Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Intervista a cura
di Mattia Di Pierro
5 maggio 2020

 

D: La pandemia che sta colpendo il mondo intero ha sconvolto il modo di vivere individuale e collettivo. Quali strumenti ha la filosofia per comprendere, quali categorie possono esserci utili? 

R: Devo ammettere, innanzitutto, di essermi sentita a disagio di fronte al moltiplicarsi di discorsi filosofici, o che si ritengono tali, sulla situazione presente. Mi sono rifiutata parecchie volte di intervenire in trasmissioni radiofoniche o di rispondere a domande che sarebbero poi state pubblicate sui giornali e sui social media. Oggi, a due mesi di distanza dall’inizio del lockdown, e a poche ore dal tentativo cauto di riapertura, ho accettato di rispondere alle tue domande. Anche solo per manifestare il mio disagio. Non nascondo che ho letto con molto più interesse articoli di scienziati, di medici, di economisti, pur sapendo che la scienza medica e la scienza economica sono saperi assolutamente coinvolti nei ‘giochi’ di verità e di potere. 

Questo non vuol dire che non riconosco alla filosofia, o meglio al pensiero, la funzione radicale della riflessività sugli eventi e sulle cesure che gli eventi imprimono sul corso delle cose. Anzi, continuo a ritenerlo il suo compito specifico. Credo, tuttavia, che ci sia stata una certa precipitosità, sia da parte dei miei colleghi, nel mettere in campo categorie già in uso per cercare di comprendere il nuovo che stava e sta accadendo, sia da parte di un certo pubblico di lettori nell’abbracciare interpretazioni generali. 

D: Possiamo parlare di “limiti” della filosofia contemporanea che questa pandemia potrebbe costringere a discutere o a superare?

R: Di conseguenza, vedo dei limiti in molte delle categorie impiegate per spiegare il tempo che stiamo vivendo. Soprattutto mi pare di scorgere confusioni. Premetto che sono la prima ad essere confusa e a non avere le idee chiare. Per questo non ho mai voluto azzardare sintesi teoriche sul tempo presente. La mia impressione è che oggi non colgano nel segno né le critiche che partono dagli assunti della filosofia politica liberale – centrata sulle idee di libertà e autonomia individuali – né i concetti mobilitati da alcune delle filosofie radicali, che ricadono nelle solite ‘prediche’ contro la tecnica e la scienza, in quanto forme di sapere potenzialmente totalitarie, qualora utilizzate dalla politica. E forse non è un caso che liberali-liberisti e ‘apocalittici’ heideggeriani o tardo-adorniani – per i quali tutto è “sistema di dominio” – finiscano per firmare gli stessi appelli o sostenere le stesse accuse di autoritarismo. Certo che l’autorità dei discorsi scientifici, la tracciabilità dei dispositivi tecnologici, la sospensione della libertà di movimento, di lavoro e di produzione dichiarate dall’emergenza sanitaria sono misure su cui vigilare con attenzione. Ma questo non può significare che Macron sia uguale a Orban o che Conte sia uguale a Putin. O che tutti questi stiano percorrendo la china scivolosa che li porterà dritti a Hitler. È ridicolo! Non possiamo dedurre come in un teorema matematico che, data la dichiarazione dello stato d’emergenza, questa dichiarazione sia lo strumento subdolo che mentre offre ‘cura’ e protezione, ci riduce a sudditi obbedienti e passivi. Non possiamo lamentare che le nostre vite siano ridotte a ‘nuda vita’ solo perché per otto settimane ci viene chiesto di rimanere in casa! È offensivo nei confronti di coloro che davvero hanno avuto le loro vite spogliate di ogni diritto e di ogni forma. Che ogni forma di potere sia pericolosa, come diceva Michel Foucault, non significa che sia già in sé il male. Credo sia questo il grande equivoco di alcune diagnosi filosofiche delle ultime ore, dovuto innanzitutto all’impulso di applicare il proprio sistema categoriale ‘in uso’ a eventi ‘nuovi’, dovuto a quella malattia professionale, bimillenaria, della filosofia di non lasciarsi mai toccare fino in fondo dall’indeterminazione del reale.

D: La nozione di biopolitica, in particolare, ha avuto un ruolo di primo piano in una parte importante della filosofia contemporanea. Qual è la sua utilità oggi?

R: Non c’è categoria più appropriata per definire la politica dei nostri ultimi mesi. Tuttavia, lo ripeto, penso che siano “troppo teoretiche”, nel senso di astratte dalla complessità reale, quelle analisi che vedono nelle misure prese dall’Italia, e a seguire dagli altri paesi europei, la messa in atto di un governo delle condotte, per usare l’espressione foucaultiana, di una biopolitica estrema che distrugge il legame sociale e che conduce ad una “società del controllo”, o a un “sistema del dominio”, regimi cioè discriminatori, liberticidi e al contempo omologanti. Ancora più “astratte” mi sembrano le accuse mosse a questo governo di aver sovranamente deciso sullo stato d’eccezione per portare ad un ordine che sospende le libertà costituzionali. 

Ma davvero il pericolo della pandemia serve a legittimare, intensificare e prolungare quello stato d’eccezione che nelle nostre società contemporanee avrebbe ormai da tempo preso il posto dello stato di diritto? Davvero la pandemia sta realizzando ciò che la sua etimologia operativamente promette: fare dei cittadini un Popolo-Tutto, un Popolo-Uno, dalle condotte uniformi. (pan/tutto, dēmos/ popolo); un insieme – controllato, normato e disciplinato attraverso l’isolamento – dal quale estromettere i possibili ‘untori’ e coloro che non potrebbero comunque essere salvati dal contagio; o coloro che economicamente affogheranno? 

D: Si dice spesso che questo virus abbia svelato i limiti della globalizzazione. Di fronte alla paura del contagio riemergono tendenze di isolamento nazionale, desiderio di ripristinare i confini e chiudere la comunità per preservarne la salute. La stessa Unione Europea sembra posta davanti a un bivio: modificarsi radicalmente o soccombere a un ritorno dei nazionalismi. È d’accordo con un’analisi di questo genere? Quali pensa siano i pericoli che il virus pone alla democrazia?

R: Ciò che vedo, al momento, pur continuando a credere nella capacità esplicativa della categoria di biopolitica, è piuttosto una pandemia che, invece di produrre l’allineamento dei poteri per chiudere il cerchio di una totalità, rischia di scatenare letteralmente un pandemonium. Vale a dire un conflitto tra poteri, che lungi dall’accordarsi per fare sistema, continuano pericolosamente a farsi la guerra. Innanzitutto, c’è un’Europa ancora nel caos. Un Nord Europa che finge di non capire qual è la posta in gioco e, forse, un’Europa mediterranea che gioca male le carte della propria occasione. C’è il governo in lotta coi poteri locali delle regioni. Ci sono i comuni che litigano sia con le regioni sia con il governo. Ci sono capi di stato che approfittano della pandemia per chiudere i confini e altri bloccati nelle loro scelte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli scienziati, gli esperti e i governi messi sotto pressione dalle industrie e dal potere finanziario. Imprenditori in lotta non solo contro i sindacati, ma anche con i decreti delle regioni e del governo e soprattutto con il rischio di risalita di propagazione del virus. Ci sono gli amministratori degli ospedali che lottano coi medici, e i medici che si scontrano con il potere delle burocrazie pubbliche. Ci sono le minoranze politiche che usano il pericolo della recessione per destabilizzare i governi. Ci sono forze ancora governative, ma con future prospettive di opposizione, che minano dall’interno l’unanimità con cui prendere decisioni difficili. 

E alla fine ci siamo noi, spaventati dalla presa d’atto, che arriva dopo il diniego e la rabbia, che questa non è una normale influenza. C’è la maggior parte di noi, è vero, che chiede a tutti questi poteri insieme di tutelare la nostra salute e la nostra vita e al contempo la ripresa di una vita normale. C’è pure chi, tra noi, a volte pericolosamente sogna che questo pandemonio finisca, anche al prezzo dell’assunzione dei pieni poteri da parte di qualcuno. Insomma, sì, tutti i rischi che tu enunci sono all’ordine del giorno. Tuttavia in questo momento vedo governance, sia nazionali, sia europee, che non riescono a governare, che falliscono nell’agire in maniera davvero ‘ordinativa’.

D: Dopo la fine della prima fase, caratterizzata dall’allontanamento sociale, si profilano ancora mesi in cui la libertà di tutti sarà drasticamente limitata. Come giudica questi provvedimenti? 

Ho scritto in passato di come sia proprio questo nostro profondo desiderio di essere salvati l’aggancio che dal basso viene offerto alla presa stretta dei poteri. Sono convinta che sia la nostra ‘volontà di vita’ ad ogni costo a fare da supporto alla ‘volontà di potere’ che può giungere dall’alto. Tuttavia, oggi, in questa inedita situazione, il quadro si complica. Non c’è un nemico che intenzionalmente vuole ridurre la nostra libertà. Del resto, la maggior parte di noi non si è attenuta alle regole solo perché ha ceduto alla servitù volontaria dello scambio obbedienza/protezione, non ottempererà al prolungamento delle restrizioni sanitarie solo per non ammalarsi e vivere il più a lungo e meglio possibile. Abbiamo osservato e osserveremo la quarantena, il distanziamento sociale e l’isolamento domiciliare non tanto per la forza del disciplinamento e delle sanzioni. Ma perché forse, da qualche parte, sappiamo che conformarci a queste norme è l’espressione che oggi assume la forma di una nuova solidarietà e del riconoscimento della dipendenza degli uni dagli altri. Perché forse esse sono il tentativo non solo di salvare se stessi, ma di non essere di danno agli altri. 

D: Cosa pensa invece dell’idea per la cui la pandemia possa rappresentare un’opportunità per ripensare le nostre società?

R: Sinceramente non lo so. Possiamo tuttavia sperarlo: sperare che l’Europa, anche per lungimiranza e non solo per principio, diventi davvero l’insieme dei cittadini e delle cittadine europei; sperare che il senso dell’essere-in-comune si costituisca sulla base della condivisione delle nostre fragilità e vulnerabilità e non delle nostre singole volontà di potenza; sperare che a tutti diventi chiaro quali sono i limiti di questo assurdo turbine di capitale finanziario e capitale umano. 

Mi sento un po’ come Zero Calcare, divisa tra cinico realismo e compassione per gli animali umani; divisa tra l’idea che non appena i momenti più critici saranno alle nostre spalle ritorneremo come e peggio di prima, e l’idea che il ricordo di quella comunità degli isolati e degli spaventati che si esprimeva dai balconi e dalle finestre si sia impressa in maniera struggente nelle nostre memorie. 

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