Memoria della Rivoluzione e apertura al futuro
Se fossimo costituiti in commissione d’esame di dottorato, secondo la professione di molti tra noi – ma si rassicuri, Avvocato, non siamo in una commissione d’esame e, d’altra parte, Lei ha superato gli esami da lungo tempo -, potrei intervenire assumendo la posizione nello stesso tempo comoda e scomoda di colui che, a conclusione del dibattito, fa prova di originalità dicendo: “Poiché tutto è già stato detto dai miei colleghi con molta dottrina e perspicuità, non mi resta più niente da dire”. E, d’altronde, questo sarebbe anche un modo di adattarsi alla necessità del momento, perché il tempo a nostra disposizione è ormai quasi trascorso. Dovrò dunque tener conto di questa necessità.
C’è qualche parola che non ho sentito pronunciare dai miei colleghi, ma che mi sembra essere nel cuore stesso della vocazione dell’Istituto e della personalità dell’Avvocato. Quella che a me è più cara – ma qui mi si dirà che predico per la mia parrocchia – è la parola “rivoluzione”. Non se ne è parlato molto, e sono contento che così mi sia data l’opportunità di richiamarla, sia pure a passo di corsa, calzando gli stivali dell’armata d’Italia, come disse qualcuno che non amo troppo.
Vorrei evocare un compagnonnage che dura quasi venti anni, perché fu nel momento in cui si cominciò ad organizzare la commemorazione del bicentenario della Rivoluzione francese che cominciai a frequentare l’Istituto e avvenne il nostro incontro. Investito di un compito gravoso e avvincente, quello del coordinamento nell’ambito del CNRS delle iniziative scientifiche per la commemorazione del bicentenario in Francia e nel mondo, mi trasformai in un missionario patriota – come si diceva nell’Anno Secondo –, in un apostolo della libertà, ed è per questo che ho incontrato l’Istituto. Infatti, quel lavoro, che iniziò tra il 1982 e il 1983, mi fece constatare che l’Istituto era già in prima linea, perché aveva già organizzato i primi incontri, i primi convegni, come quello del 1982, che aveva per tema il cammino degli intellettuali napoletani dall’Illuminismo fino a quell’esito, ad un tempo tragico e trionfale, che fu la rivoluzione napoletana del 1799. Nel 1988, per iniziativa congiunta dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dell’Institut d’Histoire de la Révolution
française, la Maison des Sciences de l’Homme accolse a Parigi un convegno tra ricercatori italiani e francesi sulla Repubblica del 1799. Ma di più, tra il 1987 e il 1990, ci furono almeno una dozzina di convegni e di mostre promosse dall’Istituto, spesso in collaborazione con altri centri di ricerca, musei, università, nella Penisola ma anche in Francia e in altri Paesi europei.
Cosicché l’Istituto ha avuto un ruolo eminente nella preparazione del bicentenario della Rivoluzione francese, la cui commemorazione ha visto, per questo, una presenza molto significativa dell’Italia. Quasi ottanta incontri scientifici si sono svolti in Italia, sui 540 che si sono tenuti nel mondo, di cui la metà in Francia. L’Italia è di gran lunga la prima in questa “hit parade” della mobilitazione mondiale.
I numeri – si dirà – non danno il senso della cosa, ma non c’è tempo per presentare tutti i convegni sul bicentenario della Rivoluzione organizzati dall’Istituto. E però come si potrebbe non riservare un ricordo particolare al convegno di Castel Sant’Elmo, a Napoli, nel dicembre 1989, sul tema “Napoli e la Repubblica del ’99: immagini della Rivoluzione”? In quegli anni l’Istituto è stato su tutti i fronti, collaborando a Venezia con la fondazione
Cini, organizzando nella sua sede, con la collaborazione dell’Università di
Clermont-Ferrand, un convegno sul tema “Un lieu de mémoire romantique: la Révolution de 89”, ancora a Parigi un incontro sul rapporto tra rivoluzione, filosofia e storia, mentre a Roma portava il suo contributo alla mostra sul tema “L’Italia nella Rivoluzione. 1789-1799”, esposta nella Biblioteca Nazionale.
Dalle numerose iniziative dell’Istituto emergono i tratti fondamentali della sua opera in questo campo. L’Istituto iscrive la sua ricerca, tanto nella forma di convegni quanto in quella di pubblicazioni e di mostre, in un quadro non solamente napoletano e italiano, ma europeo. Spazia in un periodo ampio, dall’Illuminismo all’evento rivoluzionario e alla sua espansione dal diciannovesimo secolo ai nostri giorni. Per fare ciò, esso accoglie, negli incontri che organizza da solo o in collaborazione con altri centri, ricercatori di livello internazionale, mettendoli in relazione tra loro e sostenendone il lavoro.
Questa presenza non si è allentata all’indomani del 1989, quando nella stessa Francia – bisogna dirlo – l’iniziativa ufficiale sbiadiva nella convinzione che ormai il debito all’anniversario commemorativo era stato pagato. L’Istituto ha partecipato nel 1992 al convegno svoltosi alla Maison des Sciences de l’Homme sul tema “L’homme des Lumières de Paris à Pétersbourg”, e successivamente ha aperto le sue porte, ancora una volta, al Centre d’histoire révolutionnaire di Clermont-Ferrand per quello che senza dubbio è il più importante contributo che sia stato dato alla storiografia su Robespierre: il convegno “Images de Robespierre”, i cui atti hanno segnato una svolta. È anche vero che a Napoli, come nel resto d’Italia, la commemorazione della Rivoluzione non poteva essere considerata come finita nel 1993, perché restava da onorare il triennio rivoluzionario dal 1796 al 1799, fino al suo eroico epilogo nella nascita e nella morte della Repubblica napoletana. Questa fu per me, che avevo appena finito di svolgere le mie funzioni ufficiali per il Bicentenario dell’Ottantanove, l’occasione per apprezzare la vitalità, l’ardore e la passione con le quali i ricercatori e gli esponenti della cultura italiana, lungi dal considerare chiuso il discorso, moltiplicavano le loro iniziative ancora per tre anni e più, dall’Italia settentrionale, da Torino a Venezia e al resto della Penisola. E ancora, l’Istituto è stato in prima linea tanto negli incontri dedicati ai protagonisti del 1799, quanto nel memorabile convegno, tenuto ancora una volta nel Castel Sant’Elmo a Napoli, sul tema “La rivoluzione napoletana tra storia e storiografia”. E non è che con questo la fiamma si fosse spenta: nel 2001, rendendo omaggio nella sua sede a Carlo Laghi e al suo monumentale studio su Napoleone, l’Istituto ha aperto una nuova pagina nell’approccio a quella che in italiano viene chiamata “età napoleonica”.
Da questo rapido percorso, troppo rapido per non apparire inevitabilmente riduttivo o meramente
enumerativo, vorrei fermare qualche idea, qualche immagine. La prima, senza dubbio, è quella di un luogo magico: quel Palazzo Serra di Cassano, chiuso e nello stesso tempo così ampiamente aperto alla città, al Paese, al mondo; luogo di memoria – come è diventato quasi banale affermare – se ve ne è uno, che conserva il ricordo dei martiri del 1799, come quello delle grandi figure dell’Illuminismo napoletano; un luogo al quale si deve intimamente associare la sua presenza, avvocato
Marotta, senza dimenticare coloro che la circondano: Antonio Gargano e tanti altri che mi perdoneranno se non posso citarli. Mi viene da dire, un po’ maliziosamente, che Gerardo Marotta è l’ultimo dei giacobini napoletani, sfuggito alla furia sanguinaria dei sanfedisti del cardinale Ruffo; e lo dico così, con una battuta, per mascherare l’emozione, che certamente condivido con molti altri, di scoprire, sotto un aspetto fragile, l’energia, la passione, l’attaccamento ad un progetto ostinatamente perseguito: quello di assumere il retaggio che, dall’Illuminismo ai nostri giorni, si è come sacralizzato nell’evento del 1799. Questa eredità è, per la sua stessa fragilità, un obbligo, perché la memoria – come si sa – può estinguersi. Per uno come me, che non crede ai miracoli, costituiscono tuttavia un miracolo la vita, il dinamismo, l’apertura al futuro e il radicamento nella contemporaneità dell’Istituto; e, se non un miracolo, almeno un’impresa eccezionale e una forte testimonianza.
Ho evocato questa impresa solo con qualche riferimento agli incontri degli ultimi anni nel campo degli studi sulla Rivoluzione. È già troppo, ma è anche troppo poco. Le pubblicazioni direttamente o indirettamente prodotte dall’Istituto – rassicuratevi, non farò l’elenco delle 110 “voci” che ho rilevato nel resoconto delle ricerche su questo tema – ci pongono di fronte ad una straordinaria ricchezza di approcci: atti di convegni e lavori specialistici, certamente, ma anche opere di divulgazione ad alto livello, nonché pubblicazioni di fonti e repertori. Il campo di ricerca privilegiato, all’incrocio tra lunga durata ed evento, è Napoli come fucina di cultura, ma anche come luogo tragico in cui si iscrive l’evento, la rivoluzione napoletana, parossismo quasi conclusivo della grande rivoluzione mondiale del 1789-93 e, nello stesso tempo, apertura al futuro per le promesse, ma anche per i pericoli che essa rivela; quei pericoli, avvocato
Marotta, che Lei vede incarnati nella Vandea che può sempre rinascere.
Come il Palazzo Serra di Cassano è situato nel cuore di Napoli, così Napoli si colloca nel cuore di una epopea rivoluzionaria che ingloba tutta la Penisola, quella che si riconosce nel messaggio della Rivoluzione francese. La vocazione dell’Istituto, per corrispondere a questo dovere, è quella di essere – oltre che luogo di memoria, o semplicemente di accoglienza per gli studiosi – un centro propulsore di ricerche e di coordinamento di iniziative, un centro di diffusione di nuove conoscenze.
È necessaria, per tutto ciò, una grande passione. Nella nostra epoca, in cui prevalgono idee di restaurazione e di ritorno all’ordine, è molto difficile preservare lo spirito di coloro che, sotto il Direttorio, si chiamavano “inflessibili repubblicani” e che l’Europa coalizzata indicava come “i giacobini”. Questa parola non ha oggi buon corso: riconoscersi “giacobino” presuppone che si pensi che la rivoluzione, lungi dall’esser terminata, è ancora da fare. E per questo l’avvocato Marotta è consapevole, come ha ricordato Domenico Losurdo nel volume dedicato alle ricerche dell’Istituto, che è necessario continuare ad opporsi, al di là della sconfitta del 1799, alla controrivoluzione montante, che Lei, Avvocato, indica col termine di “Vandea”, designando emblematicamente, con questo nome, le forze retrograde che perpetrarono lo sterminio dei giacobini napoletani, ma che sono sempre all’opera, in piena luce o nei recessi della società.
Ecco delle verità che non possono piacere a tutti, in tempi in cui la nostalgia del resistere prevale sulle illusioni del progresso. Bisogna andare a Napoli – io credo – per incontrare veri giacobini e non la caricatura che volentieri se ne dà oggi, confondendo giacobinismo e accentramento napoleonico, vero e proprio tradimento dello spirito della Rivoluzione. Per parte mia, lo confesso, io resto un po’ giacobino, e se l’Avvocato mi permette di essere al suo fianco, ciò sarà per me un onore.
|