contributo alla scienza. Di quanto fin qui si è detto è facile ritrovare documenti nella plurisecolare storia delle istituzioni universitarie europee: una storia in cui più volte le università – considerate nella loro figura di organi collegiali, indipendentemente da personali disposizioni e attività di singoli docenti – appaiono come conservatrici di scienza tràdita piuttosto che come propagatrici di nuove idee e nuove esperienze. Certo, quando il carattere di scuola professionale è divenuto preminente nell’Università, ne ha sofferto l’attività di ricerca al cui sviluppo è necessaria l’indipendenza da interessi altrui, oltre che da dogmi ideologici, politici o confessionali che siano: così è accaduto che tra il secolo XVI e il XVII l’affermarsi dell’assolutismo regio e il moto di controriforma favorirono nelle università il conformismo e la cura delle carriere accademiche, a danno dell’autentica ricerca scientifica e della speculazione filosofica. Polemica verso il prevalere di schemi scolastici e di intenti pratici nell’istruzione universitaria fu la fondazione, nel 1530, del Collège de France; e una nobile esigenza spirituale spinse nel 1603 Federico Cesi a formulare una significativa dichiarazione, nel discorso Del natural desiderio di sapere et institutione de’ Lincei per adempimento di esso: «Dobbiamo anco osservare che l’istessa laurea, instituita già per ornare il compimento delle scienze e venir perciò ad esso incitando, mentre si vede che indiferentemente corona tutti quelli che finiscono il corso senza riguardo alcuno né dell’arrivare né del zoppicare o andar diritto, viene a porre mèta e termino, ordinariamente, alle studiose fatiche di ciascheduno, o perché non creda che vi resti altro che sapere, o perché non vede altro grado d’approbatione in litteratura che, se fatiga più oltre, lo dichiari maggiore di quelli che in esso si contentano fermarsi. Così il dottorato suole a molti troncar la via del sapere, di maniera che, non pur per insegnare ad altri, ma nemmeno sappiano per sè stessi, se però non vogliamo che il sapere sia l’intendere quelli belli termini che sì spesso s’intonano nelle scuole». Con pari franchezza, circa trent’anni prima, aveva diagnosticato l’inconsistenza della generica cultura accademica del suo tempo Giordano Bruno, il “fastidito”: «vedete che per tutto le università e academie so’ piene di questi Aristarchi, che non cederebbono uno zero a l’altitonante Giove; sotto i quali quei che studiano non aranno al fine guadagnato altro, che esser promossi da non sapere, che è una privazione de la verità, a pensarsi e credersi di sapere, che è una pazzia ed abito di falsità» (Cena de le ceneri, p. 46 dell’ed. Gentile-Aquilecchia).
Quanto rapidamente si alteri per mutar di docenti la fisionomia di un’antica e grande università è ben illustrato in alcune pagine di un saggio di Benedetto Croce, su La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, scritto tra il 1909 e il 1910. Vi sono delineati due significativi momenti della storia della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università napoletana: nel primo quindicennio successivo all’Unità, e nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Nel periodo 1860-1875, «i professori si sentivano apportatori e autori di qualcosa di nuovo e di utile nella vita spirituale della nazione: parecchi di essi, come lo Spaventa, il De Sanctis, il Tari, il Settembrini, avevano la coscienza di essere ben più che insegnanti: educatori e incitatori di tutte le forze morali»; nel secondo periodo, scomparsi i grandi maestri che avevano dato fama all’Ateneo, «ai rivoluzionari diventati professori, e serbanti nel professore l’ardore del rivoluzionario, erano succeduti i veri professori, i burocratici professorali, che sono la diminuzione dello scienziato e dell’educatore… La simpatia, la stima, la reverenza, che circondavano gli uomini della generazione precedente, abbandonarono le persone dei professori burocratici».
L’Università del quindicennio aveva, per l’alto suo prestigio, facilitato e giustificato l’eliminazione dell’insegnamento privato, che era stato fiorente in Napoli fin dal Rinascimento, ma si era infine immiserito e corrotto; tuttavia Settembrini ne assunse la difesa e ricordò che i Napoletani «non accettarono mai l’insegnamento ufficiale, non riconobbero mai autorità e dittatura nel sapere; essi i primi filosofarono in Europa, sprezzando l’autorità più riverita nelle scuole». La proposta di Settembrini, di non intervenire con leggi contro il libero insegnamento ma di attendere che anche in esso si manifestassero gli effetti della libertà politica, non ebbe successo; e, rileva Croce, «l’insegnamento libero e gli studi privati sparirono innanzi alla nuova Università creata dallo Stato italiano e che era in doppio modo forte, avendo dalla sua parte così la legge come il merito. Ma bisogna guardarsi dallo scambiare questa sparizione per una vittoria dell’istituzione statale sopra quella nascente dall’opera spontanea dei cittadini. Se l’Università prevalse allora non soltanto per forza di legge (facile e infeconda vittoria), ma per la vigoria spirituale di cui effettivamente dette prova, ciò fu perché essa potè giovarsi degli uomini che erano, o erano stati, a capo degli studi privati e si erano formati da sè per vocazione e in libera concorrenza». Che dopo circa settant’anni sia riemersa in Napoli, nell’area degli studia humanitatis, la tradizione del libero insegnamento – e proprio per iniziativa di Croce, con la fondazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici – è un fatto così eloquente che non v’è necessità di commentarlo; che l’esempio sia stato seguito, e non soltanto a Napoli, mostra che si avverte in misura crescente la necessità di integrare – nella sfera della ricerca, ovviamente, non già del conferimento di titoli accademici e di cattedre di vario grado – l’insegnamento universitario. La crisi di questo, come della scuola di ogni ordine, e non soltanto in Italia ma in più nazioni europee ed extraeuropee, è, come tutti sanno, grave e complessa. È chiaro a tutti, del pari, che ogni attività esercitata da organi statali non può non risentire dei problemi che inevitabilmente propone la vicenda politica; e la sfera dell’istruzione pubblica è particolarmente sensibile alle crisi ideologiche e alle alterazioni (che Aristotele chiamava parekbáseis, “deviazioni”) delle forme politiche. I gravi rischi che comporta l’intervento dei non intellettuali nel delicato campo dell’educazione dei giovani non erano sfuggiti a Platone, la cui dottrina ovviava anche a ciò con l’auspicare che venisse affidato ai veri filosofi il governo dello Stato.
Non, dunque, attraverso riforme improvvisate sotto la pressione di ideologie di parte o di interessi corporativi o di spinte demagogiche, ma mediante l’opera assidua di chi è consapevole della vitale importanza della cultura umanistica e della ricerca scientifica – cultura e ricerca che sono autentiche, si valgono l’una dell’altra, come detta la comune loro natura, soltanto in clima di libertà, – le istituzioni didattiche e scientifiche possono effettivamente crescere e dar frutto. E a questo fine è necessario l’impegno non solo degli organi pubblici, ma di tutti i cittadini che si rendono conto del fondamentale valore della cultura.
Un esempio viene offerto da Napoli: che qui, accanto alle scuole universitarie e alle accademie pubbliche, viva una Scuola di Studi Superiori congiunta all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è un fatto di cui ogni uomo devoto alla cultura non può che compiacersi. L’Istituto e la Scuola si sono infatti distinti, nel loro primo ventennio di vita, per aver chiamato studiosi d’ogni parte del mondo a parlare delle loro ricerche, a stimolare l’interesse dei giovani per i grandi temi della moderna cultura storica e naturalistica, ad ampliare gli orizzonti della scienza tràdita: un così intenso e fervido susseguirsi di lezioni e di innovatrici riflessioni, in un assiduo sforzo di ampliare la sfera degli studi filosofici e storici con un’approfondita conoscenza dei problemi che l’uomo moderno si pone di fronte allo straordinario sviluppo dell’indagine “fisica” nella più ampia accezione del termine, difficilmente può trovare adeguato sostegno in un collegio di cattedratici, necessariamente divisi dalle loro inclinazioni professionali e dai personali orientamenti scientifici, oltre che da schemi accademici; esso presuppone ed esige invece un religioso entusiasmo, una fede che si è tentati di chiamar plotiniana, nel nûs, nell’essenza intellettuale dell’universo.
Un’ispirazione cesiana e vallettiana, un’intima adesione agli ideali civili della Napoli europea degli ultimi anni del Settecento hanno condotto Gerardo Marotta a fondare un istituto che tra ammirati apprezzamenti e inevitabili gelosie si è conquistato un posto onorevole, e internazionalmente riconosciuto, nella cultura del mondo contemporaneo. Dalla filosofia greca alla medievale alla moderna, dalla storia antica alla contemporanea, dall’economia politica al diritto, dall’epistemologia alla storia delle scienze, dalla storia del Cristianesimo alla storia delle religioni orientali, dalla storia dell’arte alla storia del libro: ognuna di queste aree di ricerca è segnata, nell’ancor breve vita dell’Istituto, dalla presenza di illustri maestri, di studiosi di fama internazionale, di eminenti specialisti. Accanto ai seminari e alle lezioni, le pubblicazioni: sillogi di testi dell’Academia platonica e della scuola di Epicuro, edizioni di Plotino, del Genovesi, di riformatori italiani, di Hegel e di altri grandi autori della filosofia classica tedesca, ristampe di periodici filosofici, scientifici e politici dell’Ottocento. Testi inediti o irreperibili sono stati pubblicati in rigorose edizioni critiche o raccolti e ristampati; le Lezioni della Scuola di Studi Superiori, le Memorie e gli Studi dell’Istituto, una serie di saggi, la rivista “Nouvelles de la République des Lettres” costituiscono collane ormai cospicue, a cui si aggiungono grandi imprese avviate ad attuazione: l’edizione critica delle opere di Bruno, di Campanella, di G.B. Della Porta, di illuministi italiani, di Francesco Mario Pagano, di Vincenzo Cuoco, di economisti meridionali; una collana di studi e testi di storia della medicina antica e medievale, significativamente intitolata Hippocratica civitas; le relazioni dei rappresentanti della Repubblica di Venezia a Napoli, l’edizione integrale delle Memorie lette all’Accademia di Medinaceli. Altre numerose pubblicazioni sono esterne alle collane citate; ed ad esse si aggiungono gli atti di numerosi convegni organizzati dall’Istituto: sugli Hegeliani di Napoli, su Silvio Spaventa, sulla scuola Eleatica, sul Cardinal Gaetano, sulle versioni orientali di testi filosofici e scientifici greci, e i cataloghi di Mostre dedicate a grandi momenti della storia europea e ad artisti che ne sono stati interpreti.
Già da questo sommario elenco è evidente che la fisionomia dell’Istituto fondato da Gerardo Marotta è quella di una scuola nel senso classico, di una synusìa ove nel medesimo tempo si trasmette un secolare messaggio di cultura e se ne sollecita l’approfondimento e l’interpretazione. Così l’orizzonte che l’Istituto e l’annessa Scuola hanno segnato a sé medesimi è quale viene suggerito dalla cognizione e dal rispetto di una gloriosa tradizione napoletana, che da Bruno ai primi Lincei e a Giambattista Della Porta, agli studiosi ascritti alle locali Accademie sei e settecentesche, non ha mai ripudiato l’indagine naturalistica, da essa traendo anzi forza per opporsi al dogmatismo degli aristotelici; e guardando all’unità dello spirito nella molteplicità dei problemi e delle investigazioni, Istituto e Scuola seguono con attenzione il rinnovarsi degli orientamenti nella moderna ricerca sul mondo della natura, al quale costantemente è connessa l’esperienza del vivere umano. È per questa esperienza, infatti, che il mondo della natura non si estrania dal mondo della storia; ed è nella sapiente pienezza del vivere che si elimina ogni fittizio dualismo e si manifesta l’universale armonia su cui l’etica può fondare le sue norme. Non meno che al complesso di indagini designato un tempo, non senza ragione, “storia naturale” l’Istituto e la Scuola guardano pertanto ad un’altra esperienza storica, intimamente legata allo sviluppo civile: anche qui si fa valere una grande tradizione napoletana, quella degli economisti meridionali, che un vivo senso della concretezza ha tenuto lontani da astrazioni: una schiera che dal lucido e sventurato cosentino Antonio Serra va a Carlo Antonio Broggia e a Ferdinando Galiani e ai due grandi maestri di dignità civile, Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri; i quali ultimi non solo nella scienza ma anche nel sentimento di umana solidarietà hanno indicato la via di un reale progresso politico ed economico e a questi principii hanno ispirato il loro magistero, breve per il Filangieri, lungo e fecondo per il Genovesi.
Scuola fondata e sostenuta dai pubblici poteri e scuola di iniziativa privata hanno convissuto per secoli in Napoli, e la storia della cultura napoletana è dimostrazione della validità di questa spontanea associazione. Per la sua natura di seminarium omnium doctrinarum, tra le funzioni che le sono proprie l’Università ha quella di trasmettere le conquiste della scienza; ma, come è stato autorevolmente detto, deve trasmetterle criticamente, stimolando i discenti ad andar oltre le cognizioni acquisite, a collaborare coi docenti nel superamento della scienza tràdita; e conviene richiamare i suggerimenti che Gaetano Filangieri offriva nella sua grande opera (II, p. 353 ss. dell’ed. Frosini) per promuovere un reale progresso nell’istituzione universitaria come nella ricerca scientifica. D’altronde la vitalità di un ateneo è principalmente nella sua virtù innovatrice, nella misura in cui esso è in grado di contribuire al processo dialettico formativo del sapere.
È ovvio, tuttavia, che la promozione della ricerca scientifica non può essere privilegio di un solo organo, perché il progresso nasce dal confronto e – secondo un’immagine della Lettera VII di Platone – dall’attrito delle teorie, delle idee, delle interpretazioni. Non è quindi auspicabile – e non è infatti attuabile se non per violenta imposizione, dunque in modo irrazionale – l’accentramento degli studi e delle ricerche, e il conseguente controllo sul loro svolgimento, in un organo unico, Università o “Accademia delle Scienze” che sia: in un paese libero alle Università non solo giova, ma è indispensabile la collaborazione e, quando occorra, la polemica e la gara con centri di ricerca extrauniversitari.
È d’altronde un fatto naturale che quando per il prevalere di posizioni dogmatiche o di prospettive utilitaristiche, o per declino d’ingegni, l’università come organo promotore di libera ricerca entri in crisi, sorgano iniziative private, che nell’àmbito scientifico assumano funzioni analoghe a quella degli atenei e a questi ridiano, anche per contrasto, vigore. La fondazione dell’Accademia dei Lincei ad opera di studiosi privati, quella del Collège de France ad opera del potere regio sono stati sintomi dell’antagonismo a una cultura universitaria cristallizzatasi e del desiderio di libertà di ricerca e d’insegnamento, per impulso dello spirito innovatore dell’Umanesimo e del Rinascimento.
Vale dunque come segno di vitalità e di progresso la fioritura, non solo a Napoli, ma in tutta l’Italia, di centri di alta cultura nati da iniziative private, di alcuni dei quali l’attività e la rinomanza oltrepassano i confini nazionali. Uno dei più recenti, la Scuola Superiore di Storia della Scienza, istituita presso la Domus Galilaeana di Pisa, supplisce ad una grave carenza di indagine storica nell’àmbito delle discipline mediche, naturalistiche e matematiche, realizzando un voto dei fondatori della Domus, Sebastiano e Maria Timpanaro: sicché si deve soprattutto ad istituzioni private quali la Domus pisana e al fiorentino Museo di Storia della Scienza, mirabilmente ricreato dall’entusiasmo di Maria Luisa Righini Bonelli, se quel settore degli studi storici, generalmente trascurato negli ordinamenti accademici, va riacquistando l’importanza che ha episodicamente avuto grazie a studiosi dell’autorità di Giovanni Schiaparelli, Aldo Mieli, Federigo Enriques, David de Santillana, Arturo Castiglioni. Per volontà di privati è sorta l’unica istituzione che a Firenze rappresenta l’equivalente del prestigioso Istituto Germanico di Storia dell’Arte: la Fondazione Roberto Longhi, che si vale della casa, della biblioteca e delle collezioni d’arte del grande critico.
Il carattere prevalentemente umanistico di tanti centri extrauniversitari di alta cultura conferma che la loro nascita è in diretto rapporto con domande non appagate dall’Università e, più recentemente, con una crisi che proprio per ciò ha investito l’Università ed è stata crisi preminentemente ideologica, anche se ha poi avuto esiti deludenti rispetto alle premesse: una crisi che è stata dell’Università italiana come di gran parte dell’Università europea, e che accanto ad aspetti negativi ne ha avuto alcuni positivi, segnalando un’esigenza di dibattito, di riforma, di rinnovamento. Se questa esigenza abbia trovato, almeno in parte, appagamento, è un altro discorso: in ogni caso è bene che si sia manifestato un malessere che da tempo si avvertiva e del quale Antonio Ruberti, rettore della romana “Sapienza”, ha descritto con la precisione dell’esperto la semiologia e l’etiologia. La crescente domanda di accesso all’Università e il rapido aumento di studenti, superiore ad ogni previsione, hanno trovato strutture antiquate e inadeguate; per giunta, le assai dilatate maglie degli “esami di Stato”, hanno fatto passare una folla di discenti immaturi scolasticamente e culturalmente. Il primo effetto, come ha giustamente rilevato Ruberti in un convegno su “Università e società” svoltosi a Napoli nel 1983, è stato un avviamento alla «licealizzazione» dell’Università: espressione eufemistica per indicare il rapido abbassamento del livello scientifico negli atenei. Il motivo principale di questo eccessivo aumento di iscritti all’Università è stato riconosciuto in una legittima e comprensibile aspirazione ad un miglioramento dello status sociale: ma poiché i modelli a cui i più guardavano erano sempre quelli di un mondo che pregiava le professioni liberali molto più che le attività «meccaniche», in luogo di una ricerca di perizia si è avuta una ricerca di titoli. Una tal deviazione ha agito a detrimento di una positiva soluzione della crisi; e il rimedio valido lo ha indicato ancora Ruberti, ricordando – a conforto di chi spera in una ripresa dell’Università – che il primo còmpito di questa, così nella didattica come nella ricerca scientifica, dev’essere non già quello di prestare un servizio ad altre sfere della società, ma quello di «fare cultura», perché il pieno e serio svolgimento di tale còmpito si risolve in totale vantaggio per ogni forma della vita sociale. Circa il rapporto dell’Università con la vita sociale sono stati espressi comprensibili desideri ed auspicii di certe sfere dell’economia e del lavoro: se ne possono apprezzare le ragioni, ma è doveroso osservare che se è giusto desiderare il contributo dell’Università alla soluzione di problemi pratici di generale interesse, il regolamento di quel rapporto dev’essere affidato ad autentici studiosi, per evitare che nella ricerca universitaria possano prevalere esigenze particolari non puramente scientifiche.
L’Università deve dunque, prima di tutto, esercitare l’alta funzione civile per cui è nata, una funzione che per esser insieme didattica e scientifica esige adeguati strumenti di informazione e di ricerca, quali non sempre esistono né vengono sollecitamente apprestati nelle sedi in cui troppo facilmente sorgono nuove università o facoltà. (Ma questo è un malinconico discorso, che si estende ad altri istituti – soprintendenze archeologiche, storico-artistiche e architettoniche, importanti musei, grandi complessi archeologici – raramente dotati di biblioteche specializzate e di altre attrezzature sussidiarie, sebbene anche in essi la ricerca sia indispensabile per l’adempimento dei loro còmpiti istituzionali). E non senza preoccupazioni si vede ora, in luogo di un eccesso nel numero dei discenti, un eccesso nel numero dei docenti, che si ha ragione di ritenere prodotto non tanto da un’affrettata ma pur lodevole cura di eliminare accertate carenze quanto dall’incapacità di far valere un serio principio selettivo e di resistere a pressioni e sollecitazioni di gruppi in cui l’ansia di ottenere uno stato sociale pregiato prevale naturalmente su ogni considerazione d’ordine generale. Tutti sappiamo quanto poco ciò giovi agli studi, e come spesso l’Università debba per ciò privarsi, e per tempi non brevi, di elementi più giovani e meglio preparati.
È opportuno leggere, a conclusione, un breve periodo della premessa scritta da Croce per lo statuto dell’Istituto per gli Studi Storici. Egli vi espone una constatazione di fatto, dalla quale venne indotto a progettare la fondazione dell’Istituto: «che nella preparazione universitaria agli studi storici viene solitamente trascurato il rapporto sostanziale della storia con le scienze filosofiche della logica, dell’etica, del diritto, dell’utile, della politica, dell’arte, della religione, le quali sole definiscono e dimostrano quegli ideali e fini e valori dei quali lo storico è chiamato ad intendere e a narrare la storia». Analoghe considerazioni per altri campi del sapere possono dare ragione dell’esistenza e anzi sollecitare la moltiplicazione di istituti culturali extrauniversitari: non certo in funzione di emuli o di avversari, ma di integratori della ricerca e anche dell’insegnamento che si svolge nell’Università.
Con quel che la ricerca scientifica esigerebbe, infatti, non sono sempre armoniche le regole a cui obbediscono i corsi universitari, frequentati dai più degli studenti con lo scopo, peraltro legittimo, di superare gli esami prescritti e di ottenere il riconoscimento legale di una compiuta preparazione professionale. Spesso però la pressione della moltitudine costringe a privilegiare un’elementare funzione didattica rispetto a quella propriamente scientifica, benché questa sia ancor più importante e costituisca anzi il presupposto di un efficace insegnamento. Valga l’esempio del deplorevole istituto del libero programma di studi, in cui la selezione delle discipline è da non pochi studenti compiuta secondo criterii ai quali è estraneo il desiderio di scienza e di cultura e sono invece ben presenti considerazioni affatto pratiche, quali tutti conoscono. È vero che è previsto l’intervento delle Facoltà nella definizione dei programmi o nella loro approvazione; ma, prescindendo dalle norme che lo regolano, è facile immaginare quale possa esserne l’efficacia, specialmente in facoltà con elevato numero di studenti. Vi si aggiunge un altro elemento negativo, rappresentato dalla prescrizione – non suscettibile, questa, di correttivi interventi del corpo docente – del numero degli esami. Vani sono stati tutti i tentativi di ridurre questo, inutilmente elevato, che diviene pertanto la prima cura degli studenti e insieme il maggior ostacolo ad una seria ed intensa attività di studio e di ricerca; né è stata eliminata la licenza di sostenere più esami nella medesima disciplina, quasi che l’iterazione convalidi una prova la cui utilità è nel saggiare la maturità, l’attitudine a certi studi, la capacità di orientamento nella ricerca scientifica, non la capacità di ingurgitare per un tempo fatalmente breve alcune serie di lezioni non sempre altrici dell’intelletto.
Anche in questo rispetto, per essere maggiormente immuni da pratiche deformazioni dell’attività di studio, i centri extrauniversitari possono rappresentare un elemento di equilibrio e di perfettivo confronto a beneficio dell’Università; dalla quale – non si dimentichi – necessariamente provengono i più degli studiosi che danno la loro opera a quei centri. Riconosciuto, pertanto, innaturale e irragionevole ogni contrasto – e mi piace ricordare che il maggior collaboratore di Croce negli anni di opposizione alla dittatura fascista, e primo direttore dell’Istituto per gli Studi Storici, Adolfo Omodeo, fu rettore veramente magnifico dell’Ateneo napoletano dopo il 25 luglio 1943 – è appena necessario insistere sul fatto che il naturale legame che unisce l’Università con ogni autonomo centro di alta cultura sollecita lo sviluppo di contatti in spirito di collaborazione, e ciò non può essere che proficuo per l’una e l’altra parte. Gli istituti extrauniversitarii offrono ai giovani che hanno concluso gli studi universitarii con onore e profitto effettivi, e che non trovano posto nelle ormai sovrapopolate strutture universitarie, un aiuto che può ridare ad essi fiducia e incoraggiarli a proseguire nella via della ricerca. Mi sembra chiaro, in conclusione, che tanto l’Università quanto i centri indipendenti non possono trarre se non giovamento da un rapporto che rispettando l’autonomia di ciascuno faciliti nell’una e negli altri l’adempimento dei particolari fini scientifici: anche attraverso antagonismi; perché questi, che hanno un’utile funzione di reciproco stimolo, trovano la loro risoluzione nel comune interesse per la ricerca e il loro superamento nel progresso del sapere. Concordia discors è l’emblema di quella che appare l’ovvia ed ineliminabile cooperazione tra l’Università e i centri che ad essa giova tener distinti da sé: negazione di uniformità, rifiuto di conformismo e, per converso, civile e feconda polemica.