Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Francesco Aronadio - Anticorpi

22 marzo 2020

«Non vorrei essere al posto dei decisori», mi ha detto l’amica Fiorinda quando, telefonandomi per invitarmi a scrivere queste righe, abbiamo, inevitabilmente, parlato della situazione che sta vivendo il nostro Paese.

In effetti, l’emergenza imposta dal diffondersi del COVID-19 costringe le nostre autorità governative a scelte che definire difficili è davvero poco, e non solo per l’impossibilità, di fatto, di garantire in modo assoluto l’efficacia sanitaria di fronte a un fenomeno che si sta ancora imparando a conoscere nelle sue diverse facce, ma anche perché si tratta di decisioni che hanno un profilo molto molto ampio.

Si tratta di decisioni che il Governo non avrebbe assunto in una situazione non emergenziale: decisioni che sospendono alcuni diritti fondamentali, quei diritti che sono sanciti dalla nostra Costituzione. Decisioni giuste, beninteso. (Se ne potranno discutere, forse, alcuni aspetti applicativi, ma non v’è dubbio che, nello spirito se non in ogni lettera, si tratti di decisioni giuste.)

Sono scelte necessarie, necessarie perché necessitate: a esse siamo costretti dall’emergenza. Sono scelte simili a quella che deve compiere un comandante di una nave in tempesta che sa che l’unico modo per salvare gli esseri umani a bordo è gettare in mare il carico di merci. O simili a quella di fronte a cui si troverebbe chi fosse costretto a macchiarsi di un reato da qualcuno che tiene in ostaggio i suoi cari e minaccia di ucciderli.

I lettori di Aristotele avranno riconosciuto questi esempi: sono quelli da lui formulati nell’Etica Nicomachea (III, 1) per descrivere un particolare tipo di azioni, che etichetta come “miste”. Di esse Aristotele ci dice che considerate haplos, vale a dire semplicemente per sé stesse prescindendo dalle circostanze, non sarebbero state compiute, sarebbero assurde: se ci mostrassero l’istantanea di un comandante di nave commerciale che rinuncia all’onore e al guadagno buttando in mare il suo carico, diremmo che lo ha fatto perché impazzito. Considerate, però, nel contesto in cui sono compiute, quelle azioni risultano deliberate, sono frutto, per così dire, di un calcolo razionale. E a maggior ragione, lascia intendere Aristotele, sono hekousia, parola greca che non ha un equivalente in italiano, ma che in sostanza vuol dire che quelle azioni fanno capo a noi, che di esse, sia pure nolenti, siamo stati causa efficiente. Ci sono cose che sono eph’hemin, che sono up to us, che rimontano a noi e ci chiamano a una scelta: per quanto dolorosa possa essere la deliberazione all’origine di tale scelta, dell’azione che ne consegue siamo comunque artefici noi.

Ora, sono chiare le differenze fra le scelte implicate dagli esempi aristotelici e quelle governative di cui parlavo: a differire, ovviamente, sono innanzi tutto le rispettive dimensioni, individuale, da un lato, e politica, dall’altro. Ma, nonostante ciò, ci sono due aspetti delle considerazioni di Aristotele sulle azioni miste che mi aiutano a guadagnare una prospettiva ulteriore sull’attuale.

Il primo aspetto riguarda il fatto che, come dice Aristotele, anche le azioni sotto costrizione, come del resto tutte quelle hekousia, si espongono alla lode o al biasimo, proprio in quanto sono azioni delle quali l’agente è fattore causale, sia pure, per così dire, obtorto collo. Ebbene, lo stesso può dirsi per l’azione compiuta in questi giorni dal Presidente del Consiglio o da uno dei Ministri o da uno dei Governatori di Regione nel momento in cui firmano misure restrittive. Ebbene, questo esporsi alla lode o al biasimo delle attuali scelte di governo, a livello centrale o regionale o altro, mette in campo il tema del consenso.

È, questo, un tema collaterale rispetto all’emergenza sanitaria, ma non meno importante. Dobbiamo essere consapevoli che, affinché non si sfaldi il nostro tessuto sociale e politico è necessario che le scelte siano sorrette da una buona dose di consenso. E in un sistema democratico la formazione del consenso passa e deve passare attraverso un (faticoso ma essenziale) meccanismo di mediazioni (mediazioni relative ai vari livelli istituzionali, ai canali di informazione giornalistica, a organizzazioni sociali quali gli organismi di categorie o i sindacati e tutti i cosiddetti corpi intermedi). In questo momento, in cui molti aspetti del nostro consueto vivere associato sono sospesi (al punto che una fotografia dell’Italia scattata in questo istante non ce la rappresenterebbe come una democrazia), è tanto più necessario che, per quanto ridotti o riconvertiti adattandoli alla circostanza, gli spazi fondamentali dove si esercitano e si svolgono queste mediazioni restino attivi. È necessario far sì che questi spazi continuino a essere abitati, senza, naturalmente, mettere a rischio la salute dei singoli ma avendo chiara la mira di lasciare che il loro compito istituzionale sia svolto, sia pure lasciando integra la capacità di intervento immediato da parte degli organi di governo a livello centrale e regionale. Mi riferisco al Parlamento, certo, ma anche agli altri organismi prima menzionati: è bene che essi continuino a svolgere le loro funzioni e che a essi sia data voce anche nella comunicazione, affinché tutti noi si sappia che, per quanto sotto attacco, il tessuto politico, nel senso alto e lato, regge.

Il secondo aspetto riguarda l’affermazione di Aristotele secondo cui nessuno commetterebbe quelle azioni turpi portate come esempio di azioni miste, se considerate haplos, semplicemente per sé stesse. A quelle azioni ho appaiato le scelte governative attuali, e di esse si dovrebbe dire che in circostanze normali nessuno le assumerebbe. Eppure, la situazione che stiamo vivendo non ci risparmia una preoccupazione: siamo davvero sicuri che nessuno le assumerebbe a prescindere da circostanze eccezionali come il COVID-19? La sospensione delle libertà individuali e di alcuni diritti fondamentali (oggi – sia ben chiaro – indiscutibilmente necessaria perché necessitata) non è tuttavia uno scenario politico che non conosciamo e che non si sia già concretizzato nella storia anche recente.

L’enorme rischio connaturato alle scelte attuali è che il concentrarsi sull’emergenza sanitaria lasci liberi spazi a tentazioni di demagogico autoritarismo. E se per l’aspetto precedente a reggere dev’essere il tessuto del sistema democratico, per questo, invece, la speranza è che a reggere sia la coscienza politica dei cittadini, di ciascuno di noi: come è nella responsabilità di ciascun individuo rispettare le norme di distanziamento personale per fronteggiare l’emergenza sanitaria, così è altrettanto nella responsabilità di ciascun cittadino e di ciascuna compagine di cittadini rispettare le norme che sostanziano la nostra convivenza civile, respingere ogni tentativo di scorciatoia antidemocratica ed essere individualmente orientati al bene comune.

Il bene comune primario è in questo momento la salute dei malati, ma non è e non deve essere esclusivo. È necessario adoperarsi, ciascuno e tutti, affinché il contagio, che dall’ambito sanitario si è già e inevitabilmente esteso al mondo produttivo ed è diventato contagio economico, non diventi anche contagio politico e non finisca per minare la salute della nostra democrazia. Ho una speranzosa fiducia che il nostro Paese abbia ancora una riserva di anticorpi per contrastare questa possibile malattia. Ma se ho scritto queste righe è perché credo che solo una diffusa consapevolezza del rischio di un contagio politico sia la premessa affinché quella speranzosa fiducia divenga, per tutti, una fiduciosa speranza.

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