ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
ANTONIO GARGANO
Søren Kierkegaard (1813-1855)
La storia del pensiero idealistico fino a Hegel presenta una filosofia di tipo razionalistico, che si arroga orgogliosamente la pretesa di andare oltre la ragione limitata dell’Illuminismo: la filosofia dell’idealismo è una filosofia di una razionalità superiore a quella illuministica. L’idealismo con lo slancio titanico della ragione vuol cogliere anche l’infinito. Questa filosofia di tipo razionalistico trova il suo culmine in Hegel, nella sua affermazione per cui tutto il reale coincide con il razionale: al di sotto delle apparenze domina la ragione, al cuore della realtà c’è il logos. Hegel viene considerato l’ultimo dei Greci. L’ultimo in quanto dopo di lui si manifesta un’incrinatura della fiducia nella ragione. Una branca dell’hegelismo è il marxismo. Nel marxismo la pretesa razionale rimane, ma per Marx la filosofia deve diventare economia politica: il metodo per cogliere lo sviluppo della realtà, la dialettica, viene applicata alla realtà materiale, al meccanismo di soddisfacimento dei bisogni materiali dell’uomo, ma si tratta di un’applicazione parziale, limitata al mondo della produzione materiale dei beni, cioè al mondo dell’economia. Con Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche ci ritroviamo invece nel pieno dell’irrazionalismo: al cuore della realtà non si ritrova piú la ragione, bensí qualche cosa di oscuro, di inafferrabile, di misterioso, che per Kierkegaard può essere raggiunto con il salto della fede; per Schopenhauer, al cuore della realtà c’è la volontà, la cieca volontà di vivere, mentre per Nietzsche c’è la volontà di potenza. La fede di Kierkegaard, la volontà di vivere di Schopenhauer, la volontà di potenza in Nietzsche non hanno a che fare con la ragione: la ragione è stata spodestata dal ruolo centrale che ricopriva nell’hegelismo.
Kierkegaard è stato visto come un precursore dell’esistenzialismo, come un protoesistenzialista, e infatti c’è una strada che porta dall’irrazionalismo di Kierkegaard all’irrazionalismo contemporaneo. Una spiegazione dal punto di vista storico di questa svolta è riconducibile a questo tipo di considerazioni: l’intellettualità nell’età contemporanea è sostanzialmente l’intellettualità borghese, il proletariato per la sua collocazione nella società, nel mondo produttivo, non riesce a sviluppare una propria cultura: il mondo operaio è catafratto nella produzione e l’operaio perlopiú esaurisce tutte le proprie energie nella produzione materiale, non ha gli strumenti e il retroterra necessari per sviluppare una cultura. Ora, alcuni intellettuali del periodo rivoluzionario, del periodo progressivo della borghesia, si pongono in una prospettiva di emancipazione universale, ma dopo il 1848 gli uomini di cultura, espressione sostanzialmente delle classi borghesi, detentrici di privilegio, cambiano radicalmente rotta. Per quale motivo? Nella fase espansiva, rivoluzionaria, della borghesia, che Marx ha delineato con caratteri molto netti nel Manifesto del Partito Comunista, la borghesia si illude di essere portatrice di un messaggio di emancipazione per tutte le classi, iscrive sulle sue bandiere le parole d’ordine “ Libertà, Uguaglianza, Fratellanza”, ma nelle rivoluzioni del ‘48, nell’”anno dei portenti”, come l’ha definito Giosuè Carducci, in un’anno sconvolgente, la borghesia si trova sulle barricate di Parigi, di Vienna, gli operai come individui a lei ostili e essa prende coscienza di non essere portatrice di una liberazione universale. Con la Rivoluzione francese la borghesia ha solo sostituito una forma di oppressione e di disuguaglianza, quella feudale, con una forma di sfruttamento molto piú avanzata di quella feudale, ma pur sempre basata su differenze ed ingiustizie fra gli uomini. La borghesia si rende conto di avere di fronte a sé un’altra classe che essa opprime e intuisce che il suo compito storico non è quello di emancipare l’umanità una volta per tutte: essa stessa è una classe oppressiva con limiti storici precisi, come il feudalesimo contro cui si era scagliata con tutta la sua veemenza portando a risultati positivi, cioè rompendo il variopinto mondo feudale e dando il via a un enorme sviluppo, a un grandissimo incremento delle forze produttive. Nella sua fase rivoluzionaria, dalla fine del ‘700 agli anni Quaranta dell’800, fino al 1848, la borghesia ha dato luogo a un grande sviluppo di forze produttive, ha promosso l’emancipazione umana dai vincoli feudali e ha espresso un pensiero fiducioso nelle capacità dell’uomo di creare il regnum hominis, di razionalizzare il mondo, ha espresso prima il pensiero degli illuministi francesi, poi quello di Fichte, di Hegel. Quando però questa classe, detentrice del potere, del privilegio, ed anche dei mezzi per costruire la cultura, si rende conto di non avere piú alcun messaggio storico progressivo da portare, di non avere alcuna funzione emancipatrice ulteriore, i suoi uomini di cultura si piegano su loro stessi, non hanno piú la capacità di identificare una ragione che permea il mondo e che può portare il mondo a una sempre maggiore umanizzazione e al superamento delle disuguaglianze. Gli intellettuali della nuova fase del pensiero borghese, Kierkegaard, Schopenhauer e ancor piú Nietzsche, non vedono un’ottimistica ragione al centro del mondo, bensí qualche cosa di irrazionale, di misterioso, di enigmatico. Questi pensatori non scorgono alcuna prospettiva di emancipazione collettiva, non vedono orizzonti per tutta l’umanità, il singolo diventa il centro di tutto, il singolo che naufraga in un mondo che non capisce, in un mondo in cui al piú ci si può abbandonare alla fede, come per Kierkegaard, oppure si deve addirittura rinunciare a se stessi, estinguere la propria volontà, come per Schopenhauer. È finito l’ottimismo della ragione e con Kierkegaard inizia il pessimismo; non ci sono piú dimensioni collettive, forze emancipatrici universali, valori epocali come libertà, uguaglianza, fratellanza: quello che conta è il singolo nella sua irripetibilità.
E’ opportuno accennare a qualche tratto della vita di Kierkegaard: proprio in quanto al centro del suo pensiero c’è il singolo, la sua biografia ha un rilievo per la sua filosofia. Kierkegaard è morto giovane, a quarantatré anni, e ha vissuto tutta la vita con la convinzione di avere una colpa da espiare: si avverte una cappa di piombo in molte sue opere, l’incombere della disperazione. L’angoscia è una delle attitudini umane che Kierkegaard ha analizzato piú a fondo. Kierkegaard è nato in Danimarca, in un ambiente che ha dato anche un vescovo protestante, uno dei suoi fratelli, Peder Christian. Il padre era un personaggio singolare, che ha esercitato grande influenza sul figlio. Michael Kierkegaard, il padre di Søren, da bambino era di povera famiglia, a dodici anni faceva il pastorello, sorvegliava un gregge. Avvilito dal fatto di dover badare alle pecore, pare che abbia avuto un momento di sconforto e si sia dato alla bestemmia, all’imprecazione contro la divinità per la sua sorte miserabile. Nel Diario di Kierkegaard si trova traccia di questo fatto che pesa come una maledizione sulla sua famiglia e su lui stesso. Poco tempo dopo inizia la fortuna di Michael, che passa in città, si dà al commercio, diventa un ricchissimo commerciante, tanto che, giunto al culmine della sua ricchezza, può vivere di rendita, lasciando poi una rendita molto cospicua anche al figlio, che quindi non ha mai avuto bisogno di lavorare. Però Michael Kierkegaard trascorre la parte finale, della sua esistenza a rodersi la coscienza, convinto di una maledizione divina che lo deve raggiungere perché ha peccato. Aderisce a una setta mistica, quella dei Fratelli Moravi, e l’ultimo figlio, appunto Søren Kierkegaard (che dirà in maniera significativa di non aver mai avuto una giovinezza), diventa il punto di riferimento di tutte le sue ansie, di tutti i suoi complessi di colpa e tra l’altro lo avvia allo studio della teologia. Søren a diciott’anni viene messo a studiare teologia. La cosa non gli va molto a genio, manifesta un forte antagonismo con il padre e si dà a una vita dissoluta. In questo periodo muoiono ben cinque suoi fratelli: erano sette, rimangono solamente in due, Søren e l’altro fratello che diventerà vescovo. Egli vive un “gran terremoto”: scopre il peccato del padre e si riconcilia con lui, condividendone il cupo destino di maledizione. Inizia allora la vicenda del Kierkegaard filosofo tormentato, che esterna nelle sue opere una angoscia esistenziale irrimediabile.
Anche se bisogna stare attenti a vedere un legame troppo stretto tra la biografia dei filosofi e il loro pensiero, nel caso di Kierkegaard l’ambiente familiare caratterizzato da un protestantesimo estremistico, la morbosa attenzione a una colpa ingigantita nella memoria che si sarebbe tramandata dal padre al figlio, esercitano un’influenza profonda su un pensiero in cui il peccato svolge un ruolo centrale. In questo Kierkegaard riprende Lutero. Lutero ripeteva: pecca fortiter, “pecca fortemente”: paradossalmente è proprio nel peccato, nella miseria dell’uomo che osa sfidare Dio, che per converso, in controluce, di fronte all’abisso del peccato, si vede spuntare la luce divina. Al confronto con la miseria dell’uomo si coglie l’infinita bontà di Dio. Il peccato sembra un allontanamento da Dio, ma è proprio la percezione del peccato, anche secondo Kierkegaard, che fa intravedere la luce divina. Quindi l’episodio del peccato del padre Michael che si è ripercosso sulla vita del figlio Søren non è qualche cosa di secondario, di esteriore. Per Kierkegaard a quel punto niente può dare soddisfazione. L’unica cosa che gli stava andando bene nella vita era un fidanzamento ben avviato con Regina Olsen, una fanciulla che lo ricambiava di affetto. Egli la sottopone a tali prove da rompere il fidanzamento alla vigilia del matrimonio, con la convinzione da parte sua che non fosse possibile giungere ad una situazione di serenità familiare di cui non si sentiva degno. Si avverte nella sua biografia un senso continuo di insoddisfazione, l’ombra di una colpa da lavare, che rende indegni di qualsiasi gioia.
Kierkegaard non ha esercitato effetti rilevanti sulla cultura europea nell’Ottocento, tranne che nei paesi scandinavi, nel Novecento, dopo la prima guerra mondiale, ha poi riscosso un’attenzione enorme. Questo è molto significativo: Kierkegaard, come filosofo della disperazione umana, del naufragio esistenziale dell’uomo, ha suscitato un grande interesse soltanto dopo il primo conflitto mondiale. C’è stata una “Kierkegaard-Renaissance”, una rinascita di studi Kierkegaardiani com’è stato chiamata, iniziata ai primi del Novecento e sbocciata dopo la prima guerra mondiale in un Europa precipitata nell’abisso dell’irrazionalismo nel momento in cui nascevano le dittature, foriere della seconda guerra mondiale. Il pensiero di Kierkegaard nasce sullo sfondo di uno scenario completamente diverso da quello in cui è nata la filosofia razionalistico-dialettica dell’idealismo, nel periodo ancora ricco di speranze conseguenti alla Rivoluzione francese, quando era scomparso il mondo feudale e si apriva un mondo nuovo. Il momento della fortuna di Kierkegaard giunge dopo il 1918, in una fase in cui l’Europa sembra non poter proporre altro che distruzione e irrazionalismo. Considerata la parabola della vita e della fortuna di Kierkegaard, dobbiamo porlo agli antipodi rispetto al razionalismo hegeliano. Il suo bersaglio polemico è proprio Hegel. Kierkegaard seguí a Berlino con interesse le lezioni del tardo Schelling, dello Schelling irrazionalista e mistico, di cui poi si sentí deluso. Comunque si è esercitata su di lui un’influenza dello Schelling mistico antihegeliano. E Kierkegaard si pone come l’anti-Hegel. In che senso?
Kierkegaard sostiene che Hegel è stato il filosofo sistematico per eccellenza. Ora, il sistema implica che ogni fatto, ogni individuo viene negato nella sua immediatezza e viene mediato, incasellato in una struttura ferrea: il sistema implica la negazione dell’immediatezza dell’esistenza. L’esistenza è qualche cosa di oscuro, di intraducibile in parole, qualche cosa di inafferrabile Hegel ha negato l’esistenza in nome dell’essenza, ha negato il singolo in nome dell’universale, ha cancellato l’irripetibilità del singolo. Kierkegaard si qualifica come il filosofo del singolo: il singolare è il contrario del plurale, indica qualche cosa che non ha alcun termine di paragone con nient’altro, è un unico. Hegel è il filosofo dell’essenza, Kierkegaard vuol essere il filosofo dell’esistenza.Insistere sull’ essenza vuol dire, secondo Kierkegaard, riassorbire il singolo nell’universale, appiattire, schiacciare il singolo nell’universale, in cui i tratti irripetibili dell’individuo sono persi, mentre invece “esistenza”, il termine che egli predilige, viene da ex e sisto, significa “stare fuori”, stare fuori dal tutto, emergere dall’essere, dalla totalità: in questo senso l’esistenza è connaturata con il peccato, in quanto, se in termini religiosi la totalità è Dio, l’esistenza è uno stare fuori da Dio, è un voler dare importanza a qualche cosa che non è il tutto, non è la divinità, ma è se stessi. In qualche modo l’esistenza è un peccato proprio dalle sue origini: non a caso, nella cultura di cui Kierkegaard è espressione, cioè nel protestantesimo, viene data una fortissima importanza al peccato originale. Già nell’essere separati dal tutto, cioè nel nascere, nell’emergere dal tutto, c’è una sorta di distacco da Dio, L’esistenza è la nostra dimensione irrinunciabile, ma nello stesso tempo è la dimensione del peccato.
La priorità dell’esistenza, secondo Kierkegaard, non viene tenuta presente da Hegel, che appiattisce tutto nell’universale, nell’essenza. Soprattutto, Hegel è il filosofo della conciliazione: nella dialettica hegeliana c’è sempre la sintesi dopo la tesi e l’antitesi, c’è sempre un momento di conciliazione; oltre lo scontro tra tesi ed antitesi si raggiunge il nuovo equilibrio della sintesi. Hegel è il filosofo della mediazione. A questa dimensione in cui ogni contrasto viene sempre risolto, Kierkegaard contrappone una dialettica qualitativa, l’aut-aut – come suona il titolo di una delle sue opere piú note – vale a dire o tesi o antitesi. Non c’è il momento della conciliazione, della sintesi, non c’è un ponte di passaggio tra tesi ed antitesi. Il termine “aut” è l’o disgiuntivo latino, indica la contrapposizione tra una cosa e l’altra senza possibilità di mediazione, di conciliazione o di passaggio tra l’una e l’altra. Alla dialettica di Hegel a tre termini, tricotomica, che implica la mediazione, la risoluzione del contrasto di tesi e antitesi nella sintesi, Kierkegaard contrappone la dialettica a due termini, dicotomica, qualitativa: la tesi e l’antitesi sono qualitativamente opposte, o si sceglie una cosa o si sceglie l’altra, ma esse si escludono a vicenda, tra di esse non c’è ponte di passaggio, non c’è mediazione.
La dimensione esistenziale dell’uomo è quella dell’aut-aut: siamo continuamente costretti a fare scelte. Chi sta per scegliere la facoltà universitaria, o sceglierà di studiare medicina o di studiare lingue, o sceglierà di studiare ingegneria o di studiare giurisprudenza, e cosí via. Naturalmente la scelta di una possibilità implica che l’altra scelta è stata abbandonata: non è possibile scegliere contemporaneamente due possibilità. Il fatto apparentemente banale della scelta, inevitabile nella vita umana, per Kierkegaard è generatore di angoscia. Per quale motivo? Perché ogni scelta - anche se non ce ne rendiamo conto con chiarezza - implica l’orizzonte della nostra finitezza, l’orizzonte della morte. Se avessimo una vita infinita, infatti, potremmo scegliere tutte le alternative, in successione una dopo l’altra: potrei essere prima letterato, poi filosofo, poi giurista, poi medico, ecc., ma questo implicherebbe di avere davanti a me un tempo infinito; essendoci invece l’orizzonte della morte che mi condiziona, devo scegliere A e se ho scelto A devo aver rinunciato a B, se scelgo B devo rinunciare a C, e cosí via. Per tutta la vita siamo costretti a fare scelte, in quanto la dimensione esistenziale dell’uomo è quella della possibilità e della scelta, contro la necessità di stampo hegeliano. Anche in questo Kierkegaard si contrappone ad Hegel, sostenendo che Hegel è il filosofo della necessità, di una razionalità universale, mentre per lui c’è una libertà di fondo, l’individuo è caratterizzato dal fatto di essere staccato dal tutto: esiste, trova sempre possibilità di fronte a sé. Il fatto di scegliere, che sembrerebbe un fatto positivo, una forza dell’individuo, in quanto implica la libertà di scegliere, si rivela invece una specie di martirio, si trasforma in una continua consapevolezza del proprio orizzonte finito, della propria morte, in quanto se si avesse un orizzonte infinito non si sarebbe continuamente di fronte a scelte che si escludono una rispetto all’altra.
Precisiamo alcuni dei concetti fin qui considerati leggendo brani del filosofo danese. Iniziamo proprio dal netto rifiuto della filosofia hegeliana da parte di Kierkegaard: «La scienza [Hegel chiamava “scienza” la filosofia] si allontana sempre piú dall’impressione primitiva dell’esistenza; non c’è piú nulla da vivere, nulla piú da sperimentare, tutto è bell’è fatto; e il compito della speculazione consiste solo nell’ordinare metodicamente le singole determinazioni del pensiero. Non si ama, non si crede, non si agisce; ma si sa che cosa è l’amore, che cosa è la fede, e ci si chiede soltanto qual è il loro posto nel sistema». Nella filosofia di Hegel, secondo Kierkegaard, si perde l’immediatezza, non si vive, non si ama, non si combatte, ma si sa che cosa è vivere, si sa che cosa è amare, si sa che cosa è combattere, si ha quindi un rapporto non immediato con l’esistenza. Questo soprattutto in Hegel, ma Kierkegaard dileggia in fondo tutta la filosofia, l’atteggiamento teoretico in quanto tale: «...si cessa di vivere, mentre i professori e i liberi docenti decidono speculativamente circa i rapporti dei singoli momenti con l’uomo “puro”. Come negli orrori della piú sanguinosa battaglia vi è pur qualcosa di umano in confronto di questa tranquillità diplomatica, cosí mi pare che in questo estinguersi di ogni vita vi sia qualcosa di orribile, di mostruoso, che trasforma la vita reale in una esistenza umbratile». La cultura, la filosofia, in particolare quella hegeliana, distruggono la vita sanguigna, reale, immediata, la riducono a una serie di pallide ombre. «Dal punto di vista scientifico può essere giustissimo che il pensiero sia la cosa piú alta; per la storia del mondo può esser giusto che siano lasciati alle spalle gli stadi precedenti: ma è nata forse nella nostra epoca una generazione di individui che non ha né fantasia né sentimento? Si è nati per cominciare col paragrafo 14 nel sistema? [Il paragrafo 14 dell’Enciclopedia delle scienzefilosofiche è quello in cui Hegel dice che ogni cosa deve essere inquadrata in un sistema, non ha senso come a sé stante, ma si deve collocare in un tutto]. Come prima cosa non confondiamo lo sviluppo della “Storia universale” dello spirito umano con gli individui singoli!».
«Ciò che importa è di intendere a che cosa io sono destinato, di intendere che cosa Dio vuole propriamente che io debba fare; ciò che importa è di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l’idea , per la quale io possa vivere e morire. E che cosa mi gioverebbe pertanto, se io trovassi una cosí detta verità oggettiva; se io mi erudissi attraverso i sistemi dei filosofi e, posto che venga richiesto, se io potessi passarli tutti in rivista: che cosa gioverebbe, che io potessi mostrare le inconseguenze dentro di ogni singolo sistema... - se essi non avessero per me stesso e per la mia vita nessun significato piú profondo?». Respinta la conoscenza universale, oggettiva, fredda, quello che mi interessa nella filosofia è di capire a che cosa essa serva per il mio destino, per me stesso. «Morte ed inferno, io posso astrarre da tutto, ma non da me stesso; io non posso dimenticarmi neanche una volta di me stesso, neanche se dormo». Anche le realtà piú tragiche sono altro da me, e posso anche prescinderne, posso dimenticarle, ma non mi posso dimenticare di me stesso neppure quando dormo: la realtà con cui debbo avere sempre a che fare è la mia esistenza individuale. «Avviene del resto con la maggior parte dei filosofi in riguardo ai loro sistemi, come se uno si costruisse un enorme castello, e poi si ritirasse per suo conto a vivere in un granaio. Essi non vivono di persona nei loro enormi edifici sistematici. Ma questa è e rimane, sotto il rapporto dello spirito, un’accusa decisiva». Kierkegaard accusa tutti i filosofi di inconseguenza: la loro esistenza quotidiana dopo tanto pensare è banale come quella di tutti gli altri uomini, non c’è coerenza tra il loro pensiero e il loro modo di vivere; la loro dottrina, la loro teoria, la loro scienza, non si riflettono sulla loro esistenza. «Rimanendo nella stessa immagine, i pensieri di un uomo devono essere anche l’edificio, nel quale egli abita, o altrimenti significa che tutto è fuori sesto».
«Ogni conoscenza essenziale concerne l’esistenza, e solo la conoscenza, che si riferisce essenzialmente all’esistenza, è anche una conoscenza essenziale». Viene fondata la centralità dell’esistenza. Il termine “esistenzialista” è del ‘900 ma è giustificato vedere Kierkegaard come il capostipite dell’esistenzialismo. Egli ancora cosí si esprime sulla centralità del singolo: «L’etica isola momentaneamente il singolo, esigendo da lui che egli esista eticamente. Non fanfaroneggia di milioni di generazioni, non prende l’umanità a casaccio, cosí come la polizia non arresta la pura umanità. L’etica ha a che fare con l’uomo singolo; e, beninteso, con ogni singolo [...]. L’etica afferra il singolo e richiede da lui che si astenga da ogni contemplazione (specialmente dalla contemplazione del mondo e degli uomini). L’etica, infatti, ossia il mondo interiore, non può essere contemplata da nessuno che stia al di fuori; può essere solo realizzata dal soggetto singolo il quale può sapere che cosa abita dentro di lui. La categoria del “singolo” è cosí legata con il mio nome, che io vorrei desiderare che sulla mia tomba si scrivesse: “Quel singolo”. “Il singolo” è la categoria attraverso la quale [...] l’epoca, la storia, la umanità, devono passare». «Quante volte non ho chiarito che Hegel fa in fondo dell’uomo [...] un genere animale fornito di ragione. Giacché in un genere animale “il singolo” non è mai superiore al genere. Ma il genere umano ha la proprietà, precisamente perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio, che “il singolo” è piú alto del “genere”[...]. Questo è pure il cristianesimo. Ed è precisamente qui che si deve dare battaglia». Hegel parla di uomo, di umanità, di popoli, di spirito del popolo, bisogna invece parlare di singoli, e in questo bisogna rifarsi al cristianesimo che vede Dio occuparsi della salvezza di ogni singolo. Il dogma centrale del cristianesimo, l’incarnazione, si riferisce al sacrificio di Cristo per ogni singolo uomo.
Il singolo si trova di fronte a scelte di vita che possono essere sostanzialmente tre: la vita estetica, la vita etica oppure la vita religiosa. Il primo atteggiamento, che Kierkegaard analizza ne Gli stadi sul cammino della vita, ma anche in Aut-aut, è quello estetico. La vita estetica - da aistesis, che in greco significa sensazione - sarebbe la vita di chi vive di senso, in maniera, si potrebbe dire, epicurea, secondo il dettame del carpe diem, di chi cioè si lascia andare sensazioni che si esauriscono una dopo l’altra. Per Kierkegaard il personaggio che meglio esemplifica l’uomo estetico è Don Giovanni, che non riesce a costruire la sua esistenza secondo un progetto, ma passa di esperienza in esperienza senza riuscire a fermarsi su nessuna in particolare: vive nell’esteriorità, si innamora continuamente di donne diverse. Don Giovanni è il simbolo dell’estetismo per cui si vive calati nell’esteriorità e nel momento, nella sensazione fuggitiva. Partito dalla noia, Don Giovanni si dà ad una vita di sensazioni sempre piú intense, ma queste sensazioni in fondo finiscono con l’equivalersi tutte tra loro, per cui egli, partito dalla noia, riapproda alla noia. Di solito il Don Giovanni non vive con consapevolezza, in quanto si immerge nell’attimo che fugge. Ma nel momento in cui gli balena un minimo di consapevolezza lo prende la disperazione: proprio perché vive nell’attimo, al Don Giovanni sono estranei sia la speranza sia il ricordo, se vive nel presente non può avere la speranza del futuro, in quanto la speranza è sempre proiettata in avanti nel tempo, e non può avere ricordi, in quanto il ricordo significa avere un legame col passato. Don Giovanni vive in una sorta di eterno presente senza né memoria né speranze. Ma, se si ferma per un attimo, si rende conto che non ha costruito niente, che non ha un passato e non ha neppure un futuro, è partito dal vuoto, ha cercato di riempire il vuoto passando di esperienza in esperienza e alla fine della ennesima esperienza si ritrova vuoto come alla partenza, in quanto questa esperienza, proprio per la sua puntualità momentanea, proprio perché si coglie nell’attimo, svanisce nell’attimo successivo. Don Giovanni quindi passa da un vuoto all’altro.
L’esistenza che si conforma allo stadio estetico è immersa nell’immediatezza, manca di riflessione, si consuma in una puntualità continua, nell’attimo fuggente. L’uomo etico invece collega tutti i momenti della sua vita in un progetto, ha un passato, ha un futuro in cui si proietta, non vive nell’attimo, nell’immediato, bensí nella mediazione di una serie di momenti, di fasi della sua esistenza che rispondono ad un progetto. Emblematico di questo stadio è il marito. Il marito è colui che ha un progetto: creare una famiglia, avere ed educare una figliolanza. Kierkegaard delinea la figura di un burocrate, il consigliere Guglielmo, che si contrappone a Don Giovanni: Don Giovanni è l’uomo dalla vita brillante, continuamente dimentico di se stesso, il consigliere Guglielmo invece è una persona posata, che si crea una famiglia, ha coerenza, progettualità, ha un passato, ha un futuro e si lega all’universale, nel senso che non vive chiuso in se stesso a godere l’attimo che fugge, ma vive anche per la moglie, per i figli, per il proprio compito professionale. E soprattutto, dice Kierkegaard, l’uomo vive nella ripetizione. Mentre Don Giovanni ha bisogno di cambiare continuamente, non riesce a sopportare due cose uguali e per lui ogni giorno deve essere diverso dal precedente, deve portare una sensazione nuova che scaccia quella del giorno precedente, il consigliere Guglielmo, il marito, è capace di accettare la ripetitività dell’esistenza, sopporta che il giorno successivo presenti gli stessi contenuti di quello precedente. Questo per lui non è qualche cosa di negativo, che porta noia, ma anzi è un fatto rassicurante, gli dà il senso che la sua esistenza è ben costruita e ha una direzione: se ogni giorno si ripresentano gli stessi contenuti vuol dire che ha trovato una identità, una stabilità.
Va rilevato che Kierkegaard parla di stadi dell’esistenza, stadi sul cammino della vita, ma non c’è un passaggio dallo stadio estetico allo stadio etico: dall’atteggiamento estetico non si passa a quello etico, in quanto questi stili di vita sono l’uno esterno all’altro, si pongono all’individuo come scelte possibili ognuna esterna rispetto all’altra. Non c’è mediazione tra estetica ed etica, o uno sceglie di essere un Don Giovanni, o sceglie di essere un marito, o di vivere senza progetto o di vivere con un progetto, non c’è un trasformarsi di una cosa nell’altra. La dialettica di Kierkegaard è una dialettica disgiuntiva, o si è esteta o si è uomo etico, non c’è possibilità di passare dallo stadio estetico allo stadio etico: appunto A=A, l’estetica, e B=B, l’etica. Ogni scelta non è legata con le altre precedenti. Può succedere che una persona passi da un atteggiamento all’altro, ma non c’è nessun motivo intrinseco di questo passaggio: come c’è stata una scelta in un certo momento per la vita etica, ad un certo punto può nascere un atteggiamento religioso, ma con un salto, con una spaccatura netta, in quanto appunto non c’è mediazione, ma solo immediatezza.
Per illustrare l’atteggiamento religioso, Kierkegaard ricorre in Timore e Tremore (1843) alla figura di Abramo, il personaggio che per lui meglio rappresenta l’uomo di fede. Abramo viene richiesto da Dio di sacrificare il figlio diletto Isacco e accetta di eseguire questo sacrificio semplicemente perché Dio glielo ha chiesto. Dio poi lo ferma nel momento supremo: voleva solo avere la testimonianza della fede, della fiducia suprema di Abramo in lui. Per delineare con chiarezza questo atteggiamento, Kierkegaard distingue il sacrificio di Abramo da quello di Agamennone. Agamennone nella mitologia greca, nell’Iliade, si accingeva al sacrificio della figlia Ifigenia perché richiesto dagli dei, ma ad Agamennone la richiesta viene rivolta perché egli chiede che si levi il vento in modo che la flotta greca possa arrivare a Troia: Agamennone è un condottiero di popoli, ha il compito di portare i Greci alla vittoria, si accinge quindi al sacrificio di Ifigenia non per una fede cieca negli dei, ma per attuare un progetto. Agamennone è un uomo etico: si è dato una finalità, il trionfo del suo popolo, è un uomo che si muove in vista di un fine e in coerenza con questo fine sacrifica anche la figlia. Invece Abramo è pronto a sacrificare Isacco senza un motivo ragionevole, bensí semplicemente perché Dio glielo ha chiesto. Kierkegaard vuole cosí dare l’idea dell’atteggiamento religioso, di una fede assoluta. L’uomo di religione deve abbandonarsi nelle braccia di Dio. Si può scorgere qui un legame stretto con il protestantesimo. Per il protestantesimo la salvezza si ottiene per fede: non servono le opere, che possono essere pure le piú degne del mondo, ma non procurano di per sé la salvezza, che si consegue solo per un abbandono fiducioso a Dio. La dottrina della salvezza per fede del protestantesimo è portata alle estreme conseguenze da Kierkegaard.
In opposizione alla sistematicità di Hegel, Kierkegaard vuole essere un filosofo antisistematico. Ha civettato con la definizione di “filosofo di Danimarca". L’espressione rinvia al principe di Danimarca dell’Amleto di Shakespeare: Kierkegaard ha voluto dire con quest’autodefinizione: «Badate che sono enigmatico, sono contraddittorio, sono oscillante come l’Amleto di Shakespeare, come il principe di Danimarca; la mia filosofia non è una filosofia lineare, non è una filosofia solare, non è una filosofia architettonica, sistematica, ma è legata agli impulsi del mio cuore che si dipanano in maniera legata alle vicende che mi capitano». I venti volumi del Diario, tutte le opere che scrive, sono generate e alimentate da spunti di riflessione personali. Diverse opere di Kierkegaard sono firmate con pseudonimi. Si firmava con pseudonimi fantasiosi (Anti Climacus, Constantin Costantius, Johannes de Silentio), il che è indice di una contraddizione, in quanto da una parte egli pensa che il singolo sia irripetibile, che quanto capita a lui, i moti del suo cuore, i suoi travagli spirituali siano suoi e di nessun altro, ma nello stesso tempo, scrivendo queste opere, evidentemente pensa di comunicare agli altri, si propone di dare insegnamenti di carattere piú che personale e firmandosi con uno pseudonimo sostituisce sé con un altro, giocando non sull’irripetibile singolarità, bensí sulla scambialità degli individui. È consapevole di questa contraddizione, perciò si sente un Amleto: vuol essere il filosofo della singolarità, ma nello stesso tempo vuole comunicare questa singolarità agli altri, pensando e sperando che questa sua rivelazione di sé a se stesso sia utile anche agli altri. È prigioniero della singolarità, ma aspira a una comunicazione di tipo universale. Afferma l’inconfondibilità del singolo, eppure si firma col nome di un immaginario altro. Il fatto che ricorra agli pseudonimi vuole in fondo dire questo: «Sto scrivendo di me stesso, ma scrivo con un altro nome perché penso che, pur essendo molto legato a me, quello che vi sto raccontando è esperienza anche di altri».
Al di lá della difficoltà di dare un inquadramento sistematico al suo pensiero, si può tentare di identificare alcuni concetti centrali della sua filosofia. Il primo dei concetti-cardine della filosofia di Kierkegaard è l’esistenza. In contrapposizione all’essenza hegeliana viene messo al centro quello che è esistente, che ex stat, che sta fuori dal tutto, che si contrappone al tutto: l’esistenza è sicuramente la categoria centrale del suo pensiero. La seconda categoria decisiva su cui si sofferma a lungo è quella del singolo, l’irripetibile. In proposito va ricordato che è stata riscontrata un’influenza profonda del pensiero di Aristotele su Kierkegaard: sulla scorta di un filosofo antihegeliano che Kierkegaard aveva molto studiato, Friedrich Adolf Trendelenburg, egli riprende il concetto di sinolo di Aristotele: per Aristotele l’essenza è concentrata nell’individuo. Si pensi all’affresco della Scuola di Atene di Raffaello, in cui Platone indica il cielo, cioè la trascendenza, implicando che l’essenza è nel mondo delle idee, mentre Aristotele mostra la terra: l’essenza è presente nell’esistenza, gli individui sono sinoli di materia e forma, l’essenza e l’esistenza sono intrecciate fra loro. La terza categoria è quella della possibilità: contro la necessità hegeliana per cui c’è una razionalità del tutto, che percorre tutti gli eventi naturali e storici, Kirkegaard rivendica la possibilità: la dimensione esistenziale è caratterizzata dalla possibilità di scegliersi il proprio destino giorno per giorno nell’aut-aut. Collegata alla categoria della possibilità è l’angoscia, per il motivo che abbiamo detto prima: ogni scelta mi mette di fronte al fatto che sono finito, quindi in ogni scelta, anche la piú banale, c’è l’orizzonte della mia fine, l’orizzonte della morte. L’ultima categoria è quella della disperazione: tra le varie scelte c’è ne è una decisiva: la scelta tra la virtú e il vizio, tra la salvezza ed il peccato. Provo angoscia perché mi sento sempre oppresso dal limite, dalla morte, sono chiuso nell’orizzonte mortale della mia esistenza, ma soprattutto sono preso dall’angoscia perché so che la scelta che faccio mi può portare alla dannazione, mi può portare al peccato, potrebbe non essere la scelta giusta, la scelta virtuosa, e questo mi genera l’angoscia di potermi perdere per l’eternità. La disperazione invece è uno stadio piú profondo, è la sfiducia nella possibilità di scegliere bene, è l’abbandonarsi alla convinzione che si è sicuramente dannati , che non c’è possibilità di salvezza. La disperazione non è alternativa tra vizio e virtú, ma è la certezza assurda che si è dannati. A quest’ultima categoria fa da contrappeso la fede: invece di cadere nella disperazione, nella convinzione che sono per forza dannato, posso fare la scelta di tuffarmi nell’assoluto, in Dio, e abbracciare la fede: la fede è la possibilità di salvezza che riscatta la disperazione. L’ultima categoria è decisiva, l’uscita dalla disperazione attraverso la fede: per Kierkegaard questo tuffo nella fede è un tuffo irrazionale. Si arrovella a cercare di descrivere l’esperienza della fede, ma in effetti questa per sua natura è ineffabile, ineffabile viene dal latino for-faris, che significa “dire”: l’esperienza della fede cioè non si può dire, non si può raccontare, si può solo provare. Anche in questo siamo agli antipodi rispetto ad Hegel per il quale ciò che conta é la ragione. Per Hegel è possibile elaborare una teologia, perché Dio, essendo l’essere supremo, è l’essere massimamente razionale e quindi la teologia è una scienza. Per Kierkegaard invece non si può avere una conoscenza di Dio, ci si può solo abbandonare a Dio, ma non si può ragionare su Dio, non si può neppure dire niente di Dio, perché ragionare e dire sono la stessa cosa, ragionare e dire si esprimono in greco con la stessa parola: logos. Consideriamo sulla base di testi di Kirkegaard alcune sue categorie decisive: l’esistenza, il singolo, la possibilità, l’angoscia, la disperazione, la fede.
«L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi a un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi? Cosí l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi, e la libertà, guardando giú nella propria possibilità, afferra il finito per appoggiarvisi. In questa vertigine la libertà cade. Piú in là la psicologia non può andare e non lo vuole neanche. Nello stesso momento tutto è cambiato e, mentre la libertà si rizza di nuovo, essa vede che è colpevole. Tra questi due momenti cade il salto, che nessuna scienza ha spiegato né può spiegare». L’angoscia nasce dalla vertigine della libertà, dalle possibilità infinite che ci danno un senso di vertigine, ma è angoscioso anche il doverci per forza afferrare ad una cosa precisa, in quanto appoggiandosi al finito si riconosce la propria finitezza, la propria mortalità. Il singolo ha possibilità infinite davanti a sé, ma la scelta gli induce l’angoscia in quanto comporta afferrarsi ad una delle tante possibilità, ma nel momento in cui si è appoggiato ad un finito, l’individuo riconosce che egli stesso è finito. «Infatti, volgendosi verso se stesso, egli si volge eo ipso verso Dio; e ormai è una regola tradizionale che lo spirito finito, se vuole vedere Dio, deve cominciare col farsi colpevole». Si presenta il motivo luterano che ricorre in Kierkegaard: per vedere Dio bisogna peccare; se non si ha il senso del distacco da Dio, che è dato dal peccato, non si arriva ad abbracciare la strada religiosa; l’atteggiamento religioso nasce dal senso del peccato; se si vive in una situazione di innocenza non si ha la percezione di Dio, che nasce invece nel momento in cui sono gravato da una colpa rispetto all’infinita bontà di Dio. «Ora, volgendosi verso se stesso, egli scopre la colpa. Piú è grande il genio piú profondamente egli scopre la colpa. Che questa sia una follia per l’antispiritualità mi fa piacere e lo considero come un segno felice. Il genio non è come sogliono essere i piú, e non si accontenta di esserlo. Questo non deriva dal ripudiare egli gli uomini, ma dal fatto che egli ha prima di tutto da fare con se stesso, mentre tutti gli altri uomini e le loro spiegazioni non gli servono né per andare avanti né per andare indietro». Quanto piú si avverte il senso del peccato, tanto piú si raggiunge un’alta spiritualità. Ne deriva una teoria del genio, non il genio romantico creativo, ma una genialità nella spiritualità, una sensibilità esasperata. Concludiamo le nostre letture con un brano sulla fede. «La verità consiste appunto nel colpo d’audacia di scegliere ciò che obiettivamente è incerto con la passione dell’infinità». In genere per verità si intende quello che è oggettivo, per Kierkegaard invece la verità consiste in qualche cosa che appare a me personalmente, ma non è di per se stessa evidente. «Senza rischio non vi è fede. La fede è appunto la contraddizione tra l’infinita passione dell’interiorità e la incertezza obiettiva. Se posso cogliere Dio obiettivamente, vuol dire che non credo». É un concetto contraddittorio, proprio della fede: la fede implica che non ci sia una presenza massiccia della divinità, in quanto se ci fosse questa presenza la divinità sarebbe riconosciuta semplicemente aprendo gli occhi, sarebbe palese ai sensi, invece la fede si fonda proprio sul fatto che non c’è una certezza, la fede si incontra col paradosso di una mancanza di oggettività della divinità. Nella religione cristiana Dio non si è manifestato nello splendore della sua forza come essere onnipotente, si è manifestato, all’inverso, in un essere umano, in un essere debole che è stato portato alla crocifissione. Dio si è manifestato nel suo opposto, e questo richiede la fede: se Dio si fosse manifestato nell’onnipotenza del suo splendore non ci sarebbe voluta la fede, si sarebbe dovuto solo aprire gli occhi e riconoscerlo. In questo Kierkegaard coglie un aspetto decisivo della spiritualità cristiana. «Senza rischio non vi è fede, quanto piú rischio, tanto piú fede; quanto piú fiducia obiettiva, tanto meno interiorità: quanto meno fiducia obiettiva, tanto piú profonda l’interiorità possibile». Kierkegaard paradossalmente, gioca sulla distanza della fede dall’obiettività. E’ chiaro che siamo di fronte a una filosofia molto suggestiva, ma molto lontana dalla costruzione razionale di Hegel e dell’idealismo tedesco.