Franco Chiereghin si interroga nella lezione sul ruolo che la libertà e l’agire hanno all’interno del pensiero filosofico. La prima operazione consiste nel distinguere le specificità dell’analisi filosofica rispetto ad altri ambiti di indagine, altrettanto legittimati ad annoverare questi due concetti tra i propri pilastri fondanti. Allo scopo di individuare quella particolare postura intorno al pensiero, al tempo e alla vita, che prende il nome di libertà, Chiereghin si sofferma su quelle filosofie che hanno eletto la libertà a fondamento dell’intera speculazione filosofica. Dal confronto con il Fedone, Chiereghin giunge alla conclusione che ciò che muove il pensiero è la speranza: l’apertura socratica al canto è l’immagine in cui si dà la consapevolezza del destino musicale della filosofia, e insieme della condanna del logos a permanere segno che rimanda ad altro, impossibilità di conchiudersi in se stesso come qualcosa di assolutamente libero. Anche l’interrogazione sul principio della filosofia costringe al pensiero di una potenza non riconducibile a una forma, questa volta al di qua e non al di là della teoresi, ma questa assenza di determinatezza rischia di creare una frattura insanabile tra filosofia e vita. Le tre tappe dell’annientamento progressivo proposte da Schelling (distacco dall’essente, da sé, esperienza della totalità attraverso la nientificazione) sembrano confermare il tratto abissale che denuncia nella libertà l’assenza di forma. In Schelling tuttavia si dà anche una apertura alla possibilità che il principio non sia così indefinibile da non poter diventare per questo anche definito, così inafferrabile da non poter diventare anche afferrabile: il suo concetto positivo non sta allora nell’inafferrabilità, bensì nella possibilità di assumere una forma, sebbene momentanea. Heidegger insiste sulla difficoltà di sopportare l’abbandono di ogni cosa, che pure è possibile solo in virtù della libertà. È infatti dalla radicalità di questa esperienza negativa che può sorgere la libertà positiva. La filosofia si ridefinisce allora come un vero e proprio attacco alla totalità della vita umana, e in particolare come quella particolare disposizione affettiva che prende per Heidegger, sulla scia di Novalis, la forma della nostalgia. Il rischio però è a questo punto quello di pensare alla filosofia come a una malattia dalla quale non si può guarire. Al contrario, Hegel vede nella filosofia la possibilità di “essere presso se stessi”, vincendo ogni forma di estraneità e riconoscendo se stessi anche nella più radicale alterità. Il fine della filosofia sarebbe allora una impresa di salute, il tornare a dimorare presso se stessi. Nella filosofia come sapere assoluto la totalità dell’essere si trova in noi.
Dietrich von Engelhardt, Salute, malattia e morte nella filosofia e nella medicina del periodo romantico, Napoli, 7-11 aprile 2008
Lezione del 7 aprile
Lezione del 8 aprile
Lezione del 9 aprile
Lezione del 10 aprile
Lezione del 11 aprile
Estratto dalla lezione
In definitiva, nel movimento in cui la filosofia muove all'attacco della vita, si configuri essa come preparazione alla morte, come voleva Platone, solitudine e abbandono da tutto e da tutti, come voleva Schelling, nostalgia della totalità dell'essere come voleva Novalis, ripreso da Heidegger, o possesso e godimento di questa totalità medesima, come vuole Hegel, ciò che è in questione è sempre l’essenza della libertà di ciò che l'uomo può compiere agendo grazie ad essa. Da ciò risulta che la libertà e l'agire non sono affatto concetti che delimitano un ambito particolare studiato da una delle tante discipline filosofiche, ma sono concetti che chiamano in campo la filosofia in quanto tale, sono cioè concetti fondamentali della filosofia nella sua totalità. Questo era stato ben compreso dai pensatori della filosofia classica tedesca, nonostante la diversità delle posizioni speculative: la libertà viene presentata da Kant come la chiave di volta del sistema della ragion pura, come fondamento ultimo dell'idealismo di Fichte; Hegel erige la filosofia stessa a scienza della libertà; essa viene presa da Schelling non come una proprietà che presuppone un soggetto distinto ed indipendente, ma come l'essenza stessa del principio della filosofia, che non è nulla al di fuori dell'eterna libertà. Eppure, in ognuno di questi pensatori la libertà, quasi a testimoniare l'incoercibilità della sua natura, conduce ad esiti differenti e a contrasti laceranti. Al fondo di ognuno dei percorsi di pensiero che essi hanno compiuto, sta comunque sempre una risposta determinata a quella che Kant considera la domanda fondamentale della filosofia: “che cos'è l’uomo?”. Kant stesso compie un primo tratto di strada quando riconosce che per trovare l'esercizio vero e proprio della libertà bisogna guardare all'uomo non solo quando è sensibilità, né quando è solo ragione, ma unicamente laddove egli sussiste come personalità, vale a dire come un essere razionale responsabile delle proprie azioni.