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Aldo Masullo - "L’idea di «tempo» alla prova del pensiero nichilista" (4/4)

Quarta lezione
Napoli, 13 marzo 2008
La salvezza dal tempo e il tempo come salvezza

 

Dopo aver osservato che la filosofia tende a pensare il tempo in forma rappresentativa, Masullo si interroga sulla differenza tra rappresentazione e presentazione. La rappresentazione è uno strumento tipico della teoresi greca, un modo di conoscere attraverso la visione, trasferita per ipotesi dal piano sensibile al piano intellettuale. Il presentarsi di una cosa così come essa è presuppone lo spogliarsi da ogni mediazione, la liberazione dalle rappresentazioni che ci offrono la cosa e che insieme ce ne nascondono la verità. Masullo nota quindi che pensare il tempo come rappresentazione significa implicitamente attendersi che il tempo sia destinato a rivelarsi com’è in sé e per sé, nella sua verità o nel suo essere. Ci si imbatte qui nell’abisso delle contraddizioni: come può il tempo coincidere con l’essere ed essere al contempo ciò in forza di cui l’essere viene spiegato? La conclusione nichilista risolve l’impasse concludendo che l’essere a garanzia dell’essere non può non essere altro che un non essere. Ne segue la negazione della temporalità, conseguenza più radicale dell’eredità eraclitea: non solo non vi sono gli enti, l’essere e la verità, ma il tempo e dunque la vita, nel suo essere coincidenza tra nascita e morte, è semplicemente un nulla. Masullo vaglia a questo punto l’ipotesi di pensare il tempo non come essere ma come pathos, modificazione accidentale che non distrugge la sostanza. La distinzione tra tempo storico e tempo messianico permette di cogliere questa possibilità: quest’ultimo infatti, tempo dell’attesa, è un arresto dell’accadere che non coincide con il nulla, ma che, come una bilancia in equilibrio dinamico, oscilla impercettibilmente restituendo in tale oscillare il proprio carattere vitale. In una certa misura, il tempo messianico compie un movimento uguale e contrario rispetto al tempo nichilista: l’uno completamente vuoto, l’altro completamente pieno, questi due tempi non si muovono. La differenza concettuale tra chronos e kairos permette di oltrepassare quest’apparente necessità del dissolversi del tempo empirico: il tempo della grazia, caro ai greci, permette l’irrompere del nuovo, l’inizio, la novità. Pensare il tempo come pathos, come suggerisce Nietzsche, permette di pensare il cambiamento all’interno del vivere di ognuno, un vivere provando che si distingue dalla vita biologica, e dal quale solo può nascere il pensiero.

  • Vincenzo Vitiello, Immagini del tempo, Napoli, 10-14 marzo 2003
  • Nicola Russo, Essere e verità da Hegel a Nietzsche, Napoli, 27 febbraio – 1 marzo 2012
  • Domenico Losurdo, Viviamo nell’epoca del nichilismo?, Napoli, 14-18 settembre 1998

Estratto dalla lezione

Riassumiamo: tutta la filosofia occidentale, quando tenta di produrre un’idea del tempo, non può che produrre una rappresentazione, quindi non può che identificare il tempo con una cosa, con un ente, sia pure un ente o cosa che scandalosamente ha la funzione di far sobbalzare e distruggere tutte le altre cose, l’essere stesso. A questo punto vorrei ricordarvi un passo di Nietzsche, che rappresenta un indice della direzione che possiamo prendere. Nietzsche, in uno dei frammenti postumi dell’’88-‘89, dice: “la volontà di potenza non è né un essere né un divenire, ma un pathos. È il fatto elementarissimo dal quale un divenire, un produrre, primamente derivano.” Finora non avevamo fatto altro che pensare il tempo come un ente o addirittura come l’essere, ma come un essere che distrugge e che si identifica con il non essere. Di qui non si può uscire fin quando restiamo nell’ambito della concezione rappresentazionistica, del concepire il tempo come una rappresentazione. Voi avete mai potuto rappresentarvi una emozione? Un dolore? Un desiderio? Un amore? Avete mai trovato una parola che possa essere il segno di una cosa che sarebbe l’emozione che voi avete provato? Al di qua del linguaggio, il patire. Nella letteratura novecentesca della seconda metà del secolo si è detto, anche sulla scia heideggeriana, che tutto è linguaggio, che tutto ciò che non si dice non è. Se prendiamo questa affermazione e ci diciamo: allora io stesso sono linguaggio? non c’è altro? Allora mi domando, ma al di qua del linguaggio c’è o non c’è, per esempio, il dolore? Quando voi avete un dolore, sia esso fisico o meno, lo potete ridurre a un fatto linguistico o no?

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