ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
ANTONIO GARGANO: KANT - LE TRE CRITICHE
- La critica della ragion pura
- La critica della ragion pratica
- La critica del giudizio
Critica del GIUDIZIO
Kant aveva edificato due grandi costruzioni teoriche, l’una riguardante la conoscenza, l’altra riguardante l’attività pratica e la morale, in contrasto tra di loro. Alla fine della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forte opposizione con le conclusioni della Critica della ragion pura. Il tentativo di Kant nella Critica del giudizio è proprio quello di sanare queste contraddizioni. Tale tentativo comporta lo sforzo di creare una nuova terminologia, il che fa della Critica del giudizio un’opera per certi versi oscura, che si presta a varie interpretazioni, un’opera ancora aperta. Lukács, un importante pensatore del Novecento, ha affermato che tutta l’estetica possibile per l’umanità è contenuta nella Critica del giudizio, ma si tratterà di dipanarla nei tempi venturi: si dovrà sempre attingere a quest’opera se si vorrà considerare i problemi della bellezza e del finalismo della natura.
Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio di libertà: la visione del mondo della Critica della ragion pura è meccanicistica. Il meccanicismo, già sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è una visione del mondo secondo la quale la natura procede per una concatenazione di cause ed effetti che non è indirizzata a nessuno scopo. Di solito il sostantivo ‘meccanicismo’ si accoppia con l’aggettivo ‘cieco’. Il meccanicismo è cieco: la natura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è solo un gioco di cause ed effetti senza finalità. Nella Critica della ragion pura la natura era vista in questa chiave; delle dodici categorie kantiane quella decisiva per l’interpretazione fisica della natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da relazioni causali che non hanno alcuno scopo. Nella Critica della ragion pura si ritrovano dunque il dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo: il cieco gioco di cause ed effetti è necessario, non lascia nessuno spazio alla libertà. La visione kantiana della prima Critica è deterministica: non c’è nessuna libertà. Nella prima Critica, inoltre, Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere soltanto il fenomeno, può conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dalle sue stesse strutture conoscitive: spazio, tempo, categorie e idee, ma non può assolutamente raggiungere la realtà quale è in se stessa. La cosa in sé è inconoscibile. Il noumeno è assolutamente al di là delle nostre possibilità di conoscenza. Il mondo è spaccato a metà: il fenomeno, soggetto alla necessità e al determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e inattingibile. L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica.
Nella Critica della ragion pratica, invece, si approda a una visione opposta rispetto a questa, in quanto al meccanicismo della Critica della ragion pura si contrappone il finalismo della ragion pratica (in tutta la storia della filosofia il contrario di “meccanicismo” è “finalismo”). La Critica della ragion pratica presenta uno spiccato finalismo: tutta la vita morale è tesa alla realizzazione del fine del bene. Nella vita morale l’uomo si pone un fine: la virtù, il bene. Anzi, Kant aveva anche parlato di un “regno dei fini”, cioè un regno ideale di tutti gli uomini che si rispettano vicendevolmente, e, seguendo la seconda formula dell’imperativo, si trattano sempre come fini e mai come mezzi. Il regno dei fini è il regno della morale: se la morale si realizzasse pienamente sarebbe il regno della finalità: ognuno sarebbe considerato dagli altri come un fine in sé. Il finalismo della Critica della ragion pratica è opposto al meccanicismo della Critica della ragion pura. Soprattutto, nella Critica della ragion pratica si presenta la libertà come uno dei tre postulati, cioè uno dei tre requisiti fondamentali senza i quali la vita morale non può aver luogo. Siamo dunque di fronte a questa contraddizione: da una parte Kant concepisce la natura come priva di ogni finalità e come priva di libertà; dall’altra considera l’uomo come capace di porsi fini, e come operante in una dimensione di libertà. Dalla Critica della ragion pratica emerge la visione di un’umanità che vive in una dimensione che non ha niente a che vedere con quella naturale: sembrerebbe che ci sia un’estraneità tra la natura e l’uomo, la natura meccanicista e l’uomo dotato di finalismo. Kant si rende perfettamente conto di questa contraddizione e cerca di sanarla nella Critica del giudizio.
La Critica del giudizio è un tentativo di rintracciare la finalità nella natura. Se si rintraccia tale finalità l’opposizione si supera: la natura è cieca, l’uomo si dà finalità, sono opposti, ma se ritroviamo la finalità anche nella natura la conciliazione sarà avvenuta. Questo è appunto il tentativo che Kant compie nella Critica del giudizio. Un altro elemento per capire dove si colloca la Critica del giudizio è questo: abbiamo detto nella Critica della ragion pura si conosce solo il fenomeno, il noumeno è inconoscibile di per sé, quindi l’assoluto, l’infinito, Dio, la cosa in sé, sono inconoscibili. Nella Critica della ragion pratica Dio e l’immortalità dell’anima non vengono dimostrati, in quanto non sono oggetto di un discorso conoscitivo, ma sono postulati attraverso i quali l’uomo entra in contatto con il noumeno. Si palesa quindi un altro antago- nismo: nella sfera conoscitiva l’uomo è confinato al fenomeno, nella sfera morale, invece, l’uomo attinge il noumeno. Come si può conciliare tutto questo? È possibile una considerazione della natura che ci faccia andare oltre la conoscenza fenomenica? Kant affronta qui un problema enorme della storia della filosofia: esiste un’unica realtà di cui l’uomo è parte, allo stesso titolo di tutti gli altri enti, oppure l’uomo è qualche cosa di qualitativamente diverso dal resto della realtà? Su questo la filosofia, le religioni, sono state in continua polemica, perché, per esempio, la religione cristiana implica che oltre al mondo materiale c’è un mondo spirituale, che ha altre leggi, ha un’altra qualità; il platonismo implica il mondo sensibile e il mondo delle idee; Cartesio divide la realtà tra la res extensa, il mondo materiale, e la res cogitans, con tutti i problemi che derivano poi dal rapporto tra questi due mondi, ecc. Kant quindi, con un linguaggio nuovo, esprime un problema molto antico. Per risolvere questo problema egli compie un grande sforzo teorico che comporta anche un’innovazione linguistica, che è una delle difficoltà di questo testo. La prima innovazione è proprio nel titolo: Critica del giudizio. Bisogna tenere presente che in tedesco il termine tradotto in italiano come “giudizio” è Urteilskraft, una parola composta da Kraft = forza, facoltà, capacità, e Urteil = giudizio. Il titolo andrebbe quindi più esattamente tradotto come Critica della capacità di giudicare. Evidentemente Kant si riferisce a un’altra capacità, a un’altra facoltà dell’uomo, oltre la ragione e la volontà. Infatti sostiene proprio questo: l’uomo non è solo diviso tra teoria e pratica, tra conoscenza e agire morale: nell’uomo c’è anche un’altra sfera che deve essere identificata, regolata, criticata, cioè capita nei suoi limiti, questa sfera, grosso modo, è la sfera del sentimento, del gusto. Tale sfera egli la vede come una facoltà da definire con un termine nuovo: la facoltà di giudicare. La facoltà di giudicare, una facoltà intermedia che comprende il sentimento e il gusto, emette tipi di giudizi che si chiamano giudizi riflettenti e sono tutta un’altra cosa rispetto ai giudizi conoscitivi trattati nella prima Critica.
È opportuno riepilogare i problemi terminologici: Critica del giudizio significa valutazione della facoltà di giudicare; i giudizi sono di due tipi: da una parte c’è il giudizio della Critica della ragion pura, vale a dire il giudizio conoscitivo, il giudizio sintetico a priori, che ora Kant chiama, con un nuovo termine, giudizio determinante; poi ci sono i giudizi emessi dalla sfera del sentimento, del gusto, dalla facoltà di giudicare, che chiama giudizi riflettenti. Kant denomina ora “giudizio determinante” il giudizio sintetico a priori, cioè il giudizio conoscitivo emesso dall’intelletto, di cui ha detto tutto quello che c’era da dire nella Critica della ragion pura. Perché questa innovazione terminologica? Perché Kant sostiene che, per distinguerlo da quello riflettente, il giudizio sintetico a priori si può chiamare “determinante” in quanto consiste in una reciproca determinazione, delimitazione, della categoria e della cosa. ‘Determinare’ viene dal latino terminus, che significa confine, pietra di confine tra i vari poderi, tra i vari appezzamenti di terreno. Determinare significa confinare, delimitare; un giudizio determinante è un giudizio che restringe, cha dà limiti a qualche cosa. Che cosa viene limitato? Prima di tutto le categorie. Se consideriamo per esempio la categoria di causalità, essa si può applicare a infiniti fenomeni causali; nel momento in cui dico: “A è causa di B”, sto determinando la categoria di causalità, la sto cioè confinando, le sto ponendo limiti, applicandola a un caso specifico, particolare. Così pure, a loro volta, gli oggetti vengono delimitati, si dà loro una caratterizzazione specifica collegandoli attraverso la categoria di causalità. Il giudizio sintetico a priori, illustrato nella Critica della ragion pura, è dunque determinante in quanto delimita, determina: determina la categoria e insieme i fenomeni cui essa si applica. Il giudizio determinante è un giudizio conoscitivo. Il giudizio riflettente, proprio della Urteilskraft, cioè della facoltà di giudicare, invece non è un giudizio conoscitivo. La conoscenza è stata già analizzata in maniera esaustiva nella prima Critica; bisogna tenere presente che col giudizio riflettente ci muoviamo in un’altra sfera. Il giudizio riflettente è un giudizio di tipo particolare e si chiama “riflettente” perché, mentre nel giudizio determinante la categoria da applicare è già nota, nel giudizio riflettente bisogna riflettere sull’oggetto per trovare la categoria, quindi la categoria non è già data, ma deve essere rintracciata attraverso una riflessione. La categoria, che consiste qui in una specifica finalità dell’oggetto, deve essere rintracciata attraverso la riflessione. Ma c’è anche un altro motivo, per cui il giudizio è detto riflettente: in un oggetto della natura, o in un’opera creata dall’uomo, esso ci permette di cogliere riflessa la finalità che ci portiamo dentro di noi. Abbiamo scoperto nella Critica della ragion pratica che siamo esseri che si danno fini, si danno il fine morale del bene; ora, nel giudizio riflettente vediamo riflesso questo nostro finalismo all’interno di certi tipi di oggetti della realtà. Questi tipi di oggetti sono gli oggetti belli da una parte, e gli organismi viventi dall’altra. Il giudizio riflettente mi porterà a vedere riflessa la mia esigenza di finalismo negli oggetti belli e negli organismi viventi, esso si dividerà in due sottotipi: il giudizio estetico e il giudizio teleologico.
Il giudizio estetico permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioé verso l’osservatore, il soggetto. Per questo Kant dice che i giudizi estetici sono giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto; i giudizi teleologici, invece, sono giudizi che si riferiscono alla considerazione degli organismi viventi. Questi ultimi sembrano essere fatti in modo che le parti siano finalizzate al tutto: un organo di un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha senso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente. In questo caso il finalismo è rivolto all’oggetto, all’organismo, per cui Kant dice che i giudizi teleologici, cioè i giudizi finalistici, sono giudizi riflettenti di finalità oggettiva, cioè interna all’oggetto stesso.
A questo punto va sottolineata l’attenzione che Kant rivolge al mondo biologico. La filosofia del Seicento e del Settecento è stata dominata dalla fisica galileiana e newtoniana; i problemi di metodo che si sono posti i filosofi del Seicento e del Settecento erano stati suscitati prevalentemente dalla fisica. Il fiorire della biologia a fine Settecento e poi il suo sviluppo nell’Ottocento mostrano alla riflessione filosofica che c’è un mondo molto più complesso di quello fisico, il mondo del vivente, in cui il meccanicismo non spiega tutto. Nel corso dell’Ottocento si arriverà all’evoluzionismo di Darwin, a una filosofia che coincide con una biologia, ma Kant è il primo a porsi con chiarezza il problema del vivente: l’organismo vivente scompagina la visione meccanicistica che ci è venuta dal Seicento, dal Settecento, da Galileo e da Newton, in quanto nell’organismo vivente non funzionano solo le leggi fisiche implicanti un rapporto di esteriorità fra le parti. Le leggi della fisica considerano parti di materia, corpi che agiscono su altri corpi dall’esterno, dando luogo a tantissimi fenomeni: gravità, accelerazione, attrito, dinamica dei fluidi, incidenza dei raggi luminosi, ecc., ma sono tutti eventi che riguardano esteriorità che si pongono in relazione con altre esteriorità, oggetti che sono reciprocamente esterni, le cui dinamiche sono interpretabili in base al meccanicismo. Nella sfera biologica invece il meccanicismo non spiega i fenomeni in maniera adeguata, perché in un organismo il rapporto delle parti col tutto non è un rapporto di esteriorità, bensí di implicazione reciproca e di relazione col tutto. Per fare un esempio molto banale, un organo divelto da un organismo vivente (un ramo staccato da un albero, un petalo staccato da un fiore) non ha una sua consistenza autonoma: esso ha vero significato solo all’interno del tutto. Nella biologia il concetto di totalità organica, di cui la parte è semplicemente parte, è decisivo; in biologia il tutto precede le parti, nella fisica invece le parti possono essere autonome. Negli altri campi delle scienze le parti non sono “parti”, sono elementi, stanno per conto loro, e quindi si potranno sommare tra di loro e sommandosi daranno luogo al tutto, invece in biologia il tutto precede le parti, in quanto logicamente la parte è subordinata al tutto e non si può svellere dal tutto mantenendo ugualmente la sua funzione. Pertanto in questa sfera il meccanicismo, la reciproca esteriorità, la prevalenza della parte sul tutto non spiegano i fenomeni, e soprattutto – fatto che ci interessa per lo sviluppo della filosofia romantica – si rivela inadeguata la mentalità propria della fisica (dominante anche nella Critica della ragion pura) per cui c’è causa ed effetto, una esterna all’altro, e il mondo è fatto di tante cause e tanti effetti, cioè di tanti frammenti, che poi possono essere ravvicinati tra di loro fino a formare somme e totalità, ma in effetti hanno dimensione autonoma; nella biologia, invece, le parti non possono essere viste come indipendenti: il tutto predomina sulle parti, e questa sarà una prospettiva decisiva per l’idealismo.
Riepiloghiamo: il giudizio riflettente si divide in giudizio estetico, cioè di finalità soggettiva, e giudizio teleologico, di finalità oggettiva. Fissato questo schema, vorrei proporre una serie di brani tratti dalla Critica del giudizio, ma prima di tutto una delle ultime pagine della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono lo spirito d’un’ammirazione e d’una venerazione sempre nuova e sempre crescente, quanto più la riflessione vi si applica: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Il primo spettacolo, d’una moltitudine innumerevole di mondi, annulla, per così dire, la mia importanza di essere animale, che deve rendere la materia di cui fu formato alla terra (un punto nell’universo), dopo di essere stato per breve tempo (non si sa come) animato da una forza vitale». È una visione molto suggestiva e drammatica: l’uomo è un granello di sabbia, egli deve rendere la sua energia vitale alla terra, che a sua volta è un punto nell’universo. Nella prospettiva della natura l’uomo è annullato, è un granello di sabbia su un altro granello di sabbia, sembrerebbe privo di qualsiasi valore. Al contrario, la legge morale ci fa scoprire il nostro enorme valore: «Il secondo invece eleva infinitamente il valore di me come ragione per la mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indi- pendente dall’animalità ed anche da tutto il mondo sensibile». Nell’agire morale l’uomo è indipendente dalla materia. Questo è il dualismo, come Kant stesso lo ha espresso in maniera mirabile. A questo punto finisce la Critica della ragion pratica e inizia la Critica del giudizio.
Questa è la definizione che dà Kant di giudizio: «Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale». Il giudizio riconduce un particolare a un universale mediante una categoria. Si tratta di congiungere un soggetto con un predicato, un soggetto particolare con un predicato universale: questo è il giudizio. «Se è dato il generale (la regola, il principio, la legge) [in termini kantiani la categoria] il giudizio che a questo sussume il particolare è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare [il fiore, il tramonto, l’arcobaleno, la statua, ecc.], il giudizio che deve trovare il generale [a cui sussumerlo] è semplicemente riflettente». Kant dà questa definizione per distinguere i giudizi: il giudizio determinante è un giudizio in cui l’universale è già dato sotto la forma di una categoria, invece nel giudizio riflettente ho di fronte a me il particolare e devo riflettere per trovare qual è la sua finalità, sotto quale universale finalistico ricondurlo.
A questo punto Kant apre un discorso molto importante: cerca di fondare l’autonomia della sfera estetica. Il giudizio estetico mi permette di cogliere il fatto che l’oggetto, naturale o artificiale che sia, sembra essere fatto apposta per suscitare il giudizio nel soggetto. Kant sottolinea che questo giudizio estetico, il giudizio per cui una cosa viene qualificata come bella, non ha niente a che vedere con un giudizio empirico, quindi non ha niente a che vedere con la materialità, con la fattualità della cosa, è, come sempre in Kant, un giudizio trascendentale. Kant opera una rivoluzione copernicana anche nell’estetica. La rivoluzione copernicana nella conoscenza è racchiusa nella formula: l’Io è il legislatore della natura. La seconda rivoluzione copernicana è quella della morale: non ci sono contenuti buoni di azione, ma è il soggetto, con la sua ragione, a stabilire ciò che è buono, cioè corrispondente alla ragione; anche nel campo morale il legislatore è l’Io, il soggetto, l’uomo. Infine nell’estetica, nella sfera del bello, è il soggetto che decide che cosa è bello; è l’uomo che, con un’operazione di tipo trascendentale, ricerca il riflesso della bellezza nelle cose. Non ci sono oggetti belli di per sé: è l’uomo, il soggetto, che proietta l’esteticità, il finalismo estetico sugli oggetti. Una rivoluzione copernicana anche nell’estetica: l’essere bello di una cosa non dipende da fattori di carattere empirico, materiale, ma da un elemento di carattere trascendentale. E la parola, “trascendentale” per Kant indica sempre qualche cosa che è presente a priori nel soggetto e viene messo in gioco dall’oggetto. Su queste basi, Kant cerca di distinguere con chiarezza il gradevole dal bello. In quanto trascendentale, anche il giudizio riflettente è universale; questo sembra oggi un paradosso, in quanto dominano estetiche di tipo arbitrario. Kant afferma che il bello è soggettivo ma universale nello stesso tempo: è vero che il bello è una proiezione del soggetto sull’oggetto, ma tutti gli uomini attuano questa proiezione in maniera analoga. Il punto non è evidente a prima vista. Kant afferma con nettezza: il bello non ha niente a che fare col gradevole. Il gradevole risponde alla famosa massima latina “De gustibus non disputandum”: quello che è gradevole per me può non essere gradevole per te, e non possiamo prevalere l’uno sull’altro, ognuno si terrà la propria opinione su quello che considera gradevole secondo i suoi gusti, in quanto il gradevole è qualche cosa di empirico; a Tizio piace il caffè amaro, a Caio piace dolce: sui gusti non si discute. Quando si tratta del bello, invece, secondo Kant si ha a che fare con una sfera universale: il bello non è soggettivo nel senso di arbitrario, individuale. Tale è il gradevole. Il bello è soggettivo nel senso universale e trascendentale.
La prima caratteristica del bello è che esso è disinteressato. «Bello è ciò che piace senza interesse – Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o una rappresentazione mediante un piacere o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di tal piacere dicesi bello». Che cosa intende Kant per interesse? «È detto interesse il piacere che noi connettiamo alla rappresentazione dell’esistenza di un oggetto». Kant tra l’altro apre qui la strada all’estetica romantica del fantastico: l’arte e la bellezza in generale non hanno niente a che vedere con la reale esistenza delle cose di cui si occupano, in quanto la bellezza è qualche cosa di trascendentale, non è legata alla materialità, all’empiria, alla fattualità, e neppure all’esistenza. Il bello è disinteressato: ci si trova in un rapporto di godimento estetico quando non si ha alcun interesse per l’esistenza reale dell’oggetto. Kant specifica meglio questo nel periodo successivo: «Esso ha perciò sempre relazione alla nostra facoltà pratica (desiderio o appetizione o volontà). Ora invece, quando si tratta di decidere se qualcosa sia bello o non bello, non si chiede se a noi o a qualunque altro importi o anche solo possa importare l’esistenza della cosa, ma come noi la giudichiamo nell’atto della semplice pura contemplazione (intuizione o riflessione)». Quando ho interesse a che una cosa esista, secondo Kant, è per tre motivi: o perché mi può dare piacere (desiderio); o perché mi può essere utile (appetizione); o perché può portare al bene (volontà). Desiderio, appetizione, volontà che cosa implicano? Desiderio implica interesse alla cosa perché mi può dare piacere; appetizione, interesse alla cosa perché essa mi può recare utilità; volontà, la volontà buona, interesse all’esistenza della cosa perché essa mi può portare al bene morale. Queste affermazioni di Kant sono state di importanza grandissima nella storia dell’estetica. Il bello è definito come una qualità autonoma, disinteressata rispetto all’esistenza dell’oggetto, quindi disinteressata rispetto a ogni finalità pratica. Di conseguenza, quando ci troviamo di fronte a un’opera che per esempio produce effetti di utilità, o di bontà, non per questo siamo di fronte all’arte. Dal punto di vista kantiano, quando un artista ricerca un fine di utilità, per esempio di suscitare un sentimento patriottico, di dare un insegnamento, ecc., non c’è la bellezza, non siamo in contatto con l’arte. Allo stesso modo Kant dice che bisogna stare attenti anche all’interesse della volontà, cioè all’interesse che l’oggetto artistico, l’oggetto bello, susciti bontà, muova la volontà buona, perché anche questo è estraneo alla pura contemplazione estetica. In questi casi l’arte è stata inquinata da un interesse pratico. Questo interesse pratico, basso come l’utilità, o alto come la bontà, comporta pur sempre un inquinamento della pura contemplazione estetica. Allora, perché ci sia la poesia veramente pura, perché ci sia l’arte veramente pura, ci dev’essere il disinteresse assoluto verso tutti i risvolti pratici che l’oggetto può implicare. Non parliamo, ovviamente, dei banali risvolti di mercato: è chiaro che un’opera d’arte non ha niente a che vedere con il suo valore di mercato, che è un fatto crassamente pratico, utilitaristico in senso bruto. Ma addirittura, ripeto, anche l’utilità nel senso più elevato, come nel caso del patriottismo, è estranea alla sfera della bellezza, alla sfera estetica, alla sfera dell’arte.
«Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Circa il gradevole ciascuno riconosce che il suo giudizio, fondato su di un sentimento personale, si limita, quanto al valore, alla sua persona. Quando perciò egli dice: il vino delle Canarie è gradevole, egli non s’offende se un altro lo corregge e gli ricorda che può solo dire: il vino delle Canarie è gradevole per me… in riguardo al gradevole bisogna attenersi al principio che ciascuno ha il suo proprio gusto (dei sensi). Tutt’altrimenti sta la cosa per il bello. sarebbe ridicolo se alcuno, che ci tenesse al proprio gusto, cercasse di giustificarlo col dire: quest’oggetto (come quest’edifizio, quell’abito, quel concerto, quella poesia) è bello per me. Perché egli non può chiamare bello ciò che piace solo a lui… Egli dice perciò: la cosa è bella, e non attende l’accordo degli altri circa il suo giudizio perché li ha trovati più volte d’accordo con sé, ma lo esige. Egli li biasima quando giudicano diversamente e nega loro quel gusto, che pure tutti dovrebbero avere. Perciò non si può dire che ciascuno ha il suo gusto particolare: ciò sarebbe come dire che non vi è gusto». Il gradevole è soggettivo e personale, il gusto è invece soggettivo ma universale, trascendentale; il gusto è quello che ci permette di formulare il giudizio estetico, che Kant infatti chiama “giudizio estetico o di gusto”. Quest’affermazione sembra paradossale, ma riflettiamo con un esempio: anche se consideriamo l’opera d’arte più riconosciuta, la Gioconda, qualcuno può dire di essere andato al Museo del Louvre a vedere la Gioconda e di non aver vissuto alla sua vista alcuna emozione estetica. Si può mai sostenere che il gusto è universale, come afferma Kant? Direi che la difesa di Kant si può articolare in questi termini: per raggiungere veramente il giudizio estetico bisogna prescindere da tutto ciò che è empirico, da tutto quello che è fattuale, materiale. Bisogna escludere l’utilità, la morale, ogni praticità. Non è facile, perché tutto questo si insinua nelle maniere più imprevedibili nella nostra considerazione estetica. Che cosa voglio dire? Una cosa apparentemente banale: se una persona è stanca o distratta non riesce ad apprezzare la Gioconda, infatti c’è un elemento fisico, materiale, fattuale, che impedisce di mettere in moto la funzione trascendentale superiore. Tutto ciò non è per niente scandaloso, infatti, se una persona è stanca, non riesce neppure a dimostrare un teorema di geometria, cioè a usare correttamente la ragione. Per Kant si può entrare in sintonia con la bellezza, si può emettere il giudizio estetico, soltanto quando si sono messe da parte tutte le pesantezze dell’empiria. Ripeto, se non c’è una disponibilità o una educazione all’apprezzamento della bellezza, purtroppo spesso avviene che non c’è neppure un’educazione o una disponibilità all’uso dell’in- telletto e della ragione. Allora, come una persona non colta, non avendo avuto coltivata la propria razionalità, non riesce a risolvere un problema, così, non avendo avuto coltivata la propria facoltà di giudicare, non riesce ad apprezzare un’opera d’arte; ciò non toglie che la capacità di risolvere il problema e la capacità di apprezzare l’opera d’arte siano universali, a patto che però queste potenzialità umane vengano educate ed esercitate. E Kant aggiunge anche un altro elemento: «Bello è ciò che piace universalmente senza concetto». Si riesce a cogliere la bellezza di un’opera d’arte in maniera intuitiva, senza un ragionamento, senza uno sforzo di carattere concettuale. La bellezza si coglie intuitivamente, “senza concetto”. Come non ha niente a che vedere con la pratica, così l’arte non ha niente a che vedere con la teoria. Ciò che è bello non riguarda la pratica, l’utile, il piacevole e la morale, ma non riguarda neppure la conoscenza, la teoria: un romanzo non ci dà una conoscenza sul reale; il romanzo, la poesia, le giraffe in fiamme o gli orologi che si liquefano di Salvador Dalì, sono oggetti non reali, la Divina Commedia è un viaggio completamente fantastico, non ci dice niente sulla realtà di fatti che siano avvenuti. Kant vuol dire: l’estetica è una sfera autonoma dalla pratica, ma anche dalla teoria. Bello è ciò piace universalmente senza concetto, cioè senza riferimento alla conoscenza.
Il bello è disinteressato e universale, poi Kant aggiunge che è necessario. Ribadisce che tutti devono ricono- scere, se si mettono in sintonia con la cosa bella, che essa è bella, quindi il bello è appunto universale e necessario insieme. Infine aggiunge un’altra definizione: il bello è finalistico senza scopo. Che cosa vuol dire? Se avesse uno scopo, ricadremmo nell’empirico; cioè se avesse lo scopo di arricchirci, di darci piacere, ecc., sarebbe un fatto empirico. La bellezza presenta un ben diverso finalismo: il bello nasce quando c’è una finalità di armonia, di proporzione tra le parti che compongono la cosa bella; questa finalità si manifesta poi nella finalità di rispondere al nostro senso di armonia, di proporzione. Il bello è finalistico nel senso che ha il fine di attivare il senso di armonia del soggetto, di mettere in moto il finalismo interno al soggetto. Queste sono le caratteristiche del bello per Kant.
Kant distingue il bello libero e il bello aderente. Il bello libero è quello che egli considera più puro. Si tratta di un concetto che ci aiuta molto a capire che cosa Kant intende per bellezza. Leggiamo il brano che vi si riferisce: «Così i disegni à la grecque [i disegni geometrici che si ripetono in maniera armoniosa indefinitamente], gli arabeschi [Maometto impediva la venerazione delle immagini, per cui gli Arabi svilupparono la decorazione per arabeschi, motivi ornamentali vegetali che si ripetono inde- finitamente, senza rappresentare niente di preciso], nelle incorniciature o nelle tappezzerie non significano nulla per sé: essi non rappresentano nulla, non rispondono ad alcun oggetto secondo un concetto determinato, e sono bellezze libere. Si può anche ricondurre al medesimo genere di bellezza le fantasie musicali (senza tema), anzi tutta la musica senza testo. Nella valutazione di una bellezza libera (secondo la pura forma) il giudizio di gusto è puro». La musica senza tema, gli arabeschi, le greche, ecc., che non mirano a far immaginare niente e non sono la riproduzione di un’immagine, sono le forme di bellezza più pure, in quanto non presentano il pericolo di inquinamento dell’emozione estetica da parte di un interesse. Oltre al bello libero c’è anche un bello aderente, che aderisce all’oggetto. Dice Kant: «Ma la bellezza di una figura umana (sia essa maschile, femminile o infantile), la bellezza di un cavallo, di un edificio (chiesa, palazzo, arsenale, villa) presuppone il concetto di un fine che determina ciò che la cosa deve essere e quindi un concetto della sua perfezione, ed è perciò una bellezza aderente». La bellezza libera non si riferisce a nessun concetto, a nessuna immagine, a nessun modello; la bellezza aderente: un cavallo perfettamente proporzionato, un essere umano come quelli che disegnava Leonardo da Vinci, oppure una casa armoniosa, ecc., bene o male rispondono pur sempre al modello di cavallo perfettamente elegante, di casa perfettamente proporzionata, ecc. Il bello aderente è meno puro di quello libero in quanto cerca di rispondere alla perfezione di un modello, di aderire a un modello, al concetto della cosa di cui è immagine, mentre invece il bello libero non pre-tende di riprodurre alcuna immagine. Kant prosegue: «L’unione del buono (ciò per cui il molteplice è buono a qualche cosa, secondo il suo fine) con la bellezza altera a sua volta il giudizio stesso». Nel bello aderente c’è la tendenza a che la bellezza corrisponda a un modello che altera il giudizio estetico, non lo fa essere perfettamente puro.
A questo punto Kant nella Critica del giudizio passa a un’altra dottrina cui accenno soltanto perché è importante per il Romanticismo: a proposito del bello d’arte, afferma che il bello d’arte ha una caratterizzazione precisa, esso è prodotto dal genio. Introduce un concetto che sarà al centro dell’estetica romantica: il bello artificiale per essere prodotto ha bisogno di una personalità particolare, di una personalità che abbia una sensibilità fuori del comune, ha bisogno del genio. La definizione del genio è data da Kant in questo senso: il genio possiede una tale creatività originaria che sembra dare luogo a fenomeni naturali. Esso è assolutamente alieno da regole; non può sottostare a regole. C’è una polemica con il classicismo: il genio non si può ispirare a modelli, esso è semplicemente creatore; come la natura, dà luogo a forme che crea da se stesso. La vera opera d’arte deve dare l’impressione di una tale perfezione, di una tale organicità, da sembrare un organismo vivente nato dalla forza generatrice della natura. La forza generatrice della natura è eguagliata soltanto da pochi uomini eccezionali, che hanno una sensibilità particolare, i geni, la cui creazioni danno l’idea di un che di spontaneo come un organismo naturale.
Un altro elemento romantico in Kant è quello del sublime. In che cosa questo si distingue dal bello? Il bello è qualche cosa che ha una forma, che è caratterizzata da proporzione e armonia. Il sublime, invece, è qualche cosa di informe. Per esempio sublimi sono la distesa dell’oceano, un massiccio montuoso, una nevicata, un’eruzione vulcanica. Mentre il bello è sempre qualche cosa di circoscritto, di delimitato, che ha forma, il sublime, proprio perché è informe, è tendenzialmente infinito, e si distingue dal bello anche perché ci procura un’inquietudine. Il bello ci fa sentire a casa nostra, ci mette a nostro agio, ci sembra rispecchiare la nostra più intima finalità, è pienamente consono con noi stessi. Invece il sublime ci spaventa, ci dà il senso della nostra piccolezza, della nostra insignificanza fisica, a cui, però, subentra immediatamente dopo il senso della grandezza morale, della grandezza spirituale dell’uomo. Il sublime presenta dunque una dinamica particolare: prima sembra essere qualche cosa di aggressivo, che schiaccia l’osservatore, ma il soggetto, subito dopo, recupera il senso della propria superiorità spirituale su questa entità che dal punto di vista fisico gli sembrava soverchiante e minacciosa. Il sentimento del sublime, che si manifesta nei confronti dell’informe, del grandioso, presenta due manifestazioni: il sublime matematico e il sublime dinamico. Il sublime matematico è generato da un’estensione immensa: il mare, il deserto, un ghiacciaio, un massiccio montuoso. Invece il sublime dinamico è una forza soverchiante, una potenza straordinaria che sembra doverci travolgere e di fronte a cui, invece, acquistiamo poi il senso della nostra grandezza morale; per esempio l’eruzione vulcanica, il mare in tempesta, un uragano, una tormenta di neve, e così via.
Vediamo un po’ meglio e più da vicino che cosa dice Kant: «Il sentimento estetico del sublime è un piacere o senso di esaltazione che segue a un senso di depressione delle nostre energie vitali [mentre il bello intensifica le nostre energie vitali, ci fa sentire in espansione, il sublime è un’esaltazione che segue a una depressione: ci sono due momenti, è più complesso]. Il piacere del sublime è diverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione». Dapprima si ha un senso di oppressione e di sconfitta, poi ci si riprende. Questa concezione influenzerà profondamente l’estetica romantica, anzi l’estetica fino a oggi, in quanto, rispetto all’arte classica, all’arte rinascimentale, all’arte neoclassica, in cui tutto è ben proporzionato, ben delimitato e c’è il senso della prospettiva, con la teoria del sublime anche l’informe e l’illimitato rientrano nella sfera estetica. L’informe prende il sopravvento su quello che è dotato di forma. Questa tendenza, iniziata con il Romanticismo, è delineata nella teoria del sublime di Kant. Se i romantici si possono avventurare su strade che pervengono fino all’orrido è proprio per la teoria del sublime di Kant, il quale per primo ha colto una sfera dell’estetica che non implica semplicemente la soddisfazione di veder riflessa l’armonia, di godere l’intensificazione delle energie vitali, ma può essere anche la conseguenza di un sentimento contrapposto; su questa strada poi alcuni romantici arriveranno a teorizzare l’estetica del brutto, perché paradossalmente anche certe forme parzialmente brutte possono mettere poi, per contrasto, in moto un sentimento di armonia nell’uomo. L’arte, dall’Ottocento in poi, è arrivata a forme che prima erano assolutamente impensabili.
«Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del bello». Del sublime non si deve provare orrore, timore, come non si deve provare piacere nel caso del bello; anche nel sublime, sottolinea Kant, non c’entra l’empirico, il materiale, il sensibile: se temo non sono in procinto di avvertire il sentimento del sublime; come se ho una sensazione di piacere corporeo, non sto avendo a che fare col bello. Come il bello è separato dal corporeo, dal sensibile, dal materiale, così anche il sublime. Quindi: «Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del bello. Egli fugge la vista dell’oggetto che gli incute timore ed è impossibile provar piacere in un timore effettivamente sentito [se si è veramente in pericolo per un’eruzione vulcanica non si potrà provare nessun sentimento estetico per l’eruzione stessa]. Perciò il senso di sollievo che ci dà il cessare di una minaccia è gioia. Ma questa, se deriva dalla liberazione di un pericolo, è gioia solo quando noi pensiamo che non ne saremo più minacciati; e si è tanto lontani dal cercare l’occasione di riprodurre in noi tale sensazione, che anzi non ci pensiamo mai volentieri. Le rocce che s’elevano ardite e quasi minacciose, le nuvole temporalesche che s’ammassano nel cielo tra lampi e tuoni, i vulcani nella loro potenza devastatrice, gli uragani che lasciano dietro di sé la devastazione, l’oceano senza limite sollevantesi in tempesta, l’alta cascata di un grande fiume, tutte queste cose riducono a un’insignificante piccolezza il nostro potere di resistere a tanta forza. Ma la loro vista ci esalta tanto più quanto più è spaventevole, a condizione che ci troviamo al sicuro». Se contempliamo questi spettacoli della natura senza essere affetti da un sentimento empirico di paura, allora si mette in moto il senso del sublime, cioè allo sgomento segue il nostro senso di superiorità morale. «In tal modo la Natura nel nostro giudizio estetico non è giudicata sublime in quanto essa è temibile, ma in quanto essa risveglia in noi una forza (che non è natura), per cui consideriamo come insignificanti quelle cose delle quali ci preoccupiamo (i beni, la salute, la vita), e riconosciamo quindi che la forza della Natura (a cui noi, per rispetto a tali cose, siamo assolutamente soggetti) non ha sopra di noi e sopra la nostra personalità, fuori di questo campo, un così assoluto dominio che noi ci dobbiamo piegare ad essa, come se essa si estendesse alla sfera dei principii supremi della nostra vita e riguardasse la loro affermazione o il loro abbandono». Il sublime è anch’esso trascendentale: la natura si presenta come sublime non perché sia sublime in se stessa, infatti se mi trovo non di fronte a un uragano, ma dentro, se mi trovo ad assistere a un’eruzione vulcanica, ma troppo da vicino, questo non mi dà il senso del sublime. Vi ho proposto questo brano perché mi sembra illustrare bene il fatto che l’estetica di Kant è un’estetica antiempirica, non ha niente a che vedere con l’empirico: mi posso trovare di fronte a un’eruzione vulcanica a distanza, senza temerla, e provo il senso del sublime; ma se mi trovo in un luogo minacciato da un’eruzione vulcanica, non lo provo. Il sublime quindi non dipende dall’empirico, dalla cosa, ma dalla proiezione del senso del sublime che il soggetto opera sulla cosa. Ancora la rivoluzione copernicana: il bello, ma anche il sublime, è trascendentale, è una proiezione umana sull’oggetto. Si tratta di un apporto soggettivo e non naturale. «La Natura dunque è detta sublime in questo caso solo perché essa eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’anima può sentire la sublimità della sua destinazione, anche al di sopra della Natura. La sublimità dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell’animo nostro».
Abbiamo discusso il giudizio estetico. Segue il giudizio teleologico, cioè il giudizio che permette di rintracciare una finalità negli organismi viventi. Esso si formula soprattutto di fronte alle piante, agli animali, agli organismi che danno l’idea che le parti sono fatte al fine di rendere possibile la vita del tutto. Kant dice a proposito del giudizio teleologico: «La finalità d’un oggetto dato dall’esperienza nel giudizio teleologico riposa su di un principio oggettivo, come accordo della forma dell’oggetto con la possibilità della cosa stessa secondo un concetto di essa che precede e contiene il principio della sua forma». Nel giudizio teleologico c’è un principio oggettivo, c’è una finalità che riguarda l’oggetto, mentre nel giudizio estetico c’era una finalità che riguardava il soggetto osservante, il soggetto contemplatore. Qui invece la finalità è un principio oggettivo che dà l’idea che ci sia un concetto della cosa che precede e contiene il principio della sua forma: sembra che l’animale, il gatto, il cane, la pianta, siano rispondenti a un principio, siano frutto di un progetto, siano stati “fatti apposta”. È chiaro che così si apre la strada alla visione di un architetto della natura che ha inserito finalità all’interno della natura stessa e degli organismi che la popolano. Gli organismi viventi danno l’idea che ci sia stato un architetto che li ha disegnati. «Un organismo vivente ha quella data “conformazione” in quanto alla sua produzione ha presieduto – come fine – il concetto di essa, nel quale era rappresentata la possibilità di quel tutto nel quale dovevano coordinarsi le varie parti [è come se ci fosse stato un progetto, che aveva il fine di dar luogo a quell’organismo, come se esso non fosse un frutto casuale]. Questa finalità, poiché non riferisce la forma dell’oggetto alle facoltà conoscitive del soggetto nell’apprensione dell’oggetto stesso, ma la riferisce a una determinata conoscenza dell’oggetto sotto un concetto dato, non ha da fare col sentimento di piacere suscitato dall’oggetto». Vuol dire: non c’entra il piacere e quindi l’emozione estetica del soggetto, ma qui si tratta di una finalità interna all’oggetto stesso. Sembra che gli organismi viventi ci facciano intuire che nella natura c’è un finalismo. Gli esseri biologici sono costituiti di parti che sembrano fatte “al fine” del tutto, ma c’è anche un finalismo superiore: sembra che tutta la natura abbia il fine di rendere possibile la vita dell’uomo.
Sembrerebbe che tutti i regni, minerale, vegetale e animale, siano costruiti, organizzati, al fine di rendere sempre migliore la vita dell’uomo e sempre più possibile l’espressione dell’umano. A questo punto Kant delinea un passaggio molto importante: l’espressione dell’umano, la vita dell’uomo, in che cosa consistono? Non nell’empirico e nei bisogni naturali: consistono nella ragione. Sembra che gli organismi viventi contribuiscano a un regno della natura, che sembra fatto apposta per l’uomo, e quindi favoriscano il fine dell’uomo che è il fine razionale, cioè morale. Il finalismo degli organismi biologici si amplia nel finalismo di tutta la natura. La natura sembra fatta al fine di favorire l’esistenza dell’uomo e il dispiegarsi dell’attività dell’uomo, ma l’attività dell’uomo ha il fine della morale, quindi sembrerebbe che la natura sia fatta apposta per agevolare la capacità dell’uomo di inserire fini morali nel suo agire. Kant afferma, con un termine più preciso: «La natura sembra fatta al fine di favorire la cultura». È una frase molto bella che significa che la natura sembra fatta apposta per essere dominata dall’uomo, perché l’uomo possa erigere la civiltà, ma la civiltà implica la creazione di un mondo pienamente umano, cioè di un mondo in cui tutti gli uomini siano rispettati come fini in sé, in cui sia coltivata l’umanità in tutti gli uomini, e quindi si affermi un regno dei fini, in cui ogni uomo si veda riconosciuta la dignità di persona ragionevole, rispettata per la sua razionalità. Nella Critica del giudizio la natura è l’insieme degli organismi biologici che sembra, nel suo insieme, fatta apposta per favorire la vita dell’uomo; la vita dell’uomo è la vita della cultura, cioè della civiltà che cresce sempre di più per permettere all’uomo di esplicare la propria personalità, la propria umanità; ma la propria personalità, la propria umanità, sono il fine morale. Sembra che la natura sia fatta apposta per favorire il fine morale dell’uomo. Il fine morale dell’uomo è il bene; la natura sembra finalizzata al bene.
A questo punto si chiude la Critica del giudizio e la riconciliazione è avvenuta: la natura all’inizio era deterministica, estranea a fini, adesso la natura, attraverso il giudizio estetico, ma soprattutto attraverso il giudizio teleologico, presenta oggetti, o, addirittura, tutto il suo insieme come rivolti a una finalità, quella di favorire la virtù dell’uomo. L’uomo con la sua morale, la sua libertà, il suo fine del bene, non è più antagonista della natura, che anzi favorisce questo fine. Nell’ultima citazione che vi propongo è come se Kant dicesse: «Guardate, ho fatto tutto questo discorso, ma state attenti, non rinnego una parola di quello che ho detto nella Critica della ragion pura. Il discorso conoscitivo, per me, è chiuso con la Critica della ragion pura. Tutto quello che ho detto nella Critica del giudizio si riferisce a un’aspirazione, a un’esigenza, molto simile in qualche modo ai postulati della ragion pratica, ma non è un che di conoscitivo». «Poiché noi non osserviamo propriamente i fini come vere intenzionalità nella natura, ma aggiungiamo questo concetto col pensiero […] è per noi impossibile dimostrare l’accettabilità d’un tale concetto come oggettivamente valido». Non è un fatto conoscitivo, ma evidentemente la Critica del giudizio apre la strada all’infinito, all’assoluto, alla finalità, alla libertà, cioè, in una parola, non al fenomeno, ma evidentemente all’altra metà della realtà, al noumeno. Kant aveva detto da illuminista: l’uomo è limitato, può conoscere solo il fenomeno. L’Illuminismo è la filosofia del limite dell’uomo: l’uomo è potente perché ha la ragione, ma la ragione, per l’Illuminismo, può conoscere solo le cose finite. Kant ha dato sistemazione a tutta la filosofia illuministica, ha sostenuto: l’uomo con lo strumento potente della ragione può conoscere il finito, ma non può raggiungere il noumeno. L’infinito, l’assoluto, la sfera noumenica sono fuori della portata della ragione umana. Ora, però, nella Critica del giudizio Kant fa affermazioni su finalità e libertà, su elementi quindi che fanno parte della sfera del noumeno, dell’incondizionato, dell’assoluto. E quindi apre la strada al Romanticismo, che è la filosofia dell’assoluto, è la filosofia dell’infinito, è la ribellione ai limiti dell’Illuminismo.