Dopo aver elencato i quattro rischi hegeliani del fallimento del progresso, Bodei si dedica alla ricostruzione del dibattito a Hegel contemporaneo intorno al tema della passività delle masse, della solitudine, del rischio dell’azione prematura e del rapporto con la natura. La strategia del calco negativo permette di mettere ulteriormente a fuoco il ruolo che Hegel attribuisce al filosofo e al poeta in tempo di crisi, senza per questo tralasciare la tensione nei confronti dello scacco individuale e del Leiden collettivo. Emerge così l’hegeliano coraggio della speculazione, che si contrappone, da una parte, alla critica fichtiana dell’assenza di volontà nelle masse, e, dall’altra, al ricorso novalisiano al “mondo interiore”. Hegel insiste infatti sulla necessità di comprendere i bisogni storicamente oppressi della moltitudine, sebbene con cautela rispetto all’entusiasmo e alla violenza i cui effetti sono descritti nell’Iperione di Hölderlin. Ulteriore bersaglio polemico è la rêverie rousseauiana, in cui il rapporto armonico con la natura è preferito a quello con gli uomini – come mostra il topos dello stare sdraiati sull’erba o accanto a un corso d’acqua. Bodei restituisce quindi un Hegel lontano da quello di Löwith: il compito dei grandi poeti e dei grandi filosofi è infatti, secondo Bodei, quello di dominare e di esprimere l’ignoto, di mostrare come la vecchia vita sia morta e di dare forma ai bisogni collettivi, rinunciando per questo alla solitudine e all’oblio. Il coraggio dello speculativo sta infatti nel rifiutare la tentazione di una fantasticheria alternativa, del rifugiarsi in un auto-esilio interiore, e di accettare al contrario il compito etico di tradurre in termini razionali le immagini delle moltitudini degli uomini. Il filosofo-poeta dovrà infine costringersi a ricordare le determinatezze, nella consapevolezza che dimenticarle significherebbe rischiare di far fallire il cambiamento.
- Henri Gouhier, Jean-Jacques Rousseau: storia e leggenda, 16 giugno 1983
Brani tratti da Jean-Jacques Rousseau, «Quinta passeggiata», in Le passeggiate solitarie, tr. it. B. Dal Fabbro, in P. Rossi (a cura di), Opere di Jean-Jacques Rousseau, Sansoni Editore, Firenze 1972, pp. 1347-1349
Il prezioso far niente fu la prima e principale delle gioie che volli assaporare in tutta la sua dolcezza […]; sovente, certi di Berna, che venivano da me, mi trovarono arrampicato sopra i grandi alberi, con un sacco alla cintola che riempivo di frutti, per calarlo poi a terra con una corda. L’esercizio fatto di mattina e il buonumore a esso inerente mi rendevano assai gradita la quiete del desinare; ma quando questo si prolungava troppo e il bel tempo ci chiamava, non potevo attendere sì a lungo, e mentre si era ancora a tavola mi eclissavo per andare a mettermi in barca, che portavo in mezzo al lago, se le acque erano calme; qui, lungo disteso nella barca, con gli occhi al cielo, mi lasciavo andare lentamente alla deriva, a capriccio dell’acqua, talvolta per parecchie ore, immerso in mille fantasie confuse, ma piacevolissime, le quali, senz’aver nessun oggetto determinato o costante, non finivano di essere, a mio gusto, cento volte preferibili alle maggiori dolcezze che mai avessi provato in quelli che si chiamano i piaceri della vita. […] Quando si avvicinava la sera, scendevo dalle collinette dell’isola e andavo volentieri a sedermi in riva al lago, sul greto, in qualche asilo nascosto. Qui, dove lo strepitio delle onde e l’agitazione delle acque, occupandomi i sensi e scacciando dall’anima ogni altra agitazione, la immergevano in deliziose fantasie, tra le quali la notte mi sorprendeva sovente senza che io me ne fossi accorto. Il flusso e il riflusso delle acque, lo strepitio continuo, ma accresciuto a intervalli, senza tregua impegnandomi gli occhi e gli orecchi supplivano ai moti intimi che in me spegneva la fantasticheria, e bastavano per farmi sentire il gusto dell’esistenza, senza darmi la pena di pensare. Di tanto in tanto nasceva qualche debole, breve riflessione sull’instabilità delle cose di questo mondo, di cui la superficie delle acque mi offriva l’immagine; ma sùbito queste leggere impressioni si scancellavano nell’uniformità del moto continuo che mi cullava, e che senza nessun attivo concorso dell’anima non lasciava d’incatenarmi al punto che, chiamato dall’ora e dal segnale convenuto, non potevo allontanarmi senza uno sforzo.
Dopo cena, quando la serata era bella, andavamo ancora tutt’insieme a passeggio sul terrapieno, per respirarvi la brezza del lago e la frescura. Ci si riposava nel chiostro, si rideva, si discorreva, si cantava qualche canzone che valeva assai meglio delle odierne lambiccature, e finalmente si andava a dormire contenti della propria giornata, e non desiderando altro che il domani le fosse simile. […]
Tutto scorre in un continuo flusso sulla terra. Niente vi conserva una forma stabile e fissa, e i nostri affetti che ineriscano alle cose esteriori passano e mutano necessariamente com’esse. Sempre davanti o didietro di noi, esse rammemorano il passato, che ha cessato di essere, o prevengono il futuro, che sovente non ha da essere: non vi ha nulla di solido, cui il cuore possa aggrapparsi. Di modo che non si hanno, sulla terra, se non piaceri che passano; quanto alla gioia che dura, dubito che vi sia conosciuta. Appena appena nelle nostre gioie vivissime vi ha un istante in cui il cuore possa veracemente dirci: “Vorrei che quest’istante durasse per sempre”. E come potremmo chiamare gioia una condizione fuggevole, che ci lascia ancora vuoto e inquieto il cuore, che ci fa rimpiangere qualcosa prima, o desiderare ancora qualcosa dopo?