Ricerca e formazione nello sviluppo europeo
È per me un grande onore e un particolare piacere poter pronunciare qualche parola, in occasione dell’apertura della mostra sulle pubblicazioni scientifiche dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, qui nello Henry-Ford-Bau della Freie Universität di Berlino. Come rappresentante dell’Università di Vienna, vorrei portare il più caloroso saluto della città che lo scorso anno ha ospitato la mostra “Parthenope für die Zukunft
Europas. Geist und Wirken des Istituto Italiano per gli Studi Filosofici”. Sono contento che il team della mostra viennese, guidato dalla dr. Mariangela Isacchini e dall’architetto Michael
Embacher, abbia potuto lavorare anche per questa mostra berlinese, e che gli allestimenti preparati per il particolare ambiente del salone di gala della Österreichische Nationalbibliothek si siano potuti adattare alla così diversa struttura architettonica dello
Henry-Ford-Bau.
La dr. Isacchini ha preparato per la mostra di Berlino un nuovo catalogo, contenente più di 1.300 titoli di pubblicazioni dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Spero che gli ordinatori della mostra viennese Michael
Embacher, Mariangela Isacchini e il grafico Friedrich Zaunrieth siano incaricati anche della progettazione e organizzazione della prossima mostra dell’Istituto, che dovrebbe tenersi l’anno prossimo presso l’Università di Londra.
Le precedenti stazioni della mostra sono state Strasburgo (Parlamento Europeo), Roma (Biblioteca Nazionale), Bruxelles
(Université Libre de Bruxelles), Roma (Accademia Nazionale dei Lincei), Parigi
(Chapelle de la Sorbonne), Vienna (Österreichische Nationalbibliothek), Milano (Biblioteca Nazionale
Braidense), Venezia (Biblioteca Marciana), Ginevra (sede del CERN), e Firenze (Fortezza da Basso). Molti sono stati i motivi perché questa mostra avesse luogo a Berlino. Quello più importante si può desumere dal titolo stesso della mostra: i rapporti filosofici che legano i due paesi, Germania e Italia, e le due metropoli della filosofia, Berlino e Napoli. Dopo aver visitato molte capitali e città che con la loro cultura hanno reso illustre l’Europa, la mostra delle pubblicazioni dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici non poteva mancare, ovviamente, l’appuntamento di Berlino, la più dinamica fra le città europee, la città che dopo la riunificazione tedesca è divenuta un cantiere di proporzioni gigantesche, degna di confrontarsi con le grandi capitali del mondo e futuro polo d’attrazione, ancora una volta, delle energie creative, dagli artisti ai musicisti, dagli scrittori agli scienziati.
Se l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici porta la mostra delle sue pubblicazioni in tutte le metropoli europee, non lo fa soltanto per promuovere la cultura italiana, ma per comunicare un messaggio che doveva essere portato anche – per non dire proprio – nell’iperattiva Berlino. Questa città è come posseduta da una febbre di costruire, colmando i vuoti lasciati dalla Guerra fredda. In un certo senso, si tratta di una ricostruzione, come quella del dopoguerra: aleggia, infatti, un’atmosfera che ricorda quella del miracolo economico tedesco. Il messaggio che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici porta a Berlino e nelle città europee può essere compendiato dalla celebre frase di Hans-Georg
Gadamer, che l’avv. Marotta ama citare: dopo la Seconda guerra mondiale molto si è pensato alla ricostruzione materiale, poco o punto a quella spirituale. Con questa mostra e con il congresso sul tema “Memoria storica e identità europea” (15-17 giugno 1998, Harnack-Haus presso la Freie
Universität), l’Istituto contribuisce a far sì che Berlino non sia soltanto una sede per la Sony o la
Mercedes, ma si ricongiunga alla sua grande tradizione artistica e filosofica, che dall’Ottocento ha sempre avuto respiro europeo.
Chiunque si occupi da vicino di filosofia conosce bene l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Chi in Germania fa ricerche sulla filosofia antica o sulla filosofia dell’idealismo tedesco, s’imbatte continuamente in libri pubblicati dall’Istituto, con o senza la collaborazione d’altre istituzioni. Michael Theunissen ha trovato un’espressione efficace per descrivere questa circostanza: l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è la maggiore voce attiva nell’intero bilancio estero della filosofia tedesca. L’Istituto non è però presente soltanto in Germania, ma anche in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Austria, Ungheria e in molti altri paesi. Così, nel corso degli ultimi due decenni è sorta una rete informale di collegamenti, in cui sono inserite importanti istituzioni scientifiche e politiche, dalle grandi Università a molte accademie, fino a rinomate società scientifiche e organizzazioni internazionali: dalla Sorbona alla Bayerische Akademie der
Wissenschaften, al Warburg Institute di Londra; dal Parlamento Europeo al Consiglio d’Europa, alle Nazioni Unite e alle organizzazioni collegate, prima fra tutte l’UNESCO. Ogni anno l’Istituto organizza centinaia di seminari e congressi in tutta Europa, ai quali sono invitati anche giovani scienziati, che ottengono una borsa di studio per partecipare alle manifestazioni e offrire un contributo scientifico. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è così divenuto uno dei centri di promozione della ricerca più importanti, sia nell’ambito filosofico, sia in quello delle scienze naturali, contribuendo significativamente al ricambio generazionale in campo scientifico.
Le attività dell’Istituto non si limitano dunque alla sfera filosofica. La mostra documenta le molteplici iniziative e i diversi progetti promossi dall’Istituto anche su altri terreni, per esempio quello delle scienze umane e quello delle scienze naturali. Inoltre, l’Istituto svolge numerose attività che vanno oltre l’ambito scientifico propriamente detto. Ricordo soltanto i congressi organizzati dall’Istituto sulle politiche culturali e di ricerca. A prima vista, sembrerebbe impossibile riunire tutto ciò sotto il tetto di un unico Istituto, al punto che il campo d’azione dell’Istituto ha suscitato, per la sua estensione, sospetti e critiche. Può esser seria un’istituzione che opera in campi così disparati? Si può rispondere nel modo seguente: l’Istituto esige molteplicità, non
esaustività. Quest’ultima non riesce a ottenerla neppure la universitas
litterarum, nonostante tutte le sue petizioni di principio.
Le numerose attività dell’Istituto si comprendono meglio se si conoscono i princìpi alla base del suo programma. Voglio ricordarne due, particolarmente importanti: l’unità delle scienze e quella europea. Il programma dell’Istituto si basa sulla consapevolezza dell’unità e dell’intima connessione fra le scienze, un’unità che comprende sia le scienze umane, sia quelle naturali. Nonostante le differenze fra le singole discipline, non si dovrebbe dimenticare l’elemento unificatore che le collega ed è posto a loro fondamento. Per quest’aspetto, l’Istituto può contare su una buona tradizione filosofica, consapevole dell’origine e del presupposto delle scienze. In questo senso si deve comprendere, fra l’altro, l’interesse dell’Istituto per le antiche tradizioni della medicina: un esempio di approccio interdisciplinare al tema della salute.
Inoltre, il programma dell’Istituto si basa sulla consapevolezza che lo spazio della scienza non è vuoto: essa vive entro un contesto sociale. Perciò la scienza non può essere impolitica. Anche se alcuni scienziati si definiscono apolitici, ossia non si ritengono soggetti politici, essi sono comunque oggetti politici, anche nella loro qualità di scienziati. È questa una semplice constatazione, e il non accettarla sarebbe perlomeno ingenuo. In altre parole, la scienza deve prender posizione, deve assumere la parola, deve impegnarsi. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici l’ha fatto in molti modi. Vedremo in seguito un esempio, quello delle iniziative europee dell’Istituto nell’ambito delle politiche di ricerca. Quando parlo d’impegno politico, rilevando che l’Istituto si è sempre impegnato, anche politicamente, intendo dire che esso s’interessa al bene comune (polis) sentendosene responsabile. “Politico” non dev’essere però identificato o confuso con “partitico”. L’Istituto è, ed è sempre stato, rigorosamente apartitico, come prescrive il suo Statuto. Esso si ritiene piuttosto un fòro per un vivace dibattito fra le varie opinioni scientifiche e politiche. In questo senso, Imre Toth ha parlato di una consonanza di dissonanze, di una polifonia del pensiero, di punti e contrappunti, di discorsi e di repliche da cui scaturisce comunque un unico accordo armonico. Questa è la situazione che l’Istituto vorrebbe favorire e per la quale offre le proprie strutture.
Le scienze hanno molti rapporti fra loro e con l’ambiente socioculturale. Per uno scienziato in Germania o in Italia, il più importante quadro di riferimento nell’età di mezzo è l’Europa. È questo uno dei motivi per i quali l’Istituto propende così fortemente per le tematiche europee. Fra il tema “scienza” e il tema “Europa” esiste un nesso dialettico, su cui però si è finora poco riflettuto. Lo sviluppo europeo dipende per una parte molto importante da quello delle scienze. Non può esistere soluzione per i grandi problemi (come la disoccupazione) senza il progresso scientifico. Inoltre, il destino delle scienze dipende in maniera decisiva dallo sviluppo istituzionale dell’Europa. In futuro la ricerca potrà continuare a esistere in Europa soltanto come ricerca europea, anche se finora essa è prevalentemente un affare nazionale. Per le scienze lo sviluppo dell’Europa non può essere indifferente, così come l’Europa e le sue istituzioni non possono essere indifferenti allo sviluppo delle scienze.
La ricerca europea versa in una profonda crisi strutturale. I provvedimenti politici degli anni trascorsi, intesi a superare tale crisi, hanno avuto scarso successo. Né sul piano nazionale, né su quello europeo, esistono progetti concreti per migliorare le strutture in modo efficiente e duraturo. L’Istituto fa parte di quelle poche istituzioni che si occupano seriamente di questa problematica, e che tentano – con iniziative e manifestazioni diverse – di arginare la decadenza della cultura scientifica europea.
Ne sono un esempio i congressi sul tema “Crisi delle Università”, che l’Istituto ha organizzato nel 1996, in collaborazione con l’Università di Vienna: a Roma (dal 6 all’8 giugno), a Parigi (25 giugno) e a Vienna (dal 26 al 28 settembre). L’occasione per queste manifestazioni fu data dallo sciopero delle università austriache all’inizio del semestre estivo del 1996. Studenti e professori universitari reagivano in questo modo ai provvedimenti varati dal ministero, rifiutati perché ingiusti e insensati. Gerardo Marotta prese spunto da tale sciopero per attirare l’attenzione sugli sviluppi preoccupanti delle politiche europee di ricerca e di formazione. Non soltanto in Austria, ma anche in Germania, in Francia e in molti altri paesi europei, le Università e le istituzioni extra-universitarie si confrontano con ambigue decisioni politiche per la ricerca e la formazione. Da anni si cerca – com’è evidente, con scarso successo – di varare un insieme di riforme idonee a risolvere i problemi delle università, causati essenzialmente dall’espansione dell’intero sistema educativo. È fuori dubbio che le vecchie strutture universitarie non corrispondono alle mutate condizioni, e che le riforme sono necessarie. Tuttavia, non c’è consenso né sui modi delle riforme, né sul tipo di trasformazione, né sui tempi delle riforme.
Per le ristrettezze di bilancio, le Università sono cadute da uno stato di povertà endemica in un’acuta crisi. I provvedimenti di taglio alle spese non rispondono a un piano di riforma ponderato, ma servono prevalentemente al consolidamento del bilancio a medio termine. Poiché tali provvedimenti diverranno un ulteriore peso nel lungo periodo, essi devono essere rifiutati già solo per motivi economici.
L’attuale crisi delle università ha reso evidenti omissioni di decenni, che peraltro devono essere attribuite non soltanto ai ministeri e all’alta politica, ma anche alle stesse università. La critica non dev’essere rivolta solo verso l’esterno, ma anche all’interno. L’autocritica costruttiva, operata dai partecipanti ai convegni di Roma, Parigi e Vienna, testimonia che queste manifestazioni non sono una protesta vuota, ma rappresentano lo sforzo di trovare una soluzione adeguata ai problemi del presente. Perciò, la convergenza delle università e delle istituzioni di ricerca extra-universitarie interessate al problema su una piattaforma comune europea non dev’essere intesa come la costituzione di una lobby per la difesa di interessi particolari, ma come espressione di una comunità d’interessi per contrastare congiuntamente prospettive di sviluppo manifestamente errate, elaborando nel contempo un insieme di proposte affinché si avviino i necessari mutamenti strutturali.
È interessante che proprio un’istituzione extra-universitaria, ossia l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, s’impegni per l’università. Questo fatto è espressione di una politica lungimirante, la quale parte dal presupposto che soltanto un piano di ricerca comune a tutte le istituzioni – quelle universitarie e quelle extra-universitarie – potrà impedire il declino della ricerca europea.
Alle conferenze di Roma, Parigi e Vienna non si è parlato soltanto della crisi delle università, ma sono stati sollevati anche i problemi strutturali generali della ricerca europea. Nella sua relazione di Roma, Antonio Ruberti ha toccato in particolare due problemi centrali: l’eterogeneità e la frammentazione del panorama scientifico europeo.
La notevole diversità delle strutture ha molteplici ragioni storiche e politiche. Eterogenee e frammentarie non sono soltanto le strutture, ma anche la politica di ricerca, che si riconnette alle strutture soltanto in parte. Se l’eterogeneità dev’essere ricondotta per buona parte al diverso sviluppo socioeconomico dei singoli paesi, la frammentazione è invece fondamentalmente una conseguenza della nazionalizzazione della scienza, nel segno dello sviluppo dello Stato nazionale. La segmentazione nazionale del panorama scientifico europeo non è stata a tutt’oggi superata, nonostante i programmi europei. Non esiste alcun coordinamento efficace nella politica europea di ricerca. Perciò neppure quel poco che oggi viene elargito in comune (ossia il 13% dell’investimento europeo complessivo) può essere utilizzato in modo efficiente.
È interessante notare che ciò non riguarda tanto la ricerca di base, quanto piuttosto gli ambiti della ricerca applicata, le discipline tecniche e mediche, nelle quali la concorrenza predomina ancora oggi sulla collaborazione, a causa degli interessi a medio termine. Resta da ricordare che questa concorrenza intraeuropea e la mancanza di collaborazione condurranno, nel lungo periodo, a un indebolimento della posizione europea.
Il superamento della frammentazione nazionale della ricerca europea è un primo compito, cui si affianca il superamento della eterogeneità. Oggi si discute molto sui criteri di convergenza da soddisfare per realizzare una stabile valuta europea. A ragione Ruberti ammonisce che non si discute sui criteri di convergenza in ambito scientifico; criteri che sono perlomeno altrettanto importanti per l’intero sviluppo europeo. Se la Svezia spende per la ricerca e lo sviluppo quasi il 3% del PIL, mentre la Grecia soltanto un sesto, le strutture non possono più essere compatibili. Se nell’ambito scientifico non esiste convergenza fra i singoli paesi, la collaborazione diventerà sempre più difficile, il che comporterà ulteriori svantaggi nella competizione con il Giappone e gli Stati Uniti.
I politici, che devono decidere i provvedimenti di risparmio, parlano volentieri di rinnovamento strutturale. La necessità di adattamenti strutturali è già stata constatata in precedenza. Purtroppo molti provvedimenti non hanno nulla a che fare con le misure tese ai miglioramenti strutturali. Essi servono, si è detto, per lo più a un consolidamento a medio termine del bilancio. Se si vuole davvero procedere al “raddrizzamento” delle strutture ormai obsolete, si deve affrontare un tema tabù per i politici: il finanziamento pubblico della ricerca industriale. In Europa l’industria utilizza il 63% di tutti i finanziamenti per la ricerca, ma ne trova da sola soltanto il 52,8%. In Giappone l’industria finanzia per il 76,1% l’intera ricerca e soltanto il 73,5% di tale quota è consumata per la ricerca industriale. Dunque, in Europa il settore pubblico finanzia la ricerca industriale, mentre in Giappone l’industria collabora al finanziamento delle istituzioni di ricerca. Tale paragone con il Giappone è ancora oggi rilevante, se si considera che le recenti difficoltà economiche di questo paese hanno altre cause.
Non ci sarebbe nulla da obbiettare al finanziamento pubblico della ricerca industriale in Europa, se si trattasse davvero di un finanziamento alla ricerca. Ma spesso i mezzi stanziati ufficialmente per il finanziamento della ricerca industriale non sono altro che sovvenzioni, che inficiano il meccanismo concorrenziale, e che devono essere eliminate in tempi di deregulation e con il venir meno dei sussidi economici. Inoltre, i posti di lavoro che verrebbero persi in questo modo potrebbero esser mantenuti soltanto con una reale innovazione, e non attraverso goffe sovvenzioni.
Le nuove sfide per la ricerca e lo sviluppo in Europa sono di molteplice natura. Un importante aspetto è la mutata situazione geopolitica. Gl’investimenti nella ricerca e negli abituali settori economici erano caratterizzati dalla contrapposizione di blocchi militari. Ma oggi, al posto della concorrenza militare, si è rafforzata quella economica: perciò gl’investimenti strategici in ricerca e sviluppo sono decisivi, e in quest’ambito gli Stati Uniti hanno reagito più velocemente dell’Europa.
Per ciò che concerne la qualità della ricerca, l’Europa non deve temere paragoni, poiché anche nell’attuale situazione si riesce a compiere un buon lavoro, tenuto conto della disponibilità dei mezzi. L’Europa è debole nello sfruttamento delle conoscenze scientifiche. Nella concorrenza globale però la capacità competitiva dipende sempre più dalla capacità di sfruttare le nuove tecnologie anche nella pratica. Per il mantenimento nel lungo periodo della competitività sarà necessaria non soltanto l’implementazione di nuove tecnologie, ma una professionalizzazione a tutti i livelli. Gravi lacune si ritrovano nei settori del management e della motivazione sul lavoro.
Gli enormi compiti che abbiamo di fronte non potranno essere fronteggiati senza un’adeguata educazione e formazione delle nuove generazioni. Di conseguenza, nel settore educativo non si deve risparmiare, ma nel migliore dei casi ristrutturare. L’Europa è fiera del proprio sistema educativo. In effetti, è questo uno dei pregi del nostro continente. Tuttavia anche questo vantaggio verrà meno ben presto, se non saranno intrapresi ulteriori sforzi.
I paesi membri dell’Unione Europea dispongono di un elevato standard di vita e di una grande sicurezza sociale. Il lato negativo di queste conquiste sono i notevoli costi di produzione e del lavoro, ciò che – in connessione alla crescente globalizzazione dei mercati – conduce a un ulteriore inasprimento della situazione sul mercato europeo del lavoro. In Europa registriamo oggi un indice di disoccupazione dell’11%. Questo problema non si può risolvere con un incremento della produzione, ma soltanto con l’innovazione permanente e con la crescita qualitativa in tutte le branche del sapere e a tutti i livelli. L’Europa deve sfruttare le due risorse più importanti di cui dispone: il potenziale scientifico e le risorse umane.
La crescita qualitativa è l’unica alternativa per l’Europa, non soltanto per motivi ecologici, ma già per motivi puramente economici, perché nelle attuali condizioni l’Europa non può affrontare la concorrenza del mercato mondiale con la sola crescita quantitativa.
Umberto Colombo, in un suo intervento (Roma, 8 giugno 1996), ha toccato un punto di grande interesse in questo contesto. In Europa si contano 12 milioni di imprese, per la maggior parte piccole e medie; il 92,4% di esse occupa meno di dieci persone, il 7,5% fra 10 e 499, mentre soltanto lo 0,1% dà lavoro a più di 500 persone. Questa strutturazione dell’economia europea in piccole unità produttive è una forza, se usata correttamente. Le piccole e medie imprese con personale ben qualificato e un elevato potenziale innovativo, in grado di reagire flessibilmente ai nuovi sviluppi e alle nuove esigenze, potrebbero assicurare un vantaggio concorrenziale decisivo sul mercato globale.
Tutti gli sforzi sono però condannati a fallire se l’Europa commette l’errore di dimenticare gli ambiti di ricerca dei quali questo continente ha vissuto finora. Se il Giappone è stato per lungo tempo il modello del paese imitatore, trasformatore ed elaboratore di tecnologie sviluppate o in via di sviluppo, l’Europa ha fatto fronte alle grandi trasformazioni dell’industria manifatturiera e al ridimensionamento dell’industria pesante con l’innovazione tecnologica. Anche questo potrebbe finir presto, se l’Europa continua a ridurre le risorse per la ricerca di base, contrariamente a quanto avviene in altre parti del mondo. Il Giappone ha fatto sensazione nel 1996 con l’annuncio dell’aumento della spesa pubblica per la ricerca di base fino al 50%. Se paesi come il Giappone in futuro non guarderanno più all’Europa per i prodotti scientifici o tecnologici, la situazione diventerà davvero difficile per il vecchio continente.
Si è parlato molto della tecnologia nell’ambito delle discipline matematico-scientifiche. Ma il trascurare le scienze propriamente speculative è come innescare una pericolosa bomba a orologeria, come si è rilevato e documentato nel congresso di Parigi. Si comprende da sé che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici annette a questa tematica una particolare importanza. Se lo Stato ritira il suo appoggio al finanziamento della scienza, le scienze speculative sono le più colpite: infatti, a differenza delle discipline tecnico-scientifiche, esse hanno possibilità molto limitate di finanziare i propri progetti di ricerca con mezzi privati. Gli indizi di un decadimento delle scienze teoretiche non sono immediati, ma proprio per questo il loro declino è più gravoso per lo sviluppo sociale, nel lungo periodo.
Il ruolo della ricerca di base in Europa è stato oggetto di un altro convegno nell’ambito delle iniziative europee dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, tenuto il 22-23 maggio 1997 al Palais du Conseil de l’Europe a Strasburgo. Il Colloque Européen dal titolo “La recherche fondamentale: une priorité européenne” fu organizzato sotto la supervisione di William
Shea, in collaborazione con l’Université Louis Pasteur e la Division de l’Enseignement Supérieur du Conseil de l’Europe. Fra i partecipanti c’erano Daniel Tarschys (Secrétaire Général du Conseil de l’Europe), Adrien Schmitt
(Président de l’Université Louis Pasteur de Strasbourg), François Becker (Président of the European Space Science
Committee), Alain Pompidou (Député Européen et Président du STOA), accanto a molti altri. François Becker nel suo contributo ha sollevato uno dei problemi fondamentali del convegno: ricerca di base e ricerca applicata non sono in contrapposizione, formano anzi una necessaria unità. Ma proprio perciò la ricerca di base non può essere dimenticata.
Ricerca e sviluppo sono trattati nella politica europea e nei media come un tema fra molti altri, come se non fosse ben chiaro che ricerca e sviluppo potrebbero offrire la chiave per risolvere i problemi oggi al centro dell’interesse pubblico. Le precedenti riflessioni sul tasso di disoccupazione europeo sono soltanto un esempio. Ricerca e sviluppo avranno in Europa un futuro soltanto se si riesce a superare l’eterogeneità e la frammentazione delle strutture europee di ricerca. In un’Europa veramente unita ciò sarebbe più semplice che in un’Europa frammentata da interessi particolari. Ma non possiamo attendere la realizzazione di quest’utopia. Piuttosto, dovremmo impegnarci nello spingere verso una politica unitaria della ricerca in Europa, facendo sì che ricerca e sviluppo divengano un motore del processo d’unificazione. Un’Unione Europea in via di consolidamento potrebbe favorire in modo mirato la ricerca europea. Questo processo dialettico deve cominciare con un mutamento di rotta nella politica di ricerca. L’Istituto ha fornito un primo contributo con alcune sue iniziative.
La politica della ricerca e dell’educazione stanno molto a cuore all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, perché la posta in gioco è il nostro stesso futuro. Tuttavia quest’ambito è per l’Istituto soltanto uno fra i molti. Prendendo visione del programma delle manifestazioni si può avere un’idea dell’enorme lavoro del quale l’Istituto si è fatto carico.
Tutto è cominciato 23 anni fa. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici fu fondato nel 1975, sotto il patronato dell’Accademia Nazionale dei
Lincei, per iniziativa di Enrico Cerulli, Elena Croce, Giovanni Pugliese
Carratelli, Pietro Piovani e Gerardo Marotta. Il fine era di creare una task force per lo sviluppo della scienza e della cultura in Italia e in Europa. Nel frattempo, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è divenuto una delle istituzioni di ricerca e formazione più importanti d’Italia. In particolare, in ambito filosofico non esiste in Italia, anzi in tutta l’Europa, alcun istituto che possa essere paragonato all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Chiunque abbia avuto a che fare con l’Istituto sa quanto il successo di quest’istituzione sia merito dell’avv.
Marotta, che vi ha investito enormi risorse del proprio patrimonio personale. In virtù del suo carisma, egli ha potuto entusiasmare e conquistare molte menti creative, delineando con il suo instancabile impegno i tratti inconfondibili della sua istituzione.
L’Istituto è oggi in piena fioritura. Proprio perciò gli amici dell’Istituto, e anche gli esterni, si domandano quale sarà il suo futuro. Finora tutto ha funzionato bene perché alcune personalità eminenti si sono impegnate per l’Istituto con tutte le loro forze. Se si vuole assicurare la continuità dell’Istituto, l’attività dell’Istituto ha ora bisogno di un ancoraggio istituzionale. Si deve, in altre parole, garantire istituzionalmente ciò che finora si è costruito faticosamente. Lo Stato e il Governo italiano dovrebbero tener conto del fatto che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici svolge da anni un ruolo d’interesse nazionale. In conseguenza di ciò anche il futuro dell’Istituto dovrebbe essere considerato un affare nazionale. Un’istituzione che tanto ha contribuito alla reputazione internazionale della cultura italiana, quale l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, potrebbe anche ottenere uno status istituzionale, paragonabile a quello dell’Accademia Nazionale dei
Lincei. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, se non de iure, sicuramente è de facto, da molto tempo, ben più di una semplice istituzione privata di formazione. Esso fa parte del patrimonio nazionale, e sarei persino tentato di affermare che il Governo italiano ha non soltanto il dovere, ma anche il diritto di considerare un affare nazionale l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Tanto necessario e improrogabile è il fatto che il Governo italiano garantisca adesso una base durevole all’Istituto, tanto legittima è l’esigenza che anche altri luoghi – a livello locale, regionale ed europeo – offrano il loro contributo per assicurare un futuro all’Istituto. In tal modo non si farebbe che riconoscere il fatto che l’Istituto ha dato e continua a dare un apporto di prim’ordine a livello locale, regionale, nazionale ed europeo.
Permettetemi, infine, un paio di osservazioni sull’importanza dell’Istituto per lo sviluppo locale e regionale. Quando l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici cominciò nel 1975 la propria attività, Napoli, la capitale del Mezzogiorno, si trovava in una situazione crepuscolare, paralizzata dall’incapacità della direzione politica, dilaniata dalla corruzione e dalla camorra. Da alcuni anni, invece, la città vive un nuovo slancio, il turismo è in ripresa, gli operatori economici nutrono nuove speranze. Solo che i gravi problemi di Napoli non sono ancora risolti, la camorra opera indisturbata e le colpe del passato – in primo luogo lo sfruttamento dissennato delle risorse naturali – pesano fortemente sulla città. Che Napoli si trovi oggi perlomeno sulla via di un miglioramento è un merito anche dell’Istituto: non va dimenticato, infatti, che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha rappresentato negli anni bui degli scorsi decenni l’unico faro di speranza.
Con il suo vasto programma di borse di studio, l’Istituto offre a numerosi studiosi disoccupati la possibilità di approfondire i propri studi e perfezionarsi, ottenendo ulteriori qualificazioni, migliorando così le proprie opportunità di trovare occupazione in un mercato del lavoro sempre più limitato. Il programma formativo dell’Istituto comprende anche un sostegno alle scuole. Perciò vi sono seminari per il perfezionamento degli insegnanti. Con l’ampio programma di manifestazioni, le numerose conferenze e presentazioni, fondamentalmente accessibili a tutti, l’Istituto offre molteplici stimoli per un ulteriore sviluppo della società, ma soprattutto comunica speranza e coraggio perché lo stato attuale delle cose non sia accettato supinamente, ma si scelga di prender parte attiva alla formazione della società. In un contesto entro il quale l’inganno fa parte della quotidianità sociale, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è uno dei pochi baluardi morali rimasti.
I problemi di Napoli sono quelli dell’intero Mezzogiorno. Per questo motivo l’Istituto si è spinto con le sue manifestazioni in tutte le regioni, le province e i piccoli centri del Sud. Oggi l’Istituto mantiene oltre 100 scuole e corsi di Alta formazione nel Mezzogiorno. In molte zone rurali i seminari, le conferenze e le presentazioni dell’Istituto costituiscono l’unico programma culturale degno di nota. I giovani che non hanno né lavoro né possibilità di formazione sono una facile preda per la mafia. Il crimine organizzato è sempre all’attacco, nonostante il potenziamento dei provvedimenti statali. La ragione di ciò consiste nel fatto che i provvedimenti agiscono sui sintomi, non sulle cause, le quali sono di natura strutturale. La disoccupazione e il sottosviluppo economico sono soltanto un aspetto del problema. L’ignoranza è un fattore forse ancor più decisivo. Per la mafia non esiste un terreno più fecondo di quello in cui non vi è alcuna offerta educativa. Soltanto elevando il livello educativo si può fermare questa tendenza, e distruggere il circolo vizioso fra sottosviluppo e crimine organizzato. Se solo una parte delle sovvenzioni industriali insensate cui facevo riferimento in precedenza fosse investita in programmi educativi, si potrebbe ricavarne molto. I mezzi necessari sono straordinariamente inferiori a paragone di quelli necessari per altri progetti statali, per esempio per i vari lavori pubblici, molti dei quali peraltro non sono mai stati portati a termine. Convincente è anche la proposta dell’Istituto di non dare ai disoccupati un sussidio, ma borse di studio.
Lo sviluppo del Mezzogiorno non è esclusivamente una sfida nazionale, ma anche una sfida europea. A livello nazionale bisogna prima di tutto sgombrare la visuale, per cogliere le vere connessioni fra Nord e Sud dell’Italia. Il Nord non può rinunciare né alle risorse umane né al mercato del Sud. Inoltre, il Nord dovrebbe essere veramente interessato a che fossero risolti nel Sud i problemi del crimine organizzato e dell’immigrazione. Ma come potrà essere possibile, se il Nord intende lasciare il Sud a se stesso? È una decisione politica miope, e nel lungo periodo dannosa per gli stessi interessi del Nord, quella di voler ricavare soltanto profitti dai rapporti con il Sud senza fornire alcuna compensazione. Certo, si dovrebbe finalmente garantire che i fondi attribuiti al Sud non si perdano in canali oscuri. In questo senso i programmi educativi sono certamente meno pericolosi dei lavori pubblici. Inoltre, per lo sviluppo a lungo termine è più produttivo investire in formazione piuttosto che in costruzioni. Se si potrà garantire che i mezzi ripartiti vengano anche usati in modo corrispondente alle aspettative, il Nord potrà considerare le compensazioni fornite alla stregua di investimenti per il proprio futuro.
Ovviamente lo sviluppo del Mezzogiorno è anche una questione europea. L’Europa ha interesse a far sì che nel lungo periodo tutte le regioni europee raggiungano un pari livello di sviluppo. A questo fine l’Europa stanzia i fondi strutturali e i fondi regionali. L’eterogeneità delle strutture dei paesi europei, e delle loro regioni, costa somme enormi all’Unione. Una parificazione del livello è decisiva per la stabilità della valuta europea, dunque anche per la stabilità dell’Unione Europea nel suo complesso.
C’è però ancora un secondo importante motivo perché l’Unione s’interessi allo sviluppo del Mezzogiorno, un motivo che proprio negli ultimi tempi è divenuto particolarmente evidente. Finché il Sud dell’Italia sarà dominato dall’ignoranza e dalla mafia, vi saranno ben poche possibilità di controllare l’immigrazione illegale, e questo è veramente un problema non italiano, ma proprio europeo. Le ondate immigratorie degli ultimi mesi rappresentano soltanto l’inizio di più grandi migrazioni che dobbiamo attenderci nei prossimi anni e nei prossimi decenni. Il Sud d’Italia non è in alcun modo preparato a questa emergenza. Infatti, si vorrebbe vedere volentieri il Mezzogiorno nel ruolo di mediatore fra l’Europa e i paesi del
Magreb, ma mancano le premesse fondamentali, una delle quali è costituita dall’innalzamento del livello educativo. Per ora il Mezzogiorno costituisce soltanto una stazione di passaggio per l’immigrazione incontrollata. L’Unione Europea mostrerà dunque di essere ben consigliata se accetterà le proposte di nuovi programmi educativi nel Mezzogiorno. Nel far ciò, essa potrebbe appoggiarsi al lavoro pionieristico dell’Istituto.
Osservando il programma dell’Istituto si potrebbe parlare già oggi di un’unità della ricerca e della formazione europee. Forse un giorno l’Istituto verrà riconosciuto come un’istituzione speciale dell’Unione Europea, paragonabile agl’istituti di ricerca europei in altri ambiti. Manca, finora, un’istituzione di questo genere. Se l’Unione Europea comprendesse finalmente che non soltanto nella fisica nucleare o nella biotecnologia, ma anche nella filosofia ci sarebbe bisogno di un istituto di ricerca europeo, e se essa elaborasse i conseguenti fondamenti giuridici, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici sarebbe la prima istituzione in Europa a possedere le caratteristiche necessarie per svolgere tale ruolo. Ma questa è una prospettiva lontana. Per ora l’Istituto ha la sua base in Italia. Le possibilità di esser riconosciuto quale istituto di ricerca europeo sarebbero maggiori, se i politici responsabili intraprendessero ora quel passo, comunque necessario, per garantire il futuro di questo rinomato Istituto, ossia se inserissero l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici nei programmi del Governo italiano.
L’Istituto è venuto sollecitamente in soccorso delle università europee in una fase difficile: l’Università di Vienna non lo vuol dimenticare, perciò accompagnerà l’Istituto nel suo cammino futuro, appoggiando le sue iniziative europee. Io spero che la nostra istituzione, l’Università di Vienna, possa contribuire alla realizzazione, sopra delineata, di un istituto di ricerca europeo per la filosofia. In ogni caso, chiederemo a tutte le nostre Università con le quali siamo in rapporto di appoggiare tale progetto. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha fatto molto per l’Europa, e l’Europa può per parte sua far molto per conservare quest’istituzione realmente europea e garantirne l’ulteriore sviluppo.
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