Prefazione
di Giovanni Pugliese Carratelli
Dei ‘giacobini’ fondatori della Repubblica Napoletana del 1799 il nome che viene
primo alla mente è quello di Francesco Mario Pagano, studiosissimo di Vico,
discepolo di Antonio Genovesi, amico di Gaetano Filangieri. Per la sua autorità
di giurista, universalmente riconosciuta, i suoi compagni gli affidarono il
cómpito di redigere un progetto di costituzione per la nascente Repubblica.
Altamente elogiato da Vincenzo Cuoco fin dalla prima stesura (1801) del
Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli («I suoi saggi politici sono la
miglior cosa che si possa leggere dopo le opere di Vico»), nei Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo aggiunti al Saggio ricompare come
principale destinatario delle critiche che il Cuoco moveva alla visione politica
dei giacobini napoletani, la cui rivoluzione egli definì ‘passiva’ perché
ispirata, a suo avviso, dall’ideologia rivoluzionaria francese.
Si legge infatti
nel prologo al Progetto di costituzione che «ha esso adottato la
Costituzione della Madre Repubblica Francese»; ma, ovviamente, «con alcune
modificazioni» per «la diversità del carattere morale, le politiche circostanze,
e ben anche la fisica situazione delle nazioni». Difficile sarebbe d’altronde
immaginare che il governo repubblicano di Napoli, costituito d’improvviso per
evitar l’anarchia dopo la fuga dei sovrani, e formato da esponenti della nobiltà
e della borghesia, di cultura prevalentemente illuministica, potesse proporre
«idee tratte dal fondo della Nazione» a sudditi di assai varia condizione e
cultura, e tutti avviliti dall’avvicendarsi di monarchie assolute poco disposte
a riforme non superficiali. Ma il Cuoco era naturaliter un ‘moderato’, al
pari del Galanti, e difatti la sua partecipazione all’attività politica dei suoi
amici repubblicani era stata assai lieve. Egli ha soltanto dichiarato d’aver
comunicato le sue obiezioni a più punti del Progetto di Pagano non a
questo stesso, ma al comune amico Vincenzio Russo; e può darsi che abbia voluto
separare i Frammenti dal Saggio per non velare di un politico
dissenso la commossa rievocazione del martirio di tanti patrioti.
I ‘moderati’, fortemente influenzati dall’ammirazione per il Machiavelli,
riponevano ogni virtù riformatrice nel ‘popolo’, o meglio in quella parte del
popolo che per superiorità di status sociale ed economico aveva capacità
di suscitar moti e di governare. Non è questo il luogo per discutere questioni
più volte dibattute, delle quali dà una chiara informazione un libro di Vincenzo
Ferrone (La società giusta ed equa, Bari, 2003); e giova piuttosto
rammentare, tanto a chi dichiara ‘passiva’ la rivoluzione napoletana quanto a
chi la riconosce ‘attiva’, la pagina dettata da una sapiente equanimità a Croce
nella Storia del Regno di Napoli (p. 227 dell’ed. settima, 1965): «Pure
altra via, in verità, non si offriva alla classe intellettuale di Napoli, di
fronte alla rivoluzione di Francia, se non quella che essa effettivamente seguì.
Gli ‘illuministi’ del monarcato assoluto dovevano rinnovarsi, come nel fatto si
rinnovarono, in ‘giacobini’ ». Non senza ragione Croce ha salvato dall’oblìo la
pagina di un giacobino del quale ha ammirato, nell’Albo della Rivoluzione
(p. 70), la forza d’animo: Gregorio Mattei. Questi in un suo periodico, «Il
Veditore Repubblicano», del germile (21 marzo - 20 aprile) 1799, ha scritto (v.
Croce, La rivoluzione del 1799, 7. ed., 1961, p. 234): «I giacobini di
Napoli furono i primi che diedero il grido all’Italia sonnacchiosa: quando altri
appena ardiva pensare, quando pareva ancor dubbia la sorte della Francia
medesima, essi, giovani, inesperti, privi di mezzi, ma pieni di entusiasmo per
la libertà, d’odio per la tirannia, tentarono un’impresa difficile, vasta,
perigliosa, che, se non fosse andata a vuoto, gli avrebbe resi immortali, e
felice l’Italia»; e nel medesimo foglio, in una lettera datata 30 germile e
diretta a Vincenzio Russo: «Puoi tu figurarti che tre mesi d’immatura e
inaspettata rivoluzione bastino per rendere virtuosi come gli Spartani della
prima guerra persiana e i Romani della prima guerra punica? […] attualmente da
tre punti di gran dettaglio pende la salute di questa nascente Repubblica: la
formazione di un’armata, la restituzione del valore rappresentativo delle carte,
l’abolizione intera del feudalesimo». È evidente che i giacobini di Napoli erano
consapevoli dei problemi che avrebbero dovuto risolvere e dell’assoluta
impreparazione della maggior parte della popolazione del Regno. E ancora Croce,
richiamando questa lettera, indica il positivo risultato di quel coraggioso
tentativo di rivoluzione (Storia del Regno di Napoli, p. 229): «Quei
giacobini napoletani, uniti coi loro fratelli di tutta Italia, trapiantarono in
Italia l’ideale della libertà secondo i tempi nuovi, come governo della classe
colta e capace, intellettualmente ed economicamente operosa, per mezzo delle
assemblee legislative, uscenti da più o meno larghe elezioni popolari; e,
nell’atto stesso, abbatterono le barriere che tenevano separate le varie regioni
d’Italia, specialmente la meridionale dalla settentrionale, e formarono il
comune sentimento della nazionalità italiana, fondandolo non più, come prima,
sulla comune lingua e letteratura e sulle comuni memorie di Roma, ma sopra un
sentimento politico comune».
Il fatto è che in quegli studiosi del Vico fattisi giacobini era viva un’idea
che ha sempre animato quanti – probabilmente già da Pitagora, certamente da
Platone in poi – han volto la mente, prima di ogni calcolo di possibilità
d’attuazione, al parádeigma di una polis retta da leggi elaborate da
philósophoi: un ideale che era nato da profonda esperienza storica ed era
illuminato da un sentimento di umana solidarietà: «Nel cielo, in verità, v’è un
modello per chi voglia contemplarlo e, contemplandolo, riformare se stesso»
(Platone, Repubblica IX 592 B). ‘Celeste’ perché disegnato dalla divina
Dikaiosyne, esso è sicura guida a quella che Platone chiama «costituzione
giusta ed equa» (Epistola VII 326 D). Attraverso secoli questo
parádeigma si è ripresentato alla mente di Paolo Mattia Doria e di
Giovambattista Vico; e quest’ultimo ha scritto nell’autobiografia: «da’
ragionamenti del Doria egli (Vico) vi osservava una mente che spesso balenava
lumi sfolgoranti di platonica divinità onde da quel tempo restaron congionti in
una fida e signorile amicizia. Fino a questi tempi il Vico ammirava due soli
sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito; perché con una mente
fisica incomparabile Tacito contempla l’uomo qual è, Platone qual dee essere».
Con altri ammiratori del Machiavelli Galanti e Cuoco si erano sottratti alla
suggestione platonica; non meno consapevoli del valore dell’indagine storica del
Machiavelli, i lettori di Doria e di Vico divenuti giacobini coltivavano però
con particolare impegno la scienza della legislazione e seguivano con attenzione
tutte le esperienze politiche del loro tempo. Rivolgendosi ai ‘cittadini
rappresentanti’, Pagano ha scritto all’inizio del Progetto: «Gran passi
aveva già dati l’America in questa, diremo, nuova scienza, formando le
Costituzioni de’ suoi liberi Stati». Filangieri, che morì nel 1788, e i suoi
amici erano ben informati in proposito, grazie agli assidui contatti con
esponenti di logge massoniche anglo-americane, e sapevano quanto dal 1787
discutessero delle dottrine politiche dell’antichità classica i Costituenti
americani. (Ne tratta una lezione di un autorevole studioso belga del
pitagorismo, Armand Delatte, edita nel 1948: La constitution des États-Unis
et les Pythagoriciens).
I saggi di un eminente storico, Gioele Solari, hanno aperto la via ad una
corretta intelligenza del pensiero politico e dell’azione del Pagano, nel quale
erano giustamente riposte le maggiori speranze dei fondatori della Repubblica
Napoletana. Ora un dotto giurista, particolarmente versato nel diritto pubblico,
e inoltre fervido cultore delle humanae litterae, ripropone con questo
libro la lettura dei Saggi politici e del Progetto di Costituzione,
e premette ai testi paganiani un ampio saggio su Politica e giurisdizione nel
pensiero di F. M. Pagano. A chi ne leggerà le pagine non potrà sfuggire
l’importanza delle sue ricerche e conclusioni, che non solo portano nuovi
contributi alla conoscenza della cultura storica e giuridica del Pagano – dalle
non mai dimenticate lezioni di Vico all’esperienza rivoluzionaria – ma invitano
ad approfondire lo studio dei suoi scritti e dell’influenza che essi hanno
esercitato nel processo di formazione della dottrina liberale europea.
Giovanni Pugliese CarratelliI
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