Quel che la cultura europea deve all’Istituto
È molto difficile prendere la parola adesso, dopo aver ascoltato gli interventi, ad un tempo infiammati e ponderati, dei due oratori precedenti ; e confesso che mi ritirerei volentieri in una sorta di omaggio silenzioso, se non pensassi che almeno qualche parola di gratitudine si impone. Sono proprio parole di gratitudine che voglio oggi pronunciare, presentandomi come una sorta di debitore, un debitore - per così dire – complessivo, cioè portavoce di molti debitori particolari e, se mi è permesso, al termine di questo breve intervento, vorrei anche, in qualità di portavoce di me stesso, esprimere la mia personale gratitudine.
Per cominciare, vorrei dire che una lunga tradizione collega Napoli a Parigi e, in particolare, all'Università di Parigi. Mi riferisco ad una celebre lettera, inviata da colui che probabilmente fu il primo mecenate napoletano della storia della filosofia, il re Manfredi. Si tratta di una lettera indirizzata “ai maestri assisi sulle quadrighe della filosofia, che resuscitano l'antica saggezza greca con il ministero della parola”. Questi maestri assisi sulle quadrighe della filosofia erano i maestri dell'Università di Parigi. Si era negli anni ' 66 - '68 del 1200, mi affretto a precisare, e questa lettera annunciava il primo atto di mecenatismo napoletano, l'invio a Parigi di traduzioni in latino da testi arabi, eseguite nell'ambiente dell'Università che, come è noto, era stata creata da Federico
II. Quel progetto non andò a buon fine. Si comincia dunque con un caso di mecenatismo - se posso dirlo – abortito, dal momento che gli Angioini sistemarono le cose e la disfatta di Manfredi impedì l'arrivo di quei manoscritti a Parigi. Ciò ha prodotto disastrose conseguenze sullo sviluppo della cultura universitaria; tuttavia, alla fine, al termine di un’evoluzione piuttosto lenta, è stato l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a riprendere la fiaccola del mecenatismo napoletano.
Debbo dire che ho avuto qualche esitazione sul termine “italiano”, nell'espressione “Istituto Italiano per gli Studi Filosofici”. Ovviamente, non ho nulla contro l'Italia, ma è pur vero che talora sembrerebbe più adeguata la parola “napoletano”, o “mediterraneo”, o “meridionale”, oppure - l'anno 1799 è stato spesso evocato- quella bella parola di “partenopeo”. Probabilmente, la difficoltà che si incontrerebbe nel pronunciare correttamente
quest'ultima in francese farebbe sì che il suggerimento della denominazione “Istituto Partenopeo degli Studi Filosofici” non avrebbe un grande avvenire, nemmeno “elocutorio”. D'altra parte ritengo che il meglio della Repubblica partenopea - e gli oratori che mi hanno preceduto, in particolare la Signora Gendreau-Massaloux lo hanno ben chiarito - lo si ritrovi, in fondo, nel progetto dell'Istituto.
Ho già detto che è mia intenzione rendere un omaggio ad un tempo generale e particolare. Per quanto riguarda l'omaggio generale, vorrei prendere le mosse dalla situazione della filosofia nella ricerca universitaria, nelle istituzioni, nei grandi complessi. Credo che non sorprenderò nessuno, affermando che nel corso di questi ultimi anni la nostra epoca è stata dominata dalla nota controversia tra quelle che sono state definite “le due culture filosofiche” antagoniste,
irriconciliabili, concorrenti, che si affrontano sulla scena mondiale: “la cultura dell'argomento” e “la cultura del commento”. La cultura dell’argomento sarebbe quella della filosofia cosiddetta seria; la cultura del commento sarebbe propria dell'ermeneutica. Poco fa si ricordava la grande figura di
Gadamer. È essenziale tener presente che, quale che sia il loro prestigio, né Gadamer né l'ermeneutica vengono uniformemente riconosciuti nel mondo. Allora, perché mai evocare tale conflitto? Perché le tendenze della ricerca recente, che in generale affermano, in maniera estremamente netta, la propria legittimità nei centri decisionali, tentano in qualche modo di presentarci la filosofia detta “rigorosa” come quella che meglio corrisponderebbe al management economico della filosofia, considerato, a quanto pare, tanto augurabile per porre la ricerca all’attenzione degli indispensabili partner, le imprese, i sostegni finanziari pubblici o privati. Questa filosofia definita “rigorosa” viene posta sotto il segno della quantità, della serietà - beninteso - ma anche della valutazione; come se in filosofia una vera ricerca fosse apprezzabile come un bilancio, qualcosa da leggersi come si legge l’esercizio contabile di un'impresa internazionale.
Allora, questo management non è soltanto l'effetto della presa dell'economismo sull'attività filosofica in generale. Non è semplicemente un altro nome, un nome addolcito per ciò che viene talora indicato come redditività. Credo che esso sia anche l'espressione di un luogo comune. Esistono luoghi comuni funesti, e uno di questi è quello che lega gli stili della filosofia a paradigmi nazionali. Lo Storicismo sarebbe italiano, l'Idealismo sarebbe tedesco, la filosofia rigorosa sarebbe anglosassone, americana,
anglofona. Credo che questo quadro caricaturale subisca una sferzante smentita dall'esistenza stessa dell'Istituto Italiano, (o “partenopeo”), per gli Studi Filosofici. Penso che, se esiste un luogo dove la cultura dell'argomento e la cultura del commento abbiano potuto coesistere armoniosamente e produrre esiti concreti sulla base di veri e propri programmi di ricerca, incoraggiati e sostenuti con numerose e varie pubblicazioni, con traduzioni dei risultati ottenuti; se esiste un luogo che ha favorito tutto questo, organizzandolo e consentendone la realizzazione, ebbene, è proprio
quest'Istituto. Pertanto, quando parlavo di una posizione di debitore generale, era un po' a questo che intendevo alludere.
L’Istituto ha permesso di superare quell’apparente conflitto, e il professor Ricoeur ricordava a quale prezzo personale, con quale investimento personale di Gerardo Marotta ciò è stato fatto. Se tutte le difficoltà sono state superate, è perché una persona – un “individuo storico”, si potrebbe dire con Hegel –, con un impegno per certi versi eroico, con grande abilità, molta pazienza e una dose considerevole di abnegazione, ha preso l’iniziativa e si è assunto la responsabilità di dar corpo, giorno per giorno, e per varie generazioni di ricercatori, al principio, ovunque professato e raramente osservato, del carattere disinteressato della ricerca filosofica, contro ogni chiusura nazionalistica o di scuola.
Il secondo punto che vorrei sottolineare è che esiste certamente una ricerca che si svolge nell’università. L’Istituto non ne è un complemento di circostanza, né il sostituto, e neppure l'avversario. Tuttavia, riflettiamo per un momento sulla situazione nella quale versa la ricerca universitaria. Prenderei ad esempio la Francia. In Francia la ricerca filosofica si sviluppa sostanzialmente nell’ambito dell’università, oppure per l’impulso del Centro nazionale della ricerca scientifica. Con questo doppio patrocinio, si verifica una situazione piuttosto insolita: gli universitari sono incitati ad una partecipazione crescente all'attività di ricerca e- come si dice - i ricercatori ad una partecipazione crescente all’attività didattica. Molto bene. Ma il problema è che le Scuole di dottorato, le quali sono l'intersezione di questi due insiemi, l'università ed il
C.N.R.S., non sono necessariamente i luoghi più adatti per assicurare una politica globale di ricerca fondamentale in filosofia. Intendo dire con questo che vasti segmenti della ricerca non hanno alcuna possibilità di inserimento universitario. Esistono numerosissime discipline filosofiche che non vengono insegnate nell'università, o che, quantomeno, non riescono a svilupparsi all’interno di un contesto concepito per assicurare, nell'arco di pochi anni, la formazione di laureati. Il fine della ricerca è forse quello di produrre nuovi dottori, che produrranno, essi stessi, nuovi dottori, i quali produrranno, a loro volta, nuovi dottori? Oppure è quello di produrre nuove conoscenze? La crisi della ricerca in filosofia, cui ogni tanto si accenna, si iscrive a mio parere in questo contesto generale, quello di una crisi che possiamo definire crisi dell'università, in parte collegata alla ridefinizione dei compiti della stessa università.
Ritengo che non si possa, per questo, subordinare l'avvenire della ricerca filosofica all'avvenire dell'università, vale a dire agli sviluppi successivi che, di riforma in riforma, i diversi governi immagineranno per adeguare l’università ai problemi della formazione al lavoro e a quelli dell’ammodernamento industriale, o ai problemi politici di riequilibrio economico tra le regioni, che in verità non sono problemi propriamente filosofici. La difesa della ricerca filosofica non deve essere unicamente trasversale. Essa presuppone, a mio avviso, un radicale mutamento di orizzonte. Penso che debba essere europea e che debba altresì svilupparsi grazie ad istituzioni che non dipendano né dalle università propriamente dette, né dai grandi organismi incaricati di gestire ed amministrare la ricerca scientifica in generale.
In quei punti di intersezione dove sono assenti l'università, il fondo nazionale, il
C.N.R.S, che cosa troviamo, dunque? Ebbene, troviamo precisamente l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. È
quest'Istituto che promuove la mobilità, come si dice nel gergo amministrativo, dei ricercatori, degli insegnanti, degli studenti, che a sua volta favorisce l'emergere di veri e propri programmi di ricerca a livello europeo, definiti in funzione delle necessità della ricerca stessa, e non in base alla casualità del calendario delle commemorazioni nazionali o regionali, delle idiosincrasie campanilistiche o degli eruditi patriottismi. Questa mobilità mette capo a colloqui, seminari, lavori concreti. Si è ricordato poco fa il successo di un progetto esemplare: l'edizione delle opere complete di Bruno sostenuta dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Credo che sia una testimonianza notevole, e quanti hanno assistito alla presentazione dell’opera, svoltasi ieri presso l’Istituto Italiano di Cultura, non mi smentiranno di certo. È una testimonianza notevole dell'efficacia di politiche nuove, come sono le politiche di edizioni
multilingue, di edizioni delocalizzate - se mi si concede l’impiego di questo termine - ovvero decentrate. Ecco: un Istituto italiano che sostiene una pubblicazione presso una casa editrice francese, e quale casa editrice: Les Belles
Lettres. Il sostegno accordato a progetti editoriali di questo tipo ci permette di vedere concretamente in cosa può consistere, in cosa è consistito, in cosa consisterà l’apporto dell'Istituto fondato, creato ed animato da Gerardo
Marotta.
È tempo di superare i vecchi dibattiti sullo storicismo o sul ruolo della filologia nella storia della filosofia e nella ricerca filosofica in generale. È a mio avviso assurdo immaginare che la ricerca filosofica possa prestarsi a quella sorta di amnesia, secondo la quale sarebbe possibile fare a meno, in tutta tranquillità, di buone edizioni critiche, buone traduzioni di filosofi del passato, e filosofare considerando Aristotele alla stregua di un vicino di scrivania, in un dipartimento di filosofia di un’università, provvisto del suo sito collegato ad Internet. Gli studi filosofici sono necessariamente pluralisti; lo sono in virtù dei loro metodi, beninteso, lo sono in virtù dei loro oggetti, dei loro problemi, dei loro modelli. Ciò di cui dobbiamo essere tutti riconoscenti a Gerardo Marotta ed all' Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è di aver sempre sostenuto una filosofia libera, emancipata dai modelli della buona o della cattiva filosofia del momento, impegnata in uno sforzo collettivo,
multidisciplinare, multinazionale, volto ad investigare ciò che deve essere investigato; e di aver difeso ciò che deve essere difeso, contro le riduzioni concettuali, che spesso sono più gravi o, in ogni caso, altrettanto gravi delle riduzioni di bilancio. È mia personale convinzione che la ricerca filosofica non debba privilegiare a priori un tipo di filosofia.
La ricerca filosofica ha come altro suo nome quello di “libertà”, e credo che proprio questo Paul Ricoeur intendesse affermare, poco fa, quando ha impiegato la parola “liberale”. Totalmente d’accordo con lui, mi permetterò solamente di assumere un riferimento forse più antico, quello delle “arti liberali”. Dopotutto, uno degli antichi nomi della filosofia era “arte” e le arti liberali erano dette tali perché si rivolgevano a persone libere, ma anche perché si rivolgevano a persone che si supponeva fossero rese libere per l’esercizio di quelle arti. Non ho mai compreso esattamente se questo duplice riferimento debba essere inteso supponendo due momenti successivi, cioè nel senso che le arti liberali si rivolgevano a uomini liberi, che poi venivano resi ancora più liberi, oppure nel senso che esse si rivolgevano a uomini che non erano liberi, ma avrebbero acquistato la propria libertà con l’esercizio di queste arti. Ad ogni modo, è questa l’idea che io mi son fatta della filosofia. Ritengo di non essere il solo e che l'Istituto abbia esemplarmente testimoniato la fondatezza di questo genere di analisi.
Un'ultima parola per evocare una testimonianza personale. Mi farò adesso portavoce di me stesso. Cosa sarebbe la ricerca in filosofia, se rimanesse chiusa, confinata in un ambito specialistico? Sostenere l'attività dei ricercatori non significa organizzare una serie di cocktail. Significa invece, ogni tanto, anzi il più spesso possibile - e nel caso specifico ciò accade in verità il più spesso possibile - consentire agli insegnanti e ai ricercatori di incontrare, in un contesto libero, un certo numero di giovani, futuri ricercatori, oppure persone già impegnate in una ricerca, giovani filosofi, futuri filosofi. Quanti hanno avuto la fortuna di partecipare ad iniziative di questo tipo avranno compreso che intendo parlare di quelle che vengono chiamate “Scuole estive”. Personalmente, ho avuto il privilegio di partecipare a tre Scuole di questo tipo – ed è il mio legame più stretto e felice, senza dubbio il più personale, con l’Istituto - in un piccolo villaggio calabrese che è diventato la mia seconda patria, forse anche la prima (giacché, dopotutto, non si è obbligati a risiedere in permanenza nella propria patria) e che si chiama Diamante, nella provincia di Cosenza. Questa Scuola ha avuto un’anima motrice ed un’intelligenza separata - per riprendere un'immagine cosmologica medioevale -, una direzione consolare a due teste: Yves Hersant e Nuccio Ordine, due persone che ritroviamo associate al progetto “Bruno”. Essa ha consentito a quattro professori, due italiani e due non-italiani di trascorrere quindici giorni a lavorare e a vivere con una ventina di borsisti del Mezzogiorno. Là ho ritrovato cose dalle quali sono partito e che mi sono particolarmente care, come uno che nel gergo calcistico viene chiamato un “oriundo”: Napoli, da cui non si era molto lontani; il Mediterraneo, di cui si era al centro; il Mezzogiorno e le terre partenopee. Quel periodo di vita in comune, che mi ha dato un po’ la sensazione di un Medioevo vivo, e soprattutto quello slancio spirituale li devo a Gerardo Marotta e alla sua generosità; e di ciò voglio oggi ringraziarlo pubblicamente, a mio nome ed a nome di tutti gli studiosi che hanno partecipato a quelle giornate indimenticabili.
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