Il contributo dell’Istituto al razionalismo europeo
Intervengo a questa tavola rotonda come testimone generale, un po’ sull’esempio di Alain De Libera. Io sono uno scienziato ed un filosofo, ed è in veste di filosofo della scienza che intervengo, poiché l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha svolto un ruolo decisivo in un progetto di filosofia della scienza che mi sta molto a cuore da parecchio tempo. Questo progetto concerne il riposizionamento prospettico del razionalismo critico europeo. Si tratta di una tradizione filosofica, scientifica, umanistica e liberale molto ricca, la cui riappropriazione e riattualizzazione permette, a mio avviso, di superare il conflitto che nel secolo scorso – il Novecento – ha opposto filosofie della scienza positiviste, troppo dogmaticamente positiviste, a filosofie della scienza anti-positiviste, troppo anti-positiviste, troppo scettiche e troppo relativiste.
Il mio impegno personale è da sempre per una “attualità dell’Illuminismo”, quell’Illuminismo di cui l’Istituto è uno dei massimi luoghi istituzionali in Europa e nel mondo. Ed è a tale motivo che devo il mio interesse per la tradizione del neoilluminismo italiano, con cui sono entrato in contatto una quindicina di anni fa attraverso alcuni colleghi, e che unisce, armoniosamente, un illuminismo culturale e politico ad un razionalismo critico, scientifico. Insieme ad alcuni colleghi, abbiamo creato un’équipe sull’illuminismo italiano e sulla filosofia delle scienze europea. Il nostro progetto ha ricevuto, sin dall’inizio, il sostegno dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e della Maison des Sciences de l’Homme. È grazie a Lei, Presidente
Marotta, che abbiamo potuto portare a buon fine questo progetto, ed è per me una grande gioia ed un grande onore poter ringraziarla pubblicamente. Grazie all’Istituto, abbiamo potuto riunirci in quel luogo indimenticabile oggi più volte evocato e pubblicare un primo lavoro, Sciences et philosophie en France et en Italie entre les deux
guerres, mentre un secondo volume è in preparazione.
Se permettete, vorrei ora dire qualche parola in qualità di epistemologo. Ritengo che nel campo dell’epistemologia le tradizioni illuministiche italiane siamo di un interesse fondamentale, notevolmente sottovalutato dalle altre epistemologie nazionali. Perché? Una delle principali antinomie dell’epistemologia moderna, che rappresenta uno degli aspetti di quella doppia cultura cui accennava Alain De Libera poco fa, consiste nel contrapporre la verità oggettiva delle tecnoscienze al valore storico della conoscenza intesa come parte della cultura. In generale, i punti di vista oggettivisti pongono in primo piano la verità, la vero-dipendenza delle teorie e il verificazionismo empirico: l’esempio più conosciuto è rappresentato dall’empirismo logico o positivismo logico del Circolo di Vienna. Questo tipo di prospettiva non riesce però a pensare la storicità della conoscenza. Viceversa, i punti di vista che privilegiano la storicità lo fanno secondo uno storicismo eccessivo,
antropologizzando, culturalizzando e relativizzando in forma scettica il problema della verità scientifica. Questo conflitto è secondo me devastante e va radicalmente combattuto. In proposito, ritengo che il miglior atteggiamento per superare quest’antinomia sia quello del razionalismo critico e di quel che viene detto illuminismo. È questa la posizione giusta, e, nonostante le tragedie storiche del Novecento, non vi è alcun motivo per abbandonare l’ideale e la fiducia dell’illuminismo.
Per ragioni culturali profonde, legate a tradizioni illuministiche radicate nel campo della cultura e della politica, l’epistemologia italiana è stata di gran lunga, a mio parere, quella che ha meglio approfondito il problema della conoscenza oggettiva come valore storico. Uno dei padri fondatori di questa sintesi in Italia è stato il grande Antonio
Banfi, il Cassirer italiano, con la sua fondamentale opera del 1926, Principi di una teoria della ragione. Banfi è stato il primo, assieme ai neokantiani della scuola di
Marburgo, a storicizzare e a pluralizzare la problematica trascendentale kantiana della costituzione della oggettività scientifica, e ciò ben oltre l’oggettività fisica, che costituisce l’oggettività di base. E dopo Banfi ci sono stati altri due grandi filosofi italiani della scienza, Ludovico Geymonat e Giulio Preti che, credo, furono molto legati all’Istituto.
Ludovico Geymonat, colui che ha introdotto il Circolo di Vienna in Italia, ha ben presto criticato il fatto che i positivisti trascuravano ciò che egli chiamava “la storicità della scienza, in quanto scienza”. Per tutta la vita Geymonat ha insistito sul problema fondamentale “di riuscire ad inserire, all’interno della concezione
neopositivistica, l’istanza della storia”. Ripeto: “storicità della scienza in quanto scienza” e “inserire, all’interno della concezione
neopositivistica, l’istanza della storia”. Non si tratta dunque di una storia esteriore, la storia delle istituzioni, la storia dell’invenzione, la storia delle scuole scientifiche; si tratta di una storia trascendentale dei procedimenti di costituzione dell’oggettività nelle scienze, di una storia interna della verità.
Quanto a Giulio Preti, che l’Avvocato ha conosciuto bene, e la cui opera è stata diffusa grazie all’edizione dei Saggi filosofici dovuta a Mario dal Pra – altro filosofo, credo, legato all’Istituto –, egli è riuscito ad aprire il logicismo di Carnap e di
Tarski, dei quali era, come Geymonat, un conoscitore eminente, a quel che egli stesso definiva come “la dinamica storica della scienza nella sua unità formale”. Preti ha ripreso da Banfi la tesi di una storicità possibile della verità scientifica. Il suo punto di vista è molto vicino a quello che un filosofo come Cassirer aveva sviluppato in Sostanza e funzione, parlando dell’oggettivazione scientifica come di una “risoluzione trascendentale funzionale dei dati empirici”.
In tal modo, Preti ha potuto pensare assieme l’unità formale logica e la dinamica storica delle scienze. I positivisti hanno pensato l’unità formale logica ma non la dinamica storica. Gli idealisti hanno pensato la dinamica storica ma non l’unità formale. La grande sfida consiste nel pensarle insieme. Preti lo ha fatto, ma anche altri epistemologi italiani vi si sono impegnati, e ciò, credo, essenzialmente a causa della presenza della tradizione politica illuminista. In Francia, la situazione è stata completamente diversa, perché nel dopoguerra abbiamo completamente perduto la tradizione illuminista liberale di cui parlava il professor Ricœur sul piano politico. E così noi viviamo in maniera lacerante, come un’antinomia irriducibile e impossibile da
dialettizzare, il conflitto tra un positivismo analitico di tipo anglosassone, da un lato, e concezioni fortemente antipositiviste, decostruzioniste e nichiliste, dall’altro. L’Italia è, al contrario, un modello di sintesi.
Non posso addentrarmi oltre in queste questioni tecniche; non è questo il luogo. Tuttavia, caro Avvocato, vorrei sottolineare di nuovo che questo lavoro sul razionalismo europeo e sull’illuminismo italiano ha potuto svilupparsi solo con l’aiuto dell’Istituto; e vorrei ringraziarLa per il suo personale illuminismo.
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