ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
ANTONIO GARGANO: L'IDEALISMO TEDESCO - Fichte, Schelling, Hegel
HEGEL
La Filosofia del diritto
LA FILOSOFIA DEL DIRITTO
Nelle poche pagine della Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto si trova un concentrato del pensiero di Hegel. «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale», «la filosofia è come la nottola di Minerva», «la filosofia è come il cogliere la rosa nella croce», «è lo scandaglio del razionale», «è il proprio tempo appreso con il pensiero»: tutte queste celebri e lapidarie definizioni si trovano nella Prefazione alla Filosofia del diritto. Già questo è indizio del fatto che siamo di fronte a un’opera decisiva del filosofo di Stoccarda.
Hegel è un pensatore molto sistematico, e per questo è opportuno collocare all’interno del sistema la filosofia del diritto, che rientra nella trattazione dello spirito oggettivo. Riprendiamo il quadro generale, che, in due parole, è il seguente. Hegel è il massimo esponente della filosofia idealistica, che affronta il compito di superare il dualismo kantiano. Kant aveva a sua volta superato le difficoltà del razionalismo e dell’empirismo, ma aveva aperto un nuovo piano di difficoltà, aveva cioè scisso il mondo del fenomeno dal mondo della cosa in sé, sviluppando un pensiero di tipo dualistico. Dalla scissione, dalla spaccatura tra fenomeno e cosa in sé conseguiva tutta un’altra serie di dualismi: tra il soggetto e l’oggetto, tra gli intenti morali del soggetto e la loro possibilità di realizzazione, ecc. Il dualismo iniziale tra io e mondo, tra fenomeno e cosa in sé, la barriera tra il soggetto e l’oggetto si ripercuotono in tutto il pensiero kantiano. Si tratta di un limite del pensiero kantiano, perché, se è vero che è complicato spiegare la realtà e ricondurla a un principio, è ovvio che si duplicano i problemi se invece di un principio se ne pongono due, come fa Kant. L’idealismo costituisce il tentativo di ricucire questa spaccatura, di arrivare a una visione fortemente unitaria, fortemente monistica, e quindi più logica, più rigorosa della realtà.
Il percorso dal dualismo kantiano a una filosofia rigorosamente monistica culmina in Hegel, dopo gli sviluppi precedenti di Fichte e Schelling. Infatti, la formula centrale del pensiero hegeliano, che ora commenteremo meglio, è appunto quella per cui tutto ciò che è razionale è reale e viceversa. Questo che cosa significa? Che tra la realtà materiale e la realtà spirituale, tra l’oggetto e il soggetto, tra il finito e l’infinito, non esistono barriere: la realtà non rinvia nella sua materialità a qualche cosa di diverso, che sta oltre, che sta fuori di essa. Sta fuori, sta oltre, in filosofia, come sapete, si indica col termine «trascendente»: non c’è qualche cosa di trascendente rispetto alla realtà fisica, materiale: tutto quello che è reale è di per sé ideale, ha la sua ragion d’essere in se stesso. “Ideale” significa sostanzialmente dotato di una razionalità, dotato di una logica, dotato di un logos. Tutto il reale ha una logica immanente: la realtà non è altro che materia organizzata in forme razionali; per questo è stato detto con un’espressione felice che Hegel è l’ultimo dei Greci, nel senso che i Greci hanno avuto la grandissima intuizione del logos, hanno fatto la scoperta fondamentale che tra la realtà e la ragione umana c’è una perfetta corrispondenza, in quanto la realtà ha una sua logica, ha un suo logos e la mente umana, la ragione umana segue il medesimo logos. Il logos è l’elemento unificante della realtà materiale e della ragione umana. Si potrebbe dire anche, in altri termini, che c’é una ragione oggettiva, che viene rispecchiata dalla ragione soggettiva degli uomini. Oggetto e soggetto sono collegati tra loro dal logos: l’uomo è potente perché può conoscere la realtà e la può dominare.
Con l’affermazione del logos Hegel, contro Kant, rivendica la potenza dell’uomo, perché in Kant l’uomo finiva con l’essere svilito: non potendo raggiungere la cosa in sé, che per definizione è inconoscibile, l’uomo si trovava ristretto nell’ambito della propria soggettività. In un passaggio della Critica della ragion pura, Kant dice: «Questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!) circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio della parvenza, dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiaccio, prossimi a liquefarsi, dànno ad ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi e delle quali non può mai venire a capo» (Critica della ragion pura, Analitica dei principi, cap III). Il mare su cui l’uomo non può avventurarsi è l’oggettività. L’uomo kantiano non raggiunge mai l’oggettività, non diventa mai padrone del mondo. Invece Hegel, con la coincidenza tra reale e razionale, implica che l’uomo, come già avevano visto i Greci, ha una potenza senza limiti, può conoscere tutto e può dominare tutto.
ll nocciolo del pensiero di Hegel è proprio questo: non solo la natura è perfettamente comprensibile, sia pure con uno sforzo che si prolunga in tutto il corso della storia, ma anche la “seconda natura” (Hegel usa l’espressione “seconda natura” per intendere in sostanza il mondo dell’uomo), è soggetta a leggi, è quindi comprensibile. Il mondo dell’uomo, il mondo dello spirito, vale a dire il mondo del diritto, della moralità, dell’eticità, dell’arte, della religione, della filosofia, sono permeati da un logos, da una logica, dalla razionalità. Se è vero che non ci sono eventi casuali nella fisica, ma tutto risponde a leggi che si possono indagare e conoscere, per Hegel anche il mondo dello spirito, cioè il mondo dell’uomo, il mondo delle costruzioni umane ha una sua logica: sarebbe ben strano pensare che il mondo naturale, che è inferiore a quello spirituale in cui si è sviluppata l’autocoscienza, presenti razionalità e leggi, mentre il mondo dello spirito, il mondo dell’uomo, che è più nobile, invece paradossalmente funzioni in base al caso e non presenti razionalità.
Hegel, abbiamo detto, supera il dualismo kantiano, afferma la coincidenza di realtà e razionalità e, soprattutto, vede la realtà svilupparsi, muoversi, divenire secondo una logica precisa, la logica dialettica.
Il ritmo dialettico è presente in qualunque entità, ma anche la realtà nel suo insieme risponde a un ritmo dialettico. Nel suo complesso la realtà è idea, nel senso che essa ha una struttura ideale: ogni materia, anche apparentemente bruta, in effetti possiede una sua organizzazione, ha sempre una struttura ordinata, ha sempre una struttura “ideale”. Il fondamento della realtà è quindi l’idea. Direi quasi “per sovrabbondanza”, come nell’emanatismo di Plotino, l’idea si traduce in cosa. Il secondo momento, la natura, corrisponde in termini teologici all’Incarnazione: l’idea si fa carne e sangue, si fa materia, le strutture ideali del mondo (in questo processo che è logico, non cronologico), si concretizzano in materia organizzata. All’interno della materia organizzata, cioè della natura, a un certo punto nasce una forma particolarmente sviluppata, tendente alla propria consapevolezza, che è l’uomo, e si giunge al terzo e ultimo momento, lo spirito (nel linguaggio hegeliano per “spirito” si intende la consapevolezza umana). La consapevolezza umana, e ci avviciniamo al nostro tema, si sviluppa anch’essa, tende a forme di conoscenza sempre più alte. In un primo momento lo spirito si presenta come lo spirito del singolo individuo. La consapevolezza del singolo individuo cresce dalla sensazione alla percezione, all’intelletto, all’autocoscienza. Quando l’uomo è diventato consapevole di sé, entra in rapporto con gli altri uomini, nasce una dinamica tra l’io e gli altri io, e si passa dallo spirito soggettivo allo spirito oggettivo. Vale a dire che gli individui si collegano agli altri individui, gli io autocoscienti si collegano alle altre auto- coscienze, dando luogo a forme di organizzazione dei loro rapporti che Hegel appunto chiama spirito oggettivo.
La Filosofia del diritto tratta dello spirito oggettivo. Perché “oggettivo”? Perché la coscienza individuale nello stadio dello spirito oggettivo entra in contatto con le altre personalità, con le altre autocoscienze, dando luogo a forme di rapporto che sono oggettive, cioè non dipendono dai soggetti. Queste forme di rapporto sono il diritto, le norme morali e le costruzioni etiche. Leggi giuridiche e norme morali sono qualche cosa di oggettivo, nel senso banale che per esempio i rapporti di compravendita, i rapporti di contratto, i rapporti di successione o di matri- monio, ecc. in Italia si sviluppano secondo il diritto dello Stato italiano, ma questo diritto trascende gli individui, è oggettivo rispetto agli individui e, nella generazione prossima, con qualche variazione inevitabile dovuta alla storia, è pensabile che si svolgeranno rapporti secondo le stesse norme. O, ancora, le norme morali sono norme perenni: «ama il prossimo tuo come te stesso» non è un precetto legato a Tizio a Caio o a Sempronio, non è qualche cosa di soggettivo. Il legame tra gli uomini che viene stabilito dalla morale è oggettivo, gli uomini lo trovano di fronte a sé, in qualche modo trascende i singoli individui. E ancor più trascende i singoli individui l’eticità, che si concretizza nelle istituzioni della famiglia, della società civile e dello Stato: esistono famiglie, ne sono esistite in passato, ne esisteranno in futuro, sono forme che in questo momento riempiamo noi come soggetti empirici attualmente viventi, ma la famiglia come istituzione vive al di fuori di noi, è oggettiva, e così la società, e così lo Stato. Per questo Hegel chiama il momento delle creazioni collettive sfera dello spirito oggettivo.
L’opera in cui Hegel analizza lo spirito oggettivo è Lineamenti di filosofia del diritto. Tra i grandissimi apporti di Hegel alla storia del pensiero è forse quello più importante: questa sfera, cioè la sfera del diritto, della moralità e dell’eticità, non è abbandonata al caso, all’arbitrio, al capriccio, all’opinione, bensí risponde a una logica, ha una razionalità interna e va considerata, al pari della natura, come qualche cosa che ha un suo logos, una sua ragione.
Quest’opera è stata pubblicata nel 1821. È importante, dopo questo breve inquadramento nel sistema hegeliano, collocare la trattazione dello spirito oggettivo anche nell’epoca storica. Hegel ha ricevuto la cattedra all’Università di Berlino nel 1818, ha tenuto corsi di lezioni a Berlino fino alla morte nel 1831. L’anno prima del suo arrivo si erano manifestati fortissimi fermenti studenteschi in occasione del centenario della riforma pro- testante: 1517-1817. Proprio alla vigilia della venuta di Hegel a Berlino, i giovani che avevano ricordato il centenario di Lutero, lo avevano collegato con lotte di carattere radicale, democratico, e avevano fra l’altro fatto falò di libri degli scrittori reazionari. Nel 1819 accade un episodio molto grave: dallo studente Carl Ludwig Sand viene ucciso Kotzebue, il più noto esponente della pubblicistica reazionaria. A questo punto il governo prussiano scatena una forte repressione: Sand viene condannato a morte, la condanna viene eseguita nonostante polemiche acutissime tra i filosofi berlinesi; molti professori di diritto, di teologia vengono allontanati dalle cattedre; viene instaurata una censura rigidissima su ogni tipo di pubblicazione, prima soltanto sulle pubblicazioni più brevi, sugli opuscoli, di facile stampa, poi, nel 1820, viene stabilita una legge di censura su tutte le opere, anche sui grossi volumi. Di conseguenza, Hegel, che sta scrivendo la Filosofia del diritto, sa benissimo che la sua opera verrà setacciata fino all’ultima virgola e che, se non verrà trovata congrua dalla censura, non potrà mai essere pubblicata. Hegel è dunque prudente nella Filosofia del diritto perché si tratta di un’opera a stampa controllata dalla censura, mentre è più aperto nelle lezioni, di cui soltanto negli anni scorsi si sono iniziati a pubblicare in Germania alcuni corsi, tratti dagli appunti degli studenti. Questo ha portato alcuni studiosi a sostenere che c’è un Hegel essoterico che si rivolge al pubblico e che ha scritto la Filosofia del diritto in modo che potesse passare la censura, mentre invece nella cerchia dei suoi discepoli Hegel si esprime in termini molto più radicali, è un Hegel esoterico, un Hegel segreto. Bisogna ricordare l’importan-te libro Hegel segreto, di un grande studioso francese, Jacques D’Hondt, che ha ricostruito l’ambiente berlinese dei tempi di Hegel, ha dimostrato che Hegel ha dovuto fare i conti con la censura e ha sostenuto posizioni molto più aperte di quel che appare nell’opera scritta (il libro è stato pubblicato in edizione italiana dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici nel 1989).
Per conoscere il vero pensiero di Hegel sul diritto, la morale e lo Stato, bisogna quindi riferirsi ai quaderni di “Filosofia del diritto” dei discepoli di Hegel, che riproducono ciò che egli diceva alle lezioni e che sono in corso di pubblicazione (un’ampia antologia in italiano è stata curata da Domenico Losurdo, a seguito di una ricerca promossa dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, e pubblicata nel 1989 col titolo: Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale).
Leggiamo il primo brano della Prefazione che vi voglio proporre, centrata sulla coincidenza della razionalità e del reale (quindi anche della realtà dello spirito oggettivo). Hegel dice, al capoverso 7 della Prefazione: «Ai nostri tempi potè sembrare saldissimamente radicata, in rapporto allo Stato, la concezione che la libertà del pensiero e dello spirito specialmente si dimostri soltanto con la divergenza, anzi con l’ostilità contro ciò che è riconosciuto pubblicamente, e per conseguenza potè sembrare singolare che una filosofia abbia intorno allo Stato essenzialmente il compito di ritrovare e fornire anche una teoria, e precisamente una teoria nuova e particolare. Se si guarda a quella concezione ed all’influsso conforme ad essa, si dovrebbe credere che non sia esistito ancora al mondo Stato o costituzione politica né presentemente esista, ma che ora – e questo “ora” dura sempre – sia da incominciare interamente daccapo, e il mondo morale abbia atteso proprio una tale odierna concezione, investigazione e creazione». È chiaro che Hegel sta polemizzando contro i filosofi del sentimento, i filosofi che si fondano sull’intuizione, i quali sostengono che sullo Stato, sulla morale, ecc., ognuno può dire la sua (e questo, in fondo, è il punto di vista dominante anche oggi). Per Hegel invece il pensiero non si esprime con la divergenza, non si dimostra che si sta pensando solo quando si manifesta divergenza o ostilità contro ciò che è riconosciuto, perché ciò che è riconosciuto, vale a dire la morale corrente, lo Stato come esso è attualmente organizzato, ecc., sono una sedimentazione storica, frutto della razionalità delle generazioni che ci hanno preceduto, quindi hanno in sé una loro razionalità. Qui emerge un’altra novità di Hegel: la filosofia morale, la filosofia del diritto, non dovrà dire come il mondo deve essere, non dovrà dire quali norme morali l’uomo dovrà seguire, non si tratterà di enunciare un dover essere, si tratterà di capire qual è la razionalità già presente negli Stati, nei sistemi morali, ecc.: i sistemi morali possono essere inadeguati, ma hanno un certo livello di razionalità, gli Stati possono essere inadeguati, ma hanno un certo livello di razionalità. Nelle istituzioni il passato ha sedimentato una razionalità, non si tratta di andare ad inven- tarla ora, mentre invece questa è l’ingenuità presuntuosa di tutti i superficiali. Non si tratta di escogitare adesso norme morali razionali: le norme della morale corrente hanno già una loro razionalità, diversamente si scade di nuovo nella scissione kantiana e illuministica, per cui la ragione è presente solo nella mente di alcuni individui, mentre il mondo va avanti per conto suo, la realtà è una cosa e la razionalità un’altra. Hegel, contro il dualismo illuministico e kantiano, afferma che reale e razionale sono uniti: è ridicolo pretendere che io ora, all’ultimo momento, venga a dire al mondo come deve essere razionale; il mondo ha già la sua razionalità.
Continuiamo: «Per la natura si ammette che la pietra filosofale [la chiave per capirla] sta celata in qualche luogo, ma nella natura stessa, che questa è razionale in sé, e che il sapere deve ricercare e comprendere, intendendola, questa ragione presente nella natura reale, non gli aspetti e le contingenze che si mostrano alla superficie, ma la sua eterna armonia in quanto però sua legge ed essenza immanente. Il mondo etico, all’incontro, lo Stato, la ragione come si realizza nell’elemento dell’autocoscienza, non deve godere di questa fortuna, cioè che la ragione sia quella che, nel fatto, si è affermata come forza e potenza in questo elemento, il quale vi si mantiene e vi abita. L’universo spirituale anzi, deve essere lasciato in balìa del caso e dell’arbitrio, deve essere abbandonato da Dio». Per quanto riguarda la natura, è scontato che bisogna cercarne la logica, la razionalità interna. Lo scienziato cerca le leggi di funzio- namento della natura e non pretende di affermare velleitariamente: «Guardate, io penso che la natura funzioni in questo modo», bensí lo dimostra sulla base di una legge che trova nei fenomeni stessi. Ora, lo stesso metodo deve valere anche per il mondo umano. Il mondo spirituale, essendo più elevato di quello della natura, per Hegel deve possedere almeno altrettanta razionalità del mondo naturale, quindi, come nessuno pretende di fare scienza della natura dicendo: «La natura funziona così, ma dovrebbe invece funzionare in quell’altro modo», così non si può dire all’uomo: «Ora ti detto una nuova morale», o allo Stato: «Devi funzionare in questo modo»; si deve bandire il dover essere e bisogna cercare invece di capire l’essenza razionale profonda della realtà aldilà della superficie, aldilà delle apparenze.
Nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto Hegel usa per la filosofia una prima definizione: la filosofia è lo scandaglio del razionale. Lo scandaglio è lo strumento che usano i marinai per sondare i fondali. La filosofia è lo scandaglio del razionale nel senso che, al di sotto della superficie apparentemente irrazionale, caotica, degli eventi, cerca la loro razionalità profonda: «L’universo spirituale [il mondo dello spirito, del diritto, della morale, dell’eticità, secondo i critici superficiali, i retori, i sofisti di oggi] deve essere lasciato in balìa del caso e dell’arbitrio, deve essere abbandonato da Dio». L’idea, la ragione, è intesa da Hegel come il divino. Poche righe dopo, egli fa ricorso a un’espressione molto forte: «Oggi domina un ateismo del mondo morale, cioè si pensa che i rapporti tra gli uomini, la politica, il diritto, la morale, ecc. siano abbandonati da Dio, cioè siano privi di razionalità, siano privi dell’elemento razionale». «Come, secondo Epicuro, il mondo in generale, così il mondo etico non è certamente (ma secondo tale concezione [vuol dire secondo la sofistica, secondo l’opinione comune, secondo la falsa filosofia] dovrebbe essere) rimesso all’accidentalità soggettiva dell’opinione e dell’arbitrio. Col semplice rimedio casalingo di collocare nel sentimento ciò che è l’opera (e, invero, più che millenaria), della ragione e del suo intelletto, è certamente risparmiata ogni fatica d’intendimento razionale e della conoscenza, governàti dal concetto pensante. Mefistofele, presso il Goethe [si riferisce al Faust, al capolavoro di Goethe in cui Mefistofele è il genio del male] – buona autorità – dice su questo punto, press’a poco, quel che io ho citato qualche altra volta: Disprezza pure intelletto e scienza, doni supremi dell’uomo; così ti sarai consacrato al diavolo e dovrai andare alla perdizione». Che cosa vuol dire quest’altro passo? I romantici si affidano al sentimento, ma il sentimento è qualche cosa di arbitrario, di soggettivo, di volubile, di variabile, cambia da individuo a individuo, a seconda dei nostri stati di umore; non ci si può affidare al sentimento per la scienza, ma non ci si può affidare al sentimento neppure per il diritto, la morale e l’eticità, altrimenti si cade in balìa del diavolo, si cade nelle tenebre infernali del caso, dell’arbitrio: se affidassimo al sentimento la comprensione del diritto e della morale, staremmo a brancolare in un inferno, cioè in un buio completo. I filosofi del sentimento, che mettono l’accento sul cuore, ci portano su una strada diabolica perchè ci inducono a negare la razionalità.
«Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell’universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o qualsiasi aspetto assuma la coscienza soggettiva, riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, allora essa si ritrova nel vuoto e, poichè soltanto nel presente v’è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l’idea passa per essere soltanto un’idea, una rappresentazione in un’opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l’idea. Si tratta allora di riconoscere nell’apparenza del temporaneo e del transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale. Invero il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell’esistenza esterna, si presenta in un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e figure; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle figure esterne». È uno dei passi cruciali del pensiero di Hegel. Consideriamo prima di tutto la famosa frase: ciò che è razionale è reale e viceversa. Questa frase è stata molto discussa. Tra l’altro, negli appunti presi alle lezioni la frase figura in un caso al futuro e con il senso del dovere: il razionale dovrà diventare reale. Hegel stesso si è difeso dai fraintendimenti che possono farlo apparire fautore di un appiatti- mento completo, per cui tutto quello che esiste è giustificato. Nel paragrafo sesto dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio respinge queste accuse, affermando: «Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto, p. XIX si trovano queste proposizioni. Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi, e han trovato opposizioni anche da tali che non vogliono si metta in dubbio che essi posseggano filosofia, e di certo, almeno, religione. Per ciò che concerne la religione, non è necessario tirarla in mezzo in questo dibattito, giacché le sue dottrine sul divino reggimento del mondo esprimono quelle proposizioni in modo ben determinato. Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da presupporre tanta coltura che si sappia non solo che Dio è reale, – che è la cosa più reale e che è la cosa veramente reale, – ma anche, nel rispetto formale, che l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggiera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di pensare, un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: – l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile, che può non essere allo stesso modo che è. Ma, quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione, giacché in una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l’ho accuratamente distinta non solo dall’accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall’essere determinato, dall’esistenza e da altri concetti. – Alla realtà del razionale si contrappone, da una parte, la veduta che le idee e gli ideali non siano se non chimere, e la filosofia un sistema di questi fantasmi cerebrali; e dall’altra, che le idee e gli ideali siano alcunché di troppo eccellente per avere realtà, o anche di troppo impotente per procacciarsela. Ma la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto, che tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace, ed è tutto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come dev’essere, ma non è: che, se poi fosse come dev’essere, dove se n’andrebbe la saccenteria di quel dover essere? Allorché l’intelletto, col suo dover essere, si rivolge contro cose, istituzioni, condizioni, ecc., triviali, estrinseche e passeggiere, che possono anche serbare per un certo tempo e per certe particolari classi d’uomini una grande importanza relativa, avrà anche ragione, e troverà in quel caso molte cose che non rispondono ad esigenze giuste ed universali: chi non possederebbe la pazienza di scoprire, in ciò che lo circonda, molte cose che in fatto non sono come debbono essere? Ma questa sapienza ha torto quando immagina di aggirarsi, con siffatti oggetti e col loro dover essere, nella cerchia degli interessi della scienza filosofica. Questa ha da fare solo con l’idea, che non è tanto impotente da restringersi a dover essere solo, e non essere poi effettivamente: ha da fare perciò con una realtà, di cui quegli oggetti, istituzioni, condizioni, ecc., sono solo il lato esterno e superficiale». Se si legge attentamente, è come se dicesse: «La realtà è variegata, è fatta di tantissime cose, è fatta di un involucro molto variopinto, è fatta di tanti elementi accidentali, queste cose accidentali, io, Hegel, non le chiamo “realtà” in senso pieno, in quanto solo quello che è adeguato al proprio concetto è pienamente reale, ed è razionale, ma quanto è accidentale, casuale, contingente, non lo chiamo “reale”». D’altra parte ha affermato: «Si tratta di riconoscere nell’apparenza del temporaneo e del transitorio la sostanza», quindi si torna allo scandaglio del razionale. Se ci si ferma alla superficie e si chiama “realtà” tutto quello che si vede allora è chiaro che la formula di Hegel non funziona: essa si riferisce alla realtà profonda, cioè alla realtà essenziale.
Ora, per cogliere la realtà essenziale bisogna andare oltre la riflessione, il sentimento e altri aspetti della coscienza soggettiva. Il sentimento, sostiene Hegel, porta a dire: «Le cose vanno in un certo modo però, peccato, dovrebbero andare in un altro», il sentimento cioè tende a essere scontento della realtà per motivi puramente soggettivi. Può sembrare strano che egli critichi anche la riflessione, ma quando parla di “riflessione” Hegel implica l’atteggiamento intellettualistico proprio dell’Illumi- nismo e di Kant. Per Hegel l’intelletto è qualche cosa di parziale, di negativo, perchè l’intelletto è analitico, tende a distinguere, è la forma di conoscenza tipica degli illuministi e di Kant. Kant e gli illuministi fanno leva su un intellettualismo astratto in quanto vedono il mondo composto di tante cose “tratte fuori” le une dalle altre (“astratte” significa separate) ed essi tra l’altro separano l’essere dal dover essere, quindi si creano un sovramondo ideale che poi si dovrebbe calare nella realtà, pretendono di dare consigli alla realtà su come dovrebbe essere. Questa critica è di grande importanza in quanto implica un ripensamento della Rivoluzione francese.
Hegel ha provato un entusiasmo enorme insieme con Schelling e Hölderlin, quando aveva poco più di diciott’anni, nel collegio di Tubinga, per la Rivoluzione francese. Ha poi capito però che la Rivoluzione francese ha fallito i suoi obiettivi più alti perchè ha avuto una mentalità intellettualistica, ha elaborato cioé alti ideali di uguaglianza, fratellanza e libertà, ha cercato di calarli nella realtà, ma la realtà non li ha recepiti. Tutta l’opera di Hegel si può considerare un tentativo di fare i conti con la Rivoluzione francese in quello che aveva di grandioso e in quello che aveva di sbagliato. Hegel quindi critica la riflessione perchè rifiuta l’Illuminismo, cioè la filosofia intellettualistica che, dividendo la realtà in tanti pezzi, separa anche il mondo dalla storia, separa il dover essere dall’essere: questa separazione ha portato a un naufragio: libertà, uguaglianza e fratellanza non si sono realizzate. Hegel critica il sentimento, critica l’intelletto, e paradossalmente finisce col dare ragione alla coscienza ingenua. Afferma che ogni coscienza ingenua sa che il reale è razionale. Qui per “coscienza ingenua” si intende coscienza religiosa. Vuol dire che l’uomo religioso sa che le cose possono andare male, ma in un quadro provvidenziale, di cui momentaneamente sfuggono i contorni: l’uomo religioso, come il Manzoni, attraverso le sofferenze, i dolori, vede alla fine trionfare la Provvidenza.
L’altro grande concetto è che se ci si ferma alla superficie non si scorge la razionalità: non bisogna scambiare tutta l’apparenza per realtà, non tutte le cose che appaiono sono realtà in senso proprio. Bisogna sondare con lo scandaglio del razionale, “trovare il polso”: non qualunque parte del corpo mi rivela il ritmo cardiaco. Questo vuol dire Hegel: non qualunque cosa di per se stessa mi rivela la razionalità di un fenomeno, debbo trovare il polso, che mi dice se l’individuo sta vivendo e sta pulsando al ritmo giusto. Trovare il polso: questa è l’opera della filosofia, cioè trovare l’essenziale. Poche righe dopo ancora nella Prefazione della Filosofia del diritto, Hegel usa un’altra espressione molto enigmatica: dice che la filosofia è il trovare la rosa nella croce. Si rifà a Lutero, che aveva ideato il suo stemma in modo molto immaginoso con una rosa, una croce, una corona. Che cosa vuol dire? C’è una croce nel presente, il presente si manifesta come guerre, brutture, violenze, eppure il filosofo (come l’uomo di fede per altri aspetti) all’interno della croce, all’interno del negativo, sa trovare il positivo, sa trovare la rosa. Notate quante definizioni della filosofia dà Hegel in due, tre pa-gine: la filosofia è lo scandaglio del razionale, è quella che permette di trovare il polso della realtà, cioè di capirne il ritmo essenziale, è il ritrovare la rosa nella croce cioè il ritrovare quanto c’è di positivo in ciò che è apparentemente negativo. E aggiunge nella stessa Prefazione che criticare è facile, la mentalità superficiale critica sempre, vede solo il negativo, ma il negativo è solo il momento antitetico, è solo una parte della realtà, invece bisogna considerare la realtà nella sua totalità: il vero è l’intero.
Procediamo nella lettura: «Così dunque questo trattato in quanto contiene la scienza dello Stato, deve essere null’altro se non il tentativo di intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico esso deve restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come deve essere. L’ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere ad insegnare allo Stato come deve essere, ma piuttosto in qual modo esso deve essere riconosciuto come universo etico. Intendere ciò che è, è il compito della filosofia, quindi non dare il dover essere, ma intendere ciò che è, poichè ciò che è è la ragione, del resto, per quel che si riferisce all’individuo ciascuno è senz’altro figlio del suo tempo ed anche la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. È altrettanto folle pensare che una qualche filosofia precorra il suo mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci indietro il suo tempo e salti oltre su Rodi. Se la sua teoria nel fatto oltrepassa questo, se si costruisce un mondo come deve essere, esso esiste bensí, ma soltanto nella sua intenzione, in un elemento duttile col quale si lascia plasmare ogni qualsiasi cosa». Anche qui il discorso è più semplice di quel che appare: esso è tutto centrato in quella citazione che viene da Esopo, il famo-so scrittore di favole greco. Esopo racconta di un atleta spaccone, il quale, in una cerchia di amici, si vanta: «Guardate che a Rodi, quando si sono svolti i giochi, ho fatto un salto veramente strabiliante, che non potete immaginare». Allora uno degli astanti dice: «Va bene, ora non siamo a Rodi, ma la nostra Rodi è qui, salta qua, salta adesso, faccelo vedere adesso questo salto spettacolare». Naturalmente il salto l’atleta non lo riesce a fare, ne vie-ne fuori questa morale: che bisogna confrontarsi col presente, è inutile fare come l’atleta spaccone e dire: «Il presente è brutto, lasciamo stare, non ci penso neppure, ma invece come sarebbe bella un’altra realtà, come sono stato bravo a Rodi». Hegel vuol dire che non è ammis-sibile un pensiero astratto, utopistico, che vuol calare belle idee nella realtà: bisogna confrontarsi con la realtà quale essa è, qui è Rodi e qui bisogna saltare. Come Machiavelli, bisogna descrivere la realtà effettuale, le repubbliche che esistono, non quelle che si immaginano, o si desiderano: la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero.
Nell’ultimo capoverso della Prefazione troviamo infine la famosa immagine: la filosofia è la nottola (la civetta) di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo. La filosofia non può essere l’anticipo di un mondo che dovrà venire, non è fantascienza, non è utopia, è il proprio tempo appreso col pensiero. Secondo Hegel la filosofia sboccia sempre al momento culminante delle civiltà: Socrate e Platone sono vissuti quando cominciava la decadenza della Grecia, ed essa si iniziava a lacerare al proprio interno, non sono fioriti quando la Grecia vinceva contro i Persiani. La filosofia, secondo Hegel, sboccia nelle forme più mature quando una civiltà si sta concludendo, quando un fenomeno storico è alla fine e perciò se ne possono individuare i tratti; il filosofo non può anticipare il futuro. C’è stata l’epoca della Rivoluzione francese, c’è stata l’epoca di Napoleone Bonaparte, ed Hegel negli anni Venti dell’Ottocento cerca di capire i limiti del pensiero dell’epoca che si sta appena chiudendo. Ma bisogna intedere che cos’è “l’epoca”, in quanto “l’epoca” è qualche cosa che comprende un momento positivo, uno antitetico e uno sintetico, quindi è un arco di tempo abbastanza ampio. Si può sostenere che noi stiamo vivendo ancora nell’epoca hegeliana, in quanto nessuno ha osato dire che è finita l’età contemporanea, iniziata col 1789. Perciò Hegel è di un’importanza grandissima oggi: viviamo ancora all’interno della sua epoca, l’epoca contemporanea aperta con l’89. Hegel dice addirittura del cristianesimo, che il suo compito è una “lunga fatica”: il cristianesimo è l’ultima religione storica, è la conclusione di tutti gli sviluppi delle religioni, ma si tratta di metterla in pratica, e ci vuole una lunga fatica di millenni per realizzarla. Dopo due secoli le promesse della Rivoluzione francese, libertà, fratellanza, uguaglianza non sono ancora realizzate. Non si possono realizzare sulle basi dell’intellettualismo astratto e del sentimento, si tratta di capire come si possono realizzare alla luce del pensiero dialettico hegeliano, che Marx svilupperà almeno in parte. I problemi della Rivoluzione francese e di Hegel sono i problemi dell’epoca nostra, flagellata dall’irrazionale e dalla mancata realizzazione degli ideali di quella rivoluzione.
Abbiamo visto la Prefazione, cui seguono le tre parti dell’opera, che corrispondono a diritto (che Hegel però non a caso chiama diritto “astratto”), moralità ed eticità. L’eticità a sua volta si manifesta nei momenti della famiglia, della società civile e dello Stato. Perché si parte dal diritto? Abbiamo detto che lo spirito oggettivo è il momento di unione delle varie autocoscienze sulla base di vincoli oggettivi, che consistono prima di tutto nelle leggi. Le leggi hanno però questa caratteristica: in base alla legge io sono unito da un vincolo con gli altri, li debbo rispettare, però questo vincolo è puramente esteriore. Il diritto crea rapporti oggettivi tra gli uomini, rende possibile la convivenza, ma sulla base dell’esteriorità. Al diritto quindi succede la moralità. Nella moralità, all’inverso, i rapporti fra gli uomini sono fondati sulla base dell’interiorità: la morale consta di norme cui si aderisce per un’intima convinzione, per un’intima adesione. La morale però molto spesso rimane inattuata, si vuole il bene ma non si riesce a realizzare il bene. Alla parzialità del diritto e della morale (il diritto solamente esteriore, la morale solamente interiore) segue un terzo momento sintetico, l’eticità, in cui troviamo comportamenti regolamentati da leggi, istituzio- nalizzati, ma cui si aderisce per un’intimo trasporto: la famiglia, la società civile e lo Stato, come li intende Hegel, sono organismi in cui gli uomini sono legati fra loro, ma non solo per un vincolo esteriore. L’individuo si realizza in queste entità perchè esse corrispondono a sue esigenze. Il matrimonio, per esempio, tranne che in casi patologici, non è un legame coatto, è la tendenza a unire due individualità, che implica anche obblighi, ma che viene contratto spontaneamente. Lo Stato, su cui torniamo fra un attimo, è un’entità etica: Hegel fonda il concetto di Stato etico, per cui lo Stato è anche la patria, è la più alta espressione dei contenuti di civiltà di un popolo, e non è semplicemente un apparato giuridico esteriore.
Lo spirito che cerca di realizzarsi nel mondo esterno, oggettivo, si manifesta con l’uomo autocosciente, la volontà libera, la personalità. «La volontà libera, per non restare astratta, deve darsi anzitutto un’esistenza, e la prima materia sensibile di quest’esistenza sono le cose, cioè gli oggetti esterni». L’uomo cerca di affermarsi proiettandosi all’esterno, impossessandosi delle cose, e il diritto nasce prima di tutto per stabilire la proprietà delle cose: «Questa prima maniera della libertà è quella che noi dobbiamo conoscere come proprietà, la sfera del diritto forma- le ed astratto, in cui rientrano non meno la proprietà nel suo aspetto mediato, in quanto contratto, e il diritto nella sua violazione, in quanto delitto e pena». Il primo atto che compie l’uomo è quello di espandersi all’esterno, di impossessarsi delle cose. Il possesso viene codificato dal diritto e diventa proprietà. La proprietà viene acquisita sempre mediante un contratto: in maniera esplicita se si compra un’automobile o in maniera implicita se si compra un semplice bicchiere di carta, ci si sottopone a una serie di norme contrattuali che regolano l’acquisito, il diventare proprietari di oggetti. Il contratto è la prima forma del diritto. Il contratto può essere negato dal delitto: non rispetto il contratto, oppure rubo la cosa di un altro, o lo uccido per appropriarmene. C’è il contratto, il delitto, che è la negazione di quel cardine del diritto che è il contratto (l’antitesi), e la pena, che invece è il ristabilimento del diritto originario. Anche qui troviamo un ritmo triadico: il contratto che mi garantisce la proprietà, il delitto che rompe il contratto, che rompe il diritto, e la pena che dovrebbe essere la sintesi e ristabilisce il diritto originario mediante la punizione del reo.
È importante sottolineare che “proprietà” non significa “patrimonio”: nella Filosofia del diritto di Hegel viene distinta la proprietà, che serve a fini di utilità personale, dal patrimonio, che può diventare qualche cosa di rilevanza anche sociale. Hegel sostiene che quando la pro- prietà diventa patrimonio e acquisisce un’influenza sociale, deve essere messa sotto controllo dallo Stato: per questo aspetto si può addirittura dire che Hegel apre la strada al socialismo.
«La libertà che abbiamo qui è ciò che chiamiamo persona, cioè il soggetto che è libero, ossia per sé libero, e si dà un’esistenza nelle cose». Il soggetto è per sé libero e si dà un’esistenza nelle cose. Il per sé in Hegel implica sempre l’esteriorità, la natura per esempio è per sé in quanto è materiale, è esteriore; l’uomo si realizza nel diritto mediante qualche cosa di esteriore, impossessandosi delle cose e dandosi una serie di leggi che sono esteriori. Sottoscrivo un contratto, rispetto la proprietà, non rubo, non uccido, ma intimamente potrei anche essere convinto che invece mi converrebbe uccidere e rubare o violare il contratto, e non lo faccio soltanto perchè temo la pena, cioè il ristabilimento del diritto. Il diritto è quindi un fatto puramente esteriore: intimamente si può non condividerlo. Ancora un esempio: si devono pagare le tasse, si pagano per evitare una multa, ma si può non essere convinti intimamente dell’opportunità di pagare le tasse. Il diritto rimane quindi un insieme di norme e di leggi esteriori, è parziale, e dà luogo alla sua antitesi: la sfera della moralità. «Questa semplice immediatezza dell’esistenza però non è adeguata alla libertà e la negazione di questa determinazione è la sfera della moralità. Io non sono più sempli- cemente libero in questa cosa immediata, ma sono tale anche eliminata l’immediatezza, cioè sono tale in me stesso, nella sfera soggettiva». Si raggiunge un livello più maturo di affermazione della personalità. La libertà, quando l’affermo nel possesso di cose esteriori, non è piena libertà: se dipendo da cose esteriori, nel diritto non sono pienamente libero; nella moralità si afferma un momento superio- re: qui dipendo solo dalla voce della mia coscienza, da norme che ritrovo nella mia interiorità, quindi sono li-bero in me stesso, nella sfera soggettiva. «In questa sfera opera il mio giudizio e la mia intenzione e il mio fine, poiché l’esteriorità è posta come indifferenza». Con la moralità raggiungiamo un livello più alto di libertà in quanto seguiamo le norme morali come le sentiamo nella nostra coscienza.
Hegel si esprime in proposito in termini kantiani: si è recuperata l’interiorità, l’interiorità però implica l’intenzione; si aderisce a norme morali, si vorrebbe fare il bene, però, come sappiamo da Kant, per un impedimento esteriore spesso non ci si riesce. La morale, Hegel riconosce con Kant, è intenzionale, può anche dar luogo al fatto che un ostacolo esteriore non consente di realizzare il bene. La morale costituisce un passo in avanti perché è interiore, quindi è più vicina alla libertà, ma a volte rimane puramente intenzionale e formale, non trasforma veramente i contenuti dell’esistenza (tanto che Kant ha sentito l’esigenza di postulare Dio, l’immortalità dell’anima: la realizzazione morale è rinviata in un aldilà, nella sfera appunto dei postulati).
Per questo Hegel vede un terzo momento risolutivo: la sfera dell’eticità: «Ma il bene, che qui è il fine universale, deve non restare semplicemente nel mio interno, cioè puramente soggettivo e interiore come nella morale, ma deve anche realizzarsi. La volontà soggettiva cioè esige che il suo interno, ossia il suo fine, consegua esistenza esterna, che quindi il bene debba essere compiuto nell’esistenza esterna». Il bene non deve rimanere un dover essere a cui poi l’essere non corrisponde, deve tradursi in realtà (come sempre nella visione monistica di Hegel: il reale è razionale). «Quindi la moralità e il momento precedente del diritto formale sono due astrazioni la cui verità è solamente l’eticità». Il diritto e la moralità sono “momenti” dello spirito oggettivo analizzati per meglio comprenderne la natura, ma in effetti veramente reale è solo l’eticità, in quanto il diritto e la moralità implicano ancora un riferimento all’individuo, che ha rapporti esteriori o rapporti con la pro- pria interiorità, ma rimane individuo, invece la vera realtà non è l’astrazione dell’individuo, bensí la concretezza dello Stato. Hegel usa i termini “astratto” e “concreto” all’inverso di come si fa nel linguaggio ordinario. Per Hegel “astratto” è tutto ciò che è individuale, cioè che è “tratto fuori” dal contesto totale, il “concreto’ (da “cum” latino) è quello che, invece, è unito con tutto il resto, è unito alla totalità. L’individuo è astratto, e perciò parlare del diritto dell’individuo, della moralità dell’individuo per Hegel costituisce un’astrazione: l’individuo non esiste in quanto tale, bensí solo nel contesto dello Stato. Per Hegel il tutto prevale sulla parte. Hegel è d’accordo con Aristotele sul fatto che l’uomo è un’animale politico: l’uomo non vive isolato, esso, dice Hegel, è destinato alla vita comunitaria, è destinato alla vita in comune, e questa è la sfera propria dell’eticità. L’eticità comprende in sé il diritto e il dovere morale, comprende in sé l’esteriorità del diritto e l’interiorità della morale: è quell’insieme di comportamenti che legano l’individuo agli altri, ma cui egli aderisce spontaneamente perché li sente come propri anche se sono regolati in istituzioni.
Il primo momento dell’eticità, è la famiglia. In essa, dice Hegel, l’individuo è una sola cosa con gli altri membri della famiglia. Il bambino, quando nasce, la trova preesistente, ne fa parte senza essersela scelta. Hegel vuol mettere in guardia dall’astrattismo individualistico: l’individuo già da quando nasce fa parte della piccola comunità della famiglia, che apre la strada alle comunità più ampie della società e dello Stato. Gli individui che fanno parte della famiglia non valgono di per se stessi: i genitori hanno rinunciato un po’ alla loro personalità; il bambino a sua volta non ha ancora una sua personalità. Hegel mette molto l’accento sul fatto che la famiglia è una piccola totalità basata sul sentimento, sul consenso e sulla fiducia reciproca. Questo dà bene il senso del vincolo etico: “sul consenso” implica che si aderisca all’unione del matrimonio sulla base di una scelta libera, ma questa istituzione richiede la volontaria rinuncia a una parte della propria libertà indiscriminata per dedicarsi al coniuge e alla prole. Però questi impegni, questi obblighi, questi doveri vengono contratti spontaneamente, non si avvertono come un’esteriorità, vi si aderisce per libero consenso. La famiglia è un organismo etico proprio in quanto implica vincoli accettati volontariamente, liberamente. Soprattutto è molto suggestiva la parte in cui Hegel parla della “seconda nascita”, cioè dell’educazione di cui i genitori si assumono la responsabilità.
La famiglia però non è autosufficiente: non tutti i bisogni che si presentano all’interno della famiglia si possono soddisfare al suo interno, nasce quindi l’esigenza del passaggio alla società civile, vale a dire al mondo dell’economia, della produzione, in cui uno farà il falegname, un altro il sarto, un altro l’avvocato, un altro l’ingegnere, un altro l’insegnante, ecc. Il soddisfacimento dei bisogni non può venire espletato all’interno della famiglia, essa quindi deve essere superata verso una forma di aggregazione più vasta, superiore, che è la società civile.
“Società civile” è un neologismo che Hegel ha fondato quasi simultaneamente ad Haller, un filosofo politico suo contemporaneo. Questa nuova locuzione che Hegel ha inventato viene oggi adoperata in maniera spesso erronea: si sente usare il termine “società civile” come se indicasse qualche cosa di positivo contro la barbarie, invece la parola “civile” per Hegel ha il senso che viene da civis latino, vuol dire abitante della città, della polis (infatti in tedesco “società civile” si dice bürgerlische Gesellschaft, da “borghese”, “abitante del borgo”). Perché Hegel ha inventato questo neologismo? Da Aristotele fino a Kant, lo Stato o la polis, città-Stato, implica anche la società civile, si parla cioè di cittadino, di membro dello Stato e di membro della società come se fossero la stessa cosa. Hegel invece è il primo che distingue nettamente la società civile dalla società politica: “società civile” non è locuzione intesa in contrapposizione a società barbarica, a barbarie, bensí vuol indicare l’uomo nella sua sfera privata, soprattutto nella sfera dei rapporti economici con gli altri, la sfera per cui uno fa il sarto, un altro fa il fabbro, un altro l’ingegnere e si aggrega magari con i suoi compagni di lavoro, difende i propri interessi, crea un sindacato, una corporazione, ma è un uomo privato che pensa al suo sostentamento, alla sfera dei suoi bisogni. Questo è l’ambito della società civile. Invece la società politica è lo Stato. Da Aristotele fino a Kant i due termini si confondono (per il fatto che la società non si era ben differenziata, per cui il privato e il pubblico si confondevano, la società civile e la società politica sembravano la stessa cosa), con Hegel invece si sono differenziati. “Società civile”in Hegel ha però un connotato negativo, perché Hegel la definisce come «lo stato della necessità e dell’intelletto». Che cosa vuole dire? Lo stato (“stato” nel senso di “condizione”) della necessità, è la sfera dei bisogni, è la sfera in cui entrano in contatto le famiglie e quindi gli individui che ne fanno parte, per soddisfare i loro bisogni economici, i loro bisogni materiali. È la sfera dell’intelletto, dice, il che può sembrare strano, ma si spiega alla luce di quanto abbiamo detto prima. Per Hegel l’intelletto è una funzione analitica: l’intelletto, nel vedere le cose come separate le une dalle altre, corrisponde all’individualismo. Ora, la società civile per Hegel è come l’intelletto, cioè come l’intelletto vede le cose separate le une dalle altre, così la società civile consta di individui o gruppi di individui separati tra di loro. Come all’intelletto, che è per sua natura analitico, succede una facoltà superiore, la ragione, che è sintetica, che invece di vedere le parti e gli individui vede il tutto come prevalente, opera la sintesi, così alla società civile succede lo Stato, che è l’equivalente della totalità, che è superiore alla somma degli individui: non è equivalente alla società, è qualche cosa di più.
Questa è una strada che Hegel ha aperto e che ancora non è stata percorsa bene: oggi anche in Italia si confonde spesso la società civile con lo Stato. La maggior parte degli uomini politici è contro lo Stato, ma essi cadono nell’errore o nella mistificazione di chiamare “Stato” quello che non è Stato, perché prendono le distanze dallo Stato italiano degli anni Ottanta, ma lo Stato italiano degli anni Ottanta non è Stato in senso hegeliano: lo Stato in senso hegeliano è l’universalità, è la legge come espressione dell’universalità e dell’eticità, invece in Italia nel decennio trascorso c’è stato un assalto allo Stato di una parte della società civile organizzata in partiti, in gruppi di interesse, che hanno saccheggiato lo Stato. Alcuni politologi parlano di “doppio Stato” ma piuttosto si dovrebbe parlare di “antistato”. Contro quell’antistato oggi bisogna ribadire la centralità decisiva dello Stato. Molti rivendicano di essere “antistatali”, hanno creato una confusione linguistica dannosa, rispetto a cui bisogna rivendicare con forza lo Stato. Faccio un esempio ancora più drammatico di equivoco sul termine “Stato”: c’è chi parla di Stato fascista, di Stato nazista, ma dal punto di vista hegeliano quello fascista o quello nazista non erano Stati, bensí regimi fondati su partiti che avevano usurpato le funzioni statali.
Perché, qual è la cartina di tornasole per verificare quando siamo nella sfera dello Stato? La sfera dello Stato è la sfera della massima universalità dei rapporti tra gli uomini: è dunque chiaro che, quando ci si trova di fronte allo Stato tra virgolette (che non è uno Stato) ispirato a un’ideologia razzista, per cui ci sarebbero differenze fra gli individui dovute addirittura al sangue, non siamo in presenza di uno Stato, bensí di un partito militarizzato che ha occupato lo Stato. Quando si parla in termini critici dello Stato italiano degli anni Ottanta, bisogna tener presente che non era lo Stato a essere malato, bensí elementi della società civile avevano dato un arrembaggio allo Stato. Si può dire che lo Stato italiano ha subíto un’usurpa- zione nel ventennio fascista da parte di un partito, nel ven-tennio che va grosso modo dal 1972 (inizio di legiferazione in deroga alle norme sulla contabilità generale dello Stato) al 1992 (inizio di “Tangentopoli”) da parte invece di più partiti, che hanno dato luogo alla cosiddetta “partitocrazia” e hanno proceduto a dilapidare le risorse dello Stato. Lo Stato va invece hegelianamente considerato come un valore, ed esso si manifesta quando c’è universalità, cioè l’universalità della legge e la tendenziale uguaglianza dei cittadini. Allora si è in presenza dello Stato.
Ora, perché lo Stato ha queste connotazioni? Lo Stato non viene analizzato da Hegel nella sfera del diritto: Hegel elabora una concezione nuova dello Stato che rompe con tutte le visioni precedenti. Queste erano tutte, con varie sfumature, di tipo contrattualistico: l’individuo entra in contatto con gli altri individui e, a un certo punto, per garantirsi sicurezza, dà luogo ad un contratto, fa nascere le leggi, fa nascere lo Stato. Lo Stato sorge dagli individui, da un contratto fra gli individui: esso è un fatto semplicemente giuridico, è l’insieme delle leggi che impediscono lo scatenamento degli egoismi, lo homo homini lupus di Hobbes. Il modello di Hobbes – lo Stato come contratto che supera lo homo homini lupus – vale da Hobbes fino a Kant; con Hegel si ha una rottura con questo modello. Esso implicava che lo Stato nasce dall’individuo, mentre invece per Hegel lo Stato è una totalità che precede l’individuo: l’individuo, quando nasce, lo trova già costituito, come trova la famiglia o il linguaggio.
Il contrattualismo e il liberalismo implicano che lo Stato deve avere funzioni minime, quindi il contrattualismo dà allo Stato il compito di elaborare un sistema di leggi per evitare che uno sopraffaccia l’altro, che uno si appropri delle cose dell’altro, cioè per evitare lo homo homini lupus. Dal contrattualismo nasce lo Stato del liberalismo, lo Stato gendarme, cioè lo Stato che non deve fare niente in positivo, deve solo controllare con la sua polizia che nessuno prevarichi sull’altro, è lo Stato minimo, cioè lo Stato che non deve intervenire nell’economia, nella società, ecc., deve avere il ruolo minore possibile, in quanto a contare sono gli individui, unici protagonisti della vita sociale. Ma il libero campo lasciato all’individuo significa il predominio del più forte. Perciò oggi le forze più pervicacemente abbarbicate al privilegio sono antistatali e predicano un’astratta “libertà”: il conto torna. Ora, lo Stato come totalità, come momento sintetico, non è semplicemente un fatto giuridico, bensí è un fatto etico, implica una serie di contenuti che la storia ha sedimentato, che l’individuo trova propri e che avverte tra l’altro sotto l’aspetto di patria. Hegel, con Fichte, apre la strada a un nazionalismo positivo: lo Stato incarna lo spirito di un popolo, quello della sua lingua, della sua cultura, che le sue idealità hanno prodotto e che ha pari dignità con gli altri Stati.
Hegel sostiene che ogni Stato si presenta poi, rispetto agli altri Stati, come un individuo, e afferma che, come non vale il contrattualismo tra gli individui, così non vale neanche tra gli Stati: ogni Stato tende a entrare in conflitto con gli altri Stati e purtroppo per risolvere le loro contese non c’è un pretore, non c’è un giudice al di sopra dei singoli Stati. Di conseguenza sembrerebbe che per Hegel il conflitto, la guerra, sia inevitabile. Infatti Hegel afferma: «Non c’è alcun pretore, arbitro supremo e mediatore fra gli Stati, e anche questi sono soltanto in modo accidentale, cioé secondo la volontà particolare. La concezione kantiana d’una pace perpetua, mediante una lega degli Stati, la quale appiani ogni controversia, e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni dissenzione, e quindi renda impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone l’umanità degli Stati, che dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura, in generale, sempre da una volontà sovrana particolare, e, quindi, resta affetta da accidentalità». (Hegel, Lineamenti, par. 333, aggiunta). Vi sottolineo questo sia per darvi uno spunto di riflessione sul mondo contemporaneo, che sembrava pacificato per l’eternità, mentre invece si stanno rompendo tutti gli equilibri nati dalla seconda guerra mondiale, sia per accennarvi alla critica di Hegel al progetto per una pace perpetua di Kant.
Kant è stato uno spirito nobile, ha elaborato l’ipotesi di una pace perpetua, ma questo progetto, dice Hegel, è illuministico, astratto: chi non vuole la pace? ma come si fa a imporre la pace se non c’è un giudice? cioè se non c’è qualcuno che può infliggere una pena, comminare una sanzione? La legge vale tra gli individui perché c’è un’autorità superiore, il giudice, ma, nei rapporti tra gli Stati, chi punirà chi viola il patto, chi rompe il contratto, come si farà a ristabilire il diritto? Si tratta di un problema purtroppo di tragica attualità.