Un fòro pubblico per la filosofia e l’Europa
Quando sento dire che l’attività dell’Istituto è in pericolo, vedo in pericolo non soltanto l’Italia, ma tutta l’Europa: l’Istituto ha una dimensione internazionale e rappresenta l’unico fòro di tutto il pianeta dove i filosofi di tutti gli orientamenti possano liberamente scambiare le idee.
Senza l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici l’Europa è come una gigantesca biblioteca con lettori taciturni e isolati; l’Istituto è come una persona che introduca la vita in questa biblioteca: prende per mano coloro che hanno un’idea e offre loro lo spazio della comunicazione.
Aristotele pecca d’ottimismo in due sue affermazioni: quando dice che, poiché un uomo genera un altro uomo, allora la specie umana è immortale: una sorta di assioma di Peano (ogni numero ha un successore) applicato alla specie umana anziché alla serie dei numeri naturali; e poi, quando dice che l’uomo è un essere addomesticabile. In questo caso sono d’accordo, condivido il suo ottimismo: nonostante tutto, l’uomo è un essere addomesticabile. Quando un uomo abbandona il nazionalismo, inizia a perdere il senso di appartenenza a una nazione, e nasce in lui la coscienza di appartenere a un’entità ancora inesistente che si chiama Europa, è come un essere che passa da uno stadio selvatico a uno domestico. Questo è anche un processo di risveglio: un uomo che in un giorno della sua vita afferma: oggi sono cosciente di essere europeo, è come se si svegliasse. E ancora, non è come la scoperta d’una nuova galassia: è un sapere nuovo, che esiste soltanto perché è saputo.
L’idea dell’unificazione europea è la prima idea politica nuova, idea d’una rilevanza decisiva per la sua fertilità intellettuale e efficacia politica. È anche una proposta tutto sommato accessibile e accettabile che offre a tutti la via d’uscita da un nazionalismo deleterio e pericoloso o da un senso d’appartenenza nazionale che, come un albero secco, non porta più alcun frutto e viene sentito sempre di più come qualcosa d’inutile. Forse verrò sospettato di eccessivo ottimismo, ma mi sento piuttosto e semplicemente realista; ci vuole molto tempo (e anche in questo mi considero appunto realista: se fossi ottimista, direi che ci siamo vicini), ma ho tuttavia l’impressione che negli ultimi anni siamo di fronte a un’accelerazione del processo di unificazione. Uno dei segni è la scomparsa del discorso antieuropeo, che era stato negli ultimi anni spesso e in molti paesi anche una piattaforma politica: si pensi in particolare all’Inghilterra, alla Danimarca, alla Francia: oggi ne resta ben poco. Come non resta nulla del grande timore dei Tedeschi, quello d’una moneta europea che sostituirà il marco: eppure, sembrava quasi che i Tedeschi avrebbero potuto rinunziare all’Europa pur di non perdere il loro deutsche
Mark.
Penso che la coscienza europea prevarrà inevitabilmente, come inevitabile è il risveglio. Mi sembra che l’idea dell’Europa unita abbia oggi una forza attrattiva di tipo gravitazionale. Certo, so bene che ci sono ancora, in misura diversa nei vari paesi, opinioni contrarie: in alcuni paesi le resistenze, o anche i sentimenti viscerali contrari, sono molto forti. Eppure, ripeto, sembra che le cose vadano avanti come per forza gravitazionale, come se non ci fosse un’alternativa; e effettivamente io non vedo un’alternativa. Anche le nazioni che prima erano più ostili, a poco a poco iniziano a accettare l’idea, appunto come si cade dentro qualcosa per attrazione gravitazionale. E poi non bisogna dimenticare che una volta è esistita un’Europa unita: l’Europa di Roma. L’impero romano ha avuto una dimensione metafisica, quella dell’universalità. E dopo la sua fine, fino ai giorni nostri, è rimasto come fossile vivente dell’impero un popolo che a mio avviso può essere definito solo come europeo, cioè gli Ebrei.
Per descrivere il movimento di unificazione europea devo prendere a prestito un’espressione di Hegel, o meglio una parola latina che Hegel utilizzava per spiegare un fenomeno dello spirito umano, e cioè quel processo dialettico fra particolare e universale in cui lo spirito prima separa le diverse realtà in modo da cogliere appieno il valore del singolo particolare, per poi inserirle in un quadro universale in cui il valore del particolare si trova accresciuto. La parola è
diremptio, dal verbo dirimo, letteralmente “prendere separatamente” (dis e
emo); questo vocabolo viene usato sia per significare “dividere” (urbs Volturno flumine
dirempta, Liv.), sia per intendere “comporre, riunire” (controversiam dirimere,
Cic.).
Così accade per ogni unificazione complessa, in cui sono tante e ricche le particolarità da riunire in un’universalità; più banalmente, sono facili da immaginare esempi della vita reale in cui due o più particolarità vengono riunite, per esempio, in una coppia che si pone come uno. Nel processo di unificazione europea svolge un ruolo importate, in questo senso, l’idea di nazione, e convivono varie idee di nazione: quella francese,
giacobina, basata sull’uguaglianza di fronte alla legge e che considera francese ogni uomo nato sul territorio della Francia; quella tedesca, che storicamente si basa sull’idea romantica del genio tedesco, e che ha prodotto un principio di cittadinanza legato non al suolo, ma, prima dell’ultima guerra, al sangue, e poi all’appartenenza alla cultura tedesca (anche se oggi la Germania ha appena voltato pagina, approvando una legge che si avvicina di più alla concezione francese della cittadinanza); l’idea russa, di nazione come grande madre che ha una missione da compiere; e così via. Ora, l’idea di nazione, sia in sé, sia nelle sue varie accezioni, può esser d’ostacolo o d’impulso per l’unificazione europea. Il fatto che l’idea di nazione sia ancora assai radicata appare come un ostacolo: perché la coscienza di sé come italiani anziché francesi, come francesi anziché tedeschi, eccetera, non spinge a cedere la propria sovranità per unirsi agli altri. Ma non bisogna dimenticare che nell’idea di nazione c’è già in nuce il trionfo dell’idea di universalità, laddove per esempio la nazione italiana non nasce per contrapporre un particolarismo a altri particolarismi, ma per unire tutti gli abitanti della Penisola in nome di un’idea universale, sia pure di universalità limitata.
Il cammino sarà difficile; anche l’unificazione dell’Italia o della Germania hanno conosciuto un cammino lungo e difficile. Non sono eventi che si concludono nello spazio di una generazione, ne occorreranno almeno tre. Gli uomini inizieranno a considerarsi naturalmente prima europei e poi italiani o francesi o tedeschi, come oggi, per esempio, chi legge questo scritto si considera naturalmente prima italiano e poi napoletano, milanese, romano, eccetera. Questo non è impossibile, ma occorreranno molti anni.
Nel progetto di unificazione europea si esprime oggi quel filone, talvolta trionfale e palese, talaltra segreto e sotterraneo, quando non addirittura sconfitto, ma mai vinto, dell’universalità e delle altre idee fondanti del pensiero occidentale. L’Europa unita è, o sarà, una realizzazione materiale resa necessaria dalle idee che, sono da sempre l’oggetto della speculazione filosofica. In altre parole, se si costruisce l’Europa lo si deve al fatto che le idee salvate con la forza delle armi a Salamina e in Normandia sono ancora vive. Ma, come Marx aveva capito molto bene (e certo non è stato il solo), affinché un’idea divenga realtà occorre un veicolo materiale. Da sempre, anche nel campo dello spirito, le idee nuove hanno potuto affermarsi solo se hanno avuto una sede materiale in cui manifestarsi concretamente: si pensi già all’Accademia di Platone. Uno dei veicoli materiali che, oggi, ha permesso e permette di far vivere le idee necessarie alla nascita dell’Europa è l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Mentre Gerusalemme era assediata dai Romani, un rabbino fece aprire una piccola breccia nel muro in modo da poter parlare con gli assedianti, e chiese un’udienza all’imperatore Tito. I Romani, naturalmente, non ebbero alcun problema a concedergliela; il rabbino chiese all’imperatore di lasciarlo uscire dalla città con dieci dei suoi allievi. Egli si stabilì a
Yanve, una piccola località non lontano da Gerusalemme, e fondò una scuola che si chiamava seminario. Da alcuni fu considerato un traditore, ma forse fu un politico chiaroveggente: l’eroica resistenza della città era nobile, oggi diremmo romantica, ma non aveva alcuna ragion d’essere per chi riusciva a capire che cosa rappresentava l’impero romano, e non solo in termini di potenza militare: l’impero era il veicolo del
Weltgeist, lo spirito del mondo. Quest’uomo ebbe allora l’idea che la patria potesse essere non una città o una terra, ma un libro; e che l’esistenza nei secoli a venire del popolo ebreo non sarebbe dipesa dall’aver mantenuto o perduto una terra, ma dal ritrovarsi in un libro in cui c’è scritto “non uccidere”. E perciò volle fondare un seminario dove si poteva studiare e commentare liberamente questo libro, il Libro. Con la diaspora ebraica, questi seminari si moltiplicarono in tutta l’Europa, e rappresentarono un modello di scuola inventata per trasmettere un’idea.
A partire dal XII secolo vengono fondate le università; non sono più scuole dedicate a un’unica idea, ma coltivano invece quella dell’universitas
scientiarum. Ma anche queste a un certo momento iniziano a invecchiare. Il re Francesco I fonda nel Cinquecento il Collège
Royale, oggi Collège de France, come istituzione accademica libera da contrapporre alla
Sorbona, divenuta il simbolo del conservatorismo. Il Collège era fondato sull’idea della libertà dell’insegnamento: venivano invitate persone cólte a tenere lezioni sulla materia di loro competenza. La vera reazione all’involuzione conservativa delle università sarà la nascita delle accademie, fra cui la Royal Society, la stessa Académie
française, ma soprattutto le accademie italiane, a cominciare dall’Accademia dei
Lincei. Sono istituzioni di nuovo tipo, che diffondono il sapere con nuovi metodi. Ma anche le accademie invecchiano. Nell’Ottocento c’è una nuova invenzione: l’università di
Humboldt, cui si affiancano gl’istituti di ricerca. L’accademia tedesca fu riorganizzata come una rete di istituti di ricerca, che oggi si chiamano Max Planck
Institute. L’idea innovativa di Humboldt era un’università basata sul rapporto fra maestro e allievo, con libertà assoluta d’insegnamento, e inoltre sanciva il primato della cultura classica. Gl’istituti di ricerca nascevano invece come istituzioni culturali che avessero poco o nulla a che fare con l’insegnamento.
In questi decenni ci siamo trovati di fronte a una nuova impasse della vita intellettuale, cioè lo strapotere della filosofia analitica; è la filosofia dominante in America, il che significa che è assai potente anche in Europa e comunque, in quanto americana, rappresenta il termine di paragone per i paesi emergenti. Tutte le altre correnti di pensiero erano in fase di atomizzazione, isolate e impotenti. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha offerto un fòro dove queste altre filosofie possono riunirsi, discutere, studiare, ragionare. Un fòro pubblico dove i filosofi possono articolare le loro idee, presentare il proprio pensiero. L’impotenza dell’università in questo caso è emblematica: anche in paesi come l’Italia e la Francia, dove la presenza della filosofia analitica non è predominante, l’università non svolge il ruolo di centro culturale, perché ormai, a prescindere dalle facoltà, s’è trasformata in una fabbrica di specialisti in ben precisi domini; è quello di cui oggi ha bisogno la nostra società, e la specializzazione è un segno dei tempi. Ma appunto per questo occorrono nuove istituzioni culturali, che siano focolai vivi di pensiero.
Fui molto colpito quando, oltre dieci anni fa, scoprii l’esistenza dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, perché ebbi la sensazione di avere a che fare con una di quelle cose che vengono chiamate invenzioni. Proprio come la macchina da cucire Singer, ma nel campo della vita intellettuale; l’invenzione consiste in un nuovo tipo di organizzazione.
L’Istituto non è un’università, né un seminario, né un’accademia, né un istituto di ricerca. La prima idea organizzativa è il rapporto fra l’Istituto e gli studiosi: l’Istituto non istituisce corsi, ma invita persone; in questo ricorda l’idea di Francesco I quando fondò il Collège de
France, e anche lo spirito dell’università di Humboldt, che chiamava una persona per il valore di quella persona, lasciando poi libertà totale d’insegnamento. Così l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici chiama una persona perché ritiene che abbia qualcosa da dire, qualcosa che valga la pena di ascoltare. Gli studiosi non vengono chiamati per un certo periodo (un anno, tre anni, o per sempre), ma per una settimana, per far sì che possano dire quel che hanno da dire; anche se spesso, naturalmente, verranno chiamati ancora. Così ogni anno arrivano a Napoli studiosi provenienti da tutto il mondo, che sono stati scelti dalla presidenza dell’Istituto senza altra regola che non sia quella di invitare persone capaci che abbiano qualcosa da dire: studiosi conosciuti personalmente, incontrati nei convegni, o di cui s’è letto un lavoro, o raccomandati da persone di fiducia. Questo modo di procedere garantisce una qualità delle lezioni che non è sempre alla portata delle altre istituzioni culturali: queste, che siano università o istituti di ricerca, non possono o non vogliono avere come unico criterio di scelta il valore degli studiosi constatato di persona, anche se indirettamente (cioè tramite persone di fiducia); ma, in maggiore o minor misura, devono seguire anche altri criteri, foss’anche solo quello di dover far approvare le scelte da un consiglio che, essendo composto di esseri umani, non può non avere le proprie idee e i propri interessi da difendere.
Lo studioso che arriva all’Istituto viene quindi chiamato a dare il meglio di sé, non nel senso semplicistico di prepararsi coscienziosamente e parlare con chiarezza, ma di portare davanti al pubblico dell’Istituto quel soggetto in cui è più impegnato, su cui ha le idee più interessanti, su cui ha lavorato meglio: uno studioso dell’arte antica non viene chiamato a tenere lezioni sui mosaici pompeiani o un corso sulla scultura ellenistica, ma, una volta che sia stato scelto per la sua bravura, gli si chiede di parlare di quell’argomento nel quale egli possa dare il meglio di sé. E anche questo contribuisce a garantire la qualità delle lezioni. Le altre istituzioni culturali organizzano i propri programmi scegliendo in un certo senso prima i contenuti delle persone, cioè prima stabiliscono, in base alle loro finalità, di che cosa vogliono parlare, poi (se l’istituzione è sana, cioè funziona senza condizionamenti esterni) cercano gli studiosi più adatti, più preparati su quegli argomenti; e naturalmente questo modo di procedere non è sempre in armonia con l’idea di scegliere le persone per il loro valore.
La seconda idea organizzativa riguarda invece il rapporto fra l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e il suo pubblico: come l’oratore viene scelto in quanto persona di valore, così è scelto anche l’uditore: a Napoli e nei paesi e città in cui si svolgono i seminari dell’Istituto, viene invitato un pubblico di giovani a cui si dà una borsa di studio per assistere alle lezioni. L’Istituto concede borse di studio a valenti giovani che in contraccambio portano all’Istituto il loro valore personale. È un’idea in apparenza modesta, ma che si dimostra geniale, perché è di un’efficacia straordinaria: la presidenza dell’Istituto invita uno studioso e organizza un ciclo di cinque lezioni in cui egli offre, come dicevamo prima, il meglio di sé; circa un terzo dell’uditorio è costituito da giovani che sono stati scelti dall’Istituto come i più adatti a seguire quelle lezioni; i migliori, i più preparati, coloro che stanno svolgendo studi sugli stessi argomenti. All’inizio dell’anno accademico viene pubblicato il calendario delle lezioni, e i giovani che sono interessati mandano all’Istituto i loro curricula studiorum chiedendo la borsa di studio. Le lezioni sono aperte al pubblico, ma non entrano soltanto signore e signori che leggono il programma e si dicono: “andiamo, quest’argomento mi interessa”; oppure: “andiamo, questo titolo m’incuriosisce”; oppure: “andiamo, questo relatore è famoso”. C’è sempre un nocciolo del pubblico composto di giovani già preparati e interessati a quell’argomento non come passatempo ma per i loro studi. E io, che, come relatore, di questo sistema ho beneficiato, e che sono abituato da decenni a tutti i tipi di pubblico europeo, posso dire con sicurezza che il miglior pubblico l’ho sempre trovato all’Istituto. Per lo studioso che arriva a Napoli per dare il meglio di sé questa è la cosa più importante: la qualità del pubblico, la reazione della sala. Anche quando la mia lezione è finita, mi trattengo sempre a lungo per rispondere alle domande; la cosa bella è che capisco che chi m’ha ascoltato ha la preparazione adatta a fare domande intelligenti e interessanti. Vengo a Napoli a tenere un ciclo di lezioni nella sede dell’Istituto una volta all’anno da più di cinque anni, e ogni anno si ripete la stessa esperienza. E non solo a Napoli: anche nei paesi dove l’Istituto organizza le cosiddette scuole estive, per ognuna delle quali vengono assegnate dieci borse di studio. Non ho mai trovato un pubblico così; in tanti decenni ho avuto, naturalmente, anche uditòri buoni; so che cos’è un pubblico attento, un pubblico distratto, un pubblico preparato, un pubblico disinteressato; conoscevo già tutti i tipi di pubblico. Ma a Napoli, ogni anno, ho semplicemente il pubblico giusto, quello che ogni relatore vorrebbe: un pubblico che è interessato esattamente a quell’argomento che egli propone come il meglio di sé.
La terza idea organizzativa è quella dell’irradiazione: l’Istituto organizza seminari e convegni in altre grandi città europee; e anche in questo caso c’è un responsabile che sceglie i relatori e offre borse di studio per partecipare, seguendo sempre lo stesso criterio: il valore della persona. Così quest’idea si diffonde in Europa. Ma ancor più importante, sempre a proposito di irradiazione, mi sembra sia l’idea delle scuole estive: ogni anno l’Istituto ne organizza circa cento, localizzate per lo più nei paesi del Mezzogiorno. La consistenza dell’uditorio è molto variabile; ci sono in genere gli insegnanti del paese, qualche curioso, qualcuno che coltiva nel tempo libero i propri interessi culturali; ma c’è sempre il solito nocciolo di dieci giovani scelti dall’Istituto, che vengono da ogni parte d’Italia, e che trasformano con la loro presenza la scuola estiva in un avvenimento di alto livello culturale, rendendo le giornate dense, ricche, stimolanti. Il relatore, come sempre, è scelto per il suo impegno personale per trattare come argomento quello che sta al centro dei suoi interessi; e si trova davanti un pubblico scelto apposta come il più adatto a ascoltare quell’argomento.
I risultati di queste idee organizzative si vedranno fra quindici, vent’anni: l’Istituto non è una fabbrica di scarpe, nella quale oggi si progetta un nuovo modello, domani lo si produce e dopodomani lo si vende, potendo così constatare immediatamente se il prodotto è valido, se il modello ideato incontra i gusti del mercato. Il lavoro dell’Istituto con le scuole estive diverrà sensibile in decenni, quando in Italia ci sarà una generazione marcata dall’essere passata dall’Istituto.
La combinazione di queste tre idee organizzative (la scelta dei relatori, la scelta del pubblico, l’irradiazione) fa dell’Istituto il veicolo delle idee dell’Europa: perché con questa organizzazione si propagano con la minima dispersione possibile le idee delle persone che vivono e pensano in Europa. Perciò ho detto che l’Istituto è un
fòro: a Napoli vengono invitati studiosi da tutto il mondo, e trovano lì il pubblico adatto per esporre e confrontare le proprie idee. Mi sembra che oggi l’Istituto sia l’unico contrappeso a questa immensa massa gravitazionale che è la filosofia analitica. L’Istituto però è tutt’altro che fazioso: con spirito aperto e liberale, non è chiuso ai filosofi analitici, anch’essi invitati a esporre le proprie concezioni e i risultati del proprio lavoro.
So che l’Istituto lotta ogni anno per sopravvivere e per svolgere la sua attività non in forme ridotte come se fosse una riserva indiana, ma colle energie necessarie a irradiare un’idea. Quando sento dire che l’attività dell’Istituto è in pericolo, vedo in pericolo non soltanto l’Italia, ma tutta l’Europa: l’Istituto ha una dimensione internazionale e rappresenta l’unico fòro di tutto il pianeta dove i filosofi di tutti gli orientamenti possano liberamente scambiare le idee. Il mondo è pieno di fondazioni dove si può studiare per sei mesi in silenzio con l’ausilio d’una eccellente biblioteca; di istituzioni ottime, buone o mediocri che seguono un’idea, un tema, un campo più o meno limitato del sapere e organizzano conferenze e curano pubblicazioni; e comunque fuori dalle università la filosofia è presa in considerazione solo in forma di scienze sociali o umane, quasi esistesse una sorta di sciocco pudore a studiare seriamente qualcosa che non può essere in alcun modo chiamato scienza, ma che tuttavia esiste. Il mondo è pieno di studiosi che lavorano in silenzio nelle biblioteche, di convegni riservati agli addetti ai lavori e di conferenze per un pubblico vasto, di incarichi annuali o semestrali; nulla di tutto ciò è efficace come la formula dell’Istituto: per cinque giorni, una sala né grande né piccola dove un relatore e un pubblico scelti con cura scambiano le idee, affrontando quell’argomento in cui il relatore e i giovani studiosi possano dare il meglio di sé.
L’Istituto è un’invenzione non solo perché è qualcosa di nuovo, ma perché è il tipo di istituzione culturale di cui il nostro tempo ha bisogno: un punto di irradiazione. Nessuna istituzione, buona o cattiva, riesce oggi a svolgere questo ruolo. L’Istituto raccoglie e irradia: raccoglie le persone che hanno idee e raccoglie l’uditorio più adatto a riceverle. Se la presidenza dell’Istituto conosce, direttamente o indirettamente, uno studioso che ha qualcosa da dire sul neoplatonismo o sull’arte etrusca o sulle lotte sociali nell’antichità o sulla psicologia infantile, lo invita a Napoli o a una scuola estiva. Così le idee dell’Europa vengono raccolte e diffuse. Questo compito è talmente più prezioso perché rappresenta anche un contrappeso a un altro fenomeno del nostro tempo: la specializzazione; io so bene quali siano le cause e quali i vantaggi, ma anche i pericoli della specializzazione. Il pericolo è la crisi delle idee: si studia quel che ha scritto Platone, con che marmo fu costruito il
Partenone, i prezzi del grano nel Seicento, in quali particelle si decompone un protone, e l’attività dello spirito finisce lì: cioè, non si parte da queste cose per farsi delle idee, ci si limita alla conoscenza dei particolari come fine a se stessa; e perciò le università non sono più capaci di ospitare il pensiero veramente creativo, perché ogni facoltà o indirizzo di studi s’è votato a soddisfare questo bisogno di specializzazione, ed è strutturato in modo da formare giovani che sappiano bene alcune cose, trascurando la prospettiva culturale complessiva. Naturalmente tutto ciò non è universalmente vero: ci sono tanti studiosi che non hanno solo competenze (e quindi qualcosa da insegnare), ma hanno idee, e quindi qualcosa da dire. Però, pochi o molti che siano, si trovano isolati, perché non c’è uno spazio istituzionale per lo scambio di idee, ma solo per lo studio individuale o la trasmissione delle competenze; i convegni per addetti ai lavori si risolvono in una presentazione di risultati scientifici, e si svolgono in modo che lo scambio di informazioni non s’accompagna a quello delle idee; le conferenze sono poco o punto efficaci, perché il pubblico è troppo vasto e non sufficientemente preparato, e soprattutto non c’è interazione fra persona e persona. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, unico al mondo, offre lo spazio intellettuale per il confronto delle idee. Senza l’Istituto l’Europa intellettuale sarebbe un’enorme massa d’informazioni che interessa solo gli addetti ai lavori nelle rispettive discipline; l’Istituto permette alle idee di circolare accanto alle informazioni. Senza l’Istituto l’Europa è una gigantesca biblioteca letteraria e scientifica, nella quale studiano, fra gli altri, quegli uomini che hanno un’idea, in silenzio, tenendosi l’idea per sé; l’Istituto è come una persona che s’aggiri per questa biblioteca cercando gli uomini che abbiano qualcosa da dire, per poi prenderli per mano e offrire loro lo spazio della comunicazione.
Per poter funzionare in questo modo, cioè per scegliere liberamente i relatori e il pubblico di borsisti solamente in base al valore delle persone, l’Istituto dev’essere molto agile e la sua presidenza completamente libera. Il gruppo dirigente non può essere sottoposto a obblighi politici o sociali o anche solo didattici: assolutamente autonomo e incorruttibile, opera le sue scelte cercando gli studiosi più preparati e le idee di valore.
Così l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha potuto imporsi nel giro di trent’anni all’attenzione mondiale come centro di raccolta e di irradiazione delle idee. E trent’anni sono pochi, nel campo della vita spirituale: significa che l’Istituto ha funzionato non bene, ma benissimo. Fra altri trent’anni, quando la generazione che s’è formata alle scuole dell’Istituto farà parte dell’élite intellettuale, allora inizierà a sentirsi l’opera compiuta: nel loro mondo di medici, ingegneri, avvocati, insegnanti, musicisti e quant’altro, questa generazione introdurrà qualcosa di speciale e di specifico, difficile da definire, l’eredità di un’esperienza intellettuale che oggi un giovane può compiere solo all’interno dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che è l’incontro con altri uomini e idee nel segno dell’alta cultura e dell’impegno civile, ma liberata da ogni condizionamento politico, sociale o professionale.
Abbiamo detto all’inizio che le idee hanno bisogno di veicoli materiali per poter camminare. C’è un movimento immanente allo sviluppo dello spirito occidentale, che chiamerei filosofia classica o tradizionale se questi aggettivi non falsassero la vera natura del movimento, facendolo apparire come vecchio o sorpassato o comunque concernente il passato, e che ho usato solo per distinguere questa filosofia dalla filosofia analitica. Insieme a questo movimento procede, quasi invisibile, il cammino della libertà, della giustizia, dell’universalità. Un cammino difficile, i cui progressi purtroppo vengono subito dimenticati lasciando ampi spazi al pessimismo o alle teorie antiliberali. Di nuovo, non mi ritengo un ottimista, mi sembra piuttosto di essere realista: ci sono prove empiriche che quel cammino prosegue. Pochissimi decenni fa nessuno avrebbe considerato possibile che un esercito multinazionale mettesse piede sul territorio d’uno Stato sovrano non per conquistarlo e annetterlo ma per mantenere la pace; e oggi tutti lo considerano normale, anzi vengono denunziati i ritardi e le omissioni. Ancora all’inizio degli anni Ottanta solo i giovani pensavano che, forse, avrebbero vissuto abbastanza per vedere la riunificazione di Berlino; qualunque cosa si pensi del comunismo, del capitalismo e del modo in cui è stata portata avanti la riunificazione tedesca, nessuno può negare che la caduta del Muro sia una manifestazione alla luce del sole di quella talpa che scava da millenni, come Hegel ha definito la libertà. Non voglio dire che il mondo negli ultimi vent’anni sia migliorato o addirittura che tutto vada per il meglio; voglio solo dire che la “vecchia talpa” fa la sua strada, la libertà, la giustizia e l’universalità in mezzo a tante sconfitte e battute d’arresto proseguono il loro cammino. Rispetto a vent’anni fa, ci sono tantissime cose nuove che divengono subito normali o appaiono non sufficienti, come la condizione della popolazione di colore negli Stati Uniti, la caduta dei regimi totalitari dell’Europa Orientale e dell’America Meridionale, le prime riunioni mondiali sul clima e l’inquinamento, la decisione del Bundestag di modificare la definizione di cittadinanza tedesca. È giusto che ci si abitui subito e che si voglia molto di più, ma è ingiusto dimenticare. Mi sembra che il percorso della libertà sia irreversibile: la libertà delle poleis greche, dopo che fu soffocata, è riemersa in varie occasioni in Europa nelle epoche più diverse, fino alla riaffermazione universale della Rivoluzione francese. Tutto ciò che è contrario alla libertà può riuscire a seppellirla e a prevalere per un certo periodo, ma quando viene sconfitto perisce per sempre, mentre la sparizione della libertà è sempre provvisoria e circoscritta. A Auschwitz non è morto Dio, ma l’antisemitismo; non tutti se ne rendono conto, perché in Europa (più o meno dovunque, tranne che in Italia) sopravvive una specie di folclore antisemita; ma il folclore antisemita è cosa ben diversa dalla politica antisemita, tant’è vero che anche i partiti di estrema destra hanno cura di specificare che non sono antisemiti; l’antisemitismo come programma politico è eliminato dal vocabolario; possono rimanere sentimenti antisemiti nelle persone, ma è un’altra cosa, perbacco; per questo credo che Auschwitz sia la morte dell’antisemitismo, anzi credo che sia qualcosa di più, credo che sia l’inizio della catarsi dello spirito occidentale, perché l’antisemitismo è una secrezione ancestrale della storia dell’Occidente.
L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici fa parte delle cose e persone che, durante il lungo corso della storia, hanno fatto sì che continuasse la marcia di questa corrente sotterranea che trasmette i valori della libertà e dell’universalità. E anche oggi l’Istituto non è certo solo, ci sono altre forze che convergono verso gli stessi obiettivi; l’Istituto svolge un ruolo consapevole, cosciente di far parte di questo movimento.
La nascita della coscienza di essere europeo, del senso di appartenenza all’Europa, in sostituzione dell’appartenenza tribale o etnica, è un processo collettivo, e in ciò sta la sua forza: come diceva Marx, anche le idee divengono forze materiali quando hanno penetrato le masse. E l’idea d’Europa, piuttosto che quella d’un proletariato rivoluzionario, è destinata a conquistare le masse. L’opera dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici aiuta questo parto lento e doloroso: come ho già detto, lo si potrà constatare fra vent’anni, quando faranno parte dell’élite intellettuale italiana le migliaia e migliaia di giovani che hanno partecipato alla vita dell’Istituto, che significa anche aver frequentato una scuola di educazione politica e un ambiente che esalta la coscienza civile. Nella diremptio fra coscienze nazionali e coscienza europea l’azione dell’Istituto è come se indicasse la via, perché ha realizzato in concreto, nel mondo dello spirito, l’ideale politico dell’unificazione dell’Europa. L’Istituto è un esempio di come la dialettica tra l’idea di nazione e l’idea d’Europa possa esser vissuta non come una contraddizione logica insuperabile, ma proprio come una
diremptio: la separazione e poi l’unione, la conservazione delle particolarità locali, necessaria perché senza identità non c’è ricchezza da mettere in comune, unita all’accettazione dell’universalità come àmbito in cui queste particolarità debbono esprimersi. E infatti l’Istituto stesso è il frutto della diremptio che si rinnova ogni giorno fra la chiara appartenenza alla città di Napoli, il crescente radicamento nel Mezzogiorno, e l’inserimento nella tradizione intellettuale italiana, e ancora l’orizzonte europeo, sia materiale sia spirituale, verso cui s’irradia la sua azione. L’Istituto ha iniziato a stringere sodalizi con alcune grandi università europee, prima di tutto Vienna e Berlino, creando in tal modo un’Europa intellettuale per così dire dal basso, cioè non aspettando che la Commissione Europea decida di fondare un istituto europeo o qualcosa di simile.
L’Europa unita, alla cui costituzione tutti prendiamo parte, oggi più che mai non può fare a meno dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Perciò mi sembra che l’idea di trasformare l’Istituto da italiano in europeo, che è una delle idee che rientra fra i tanti progetti della sua Presidenza, sia esattamente quello di cui ha bisogno l’Europa.
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