Archivio delle attività

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Prima lezione
Napoli, 27 giugno 1994
Condizioni di pensabilità di una filosofia della storia

 

Il seminario interroga la possibilità di una filosofia della storia nell’età contemporanea, tempo in cui sembra impossibile credere in un senso complessivo degli eventi. Lungi dall’indagare le ragioni di tale sfiducia, Bodei si chiede quali siano le condizioni di pensabilità di una filosofia della storia e, contestualmente, se tali condizioni siano sempre state le stesse o se il dispositivo ermeneutico cambi con i tempi. Attraverso una ricostruzione del tema a partire dalla storiografia greca e romana, Bodei conferma l’invenzione relativamente recente di un’unica storia su base razionale il cui carattere narrativo restituisce gli eventi nella forma della sequenza o del concatenamento. La struttura della fiaba viene assunta a griglia interpretativa per l’esame delle filosofie della storia: occorre che vi sia un protagonista che abbandona le certezze pregresse, attraversa peripezie e infine trionfa. L’elemento di casualità che segna l’avvio della narrazione trova in Vico un importante fondamento teorico, che favorisce la ritualizzazione del caso sulla provvidenza. Tale ordo non è razionale, bensì immaginativo: è solo in seconda battuta infatti che le istituzioni vengono stabilizzate. Ne segue che la storia non ha senso in virtù di una logica interna, bensì a partire da una struttura, di per sé arbitraria, che trova nel mito, nel rito, nei costumi e nel diritto la propria stabilizzazione. Un’altra strada possibile per dare senso alla storia senza ricorrere a forze extraumane è quella di legarla a qualcos’altro, come accade nel modello anaciclico di Polibio: gli uomini del suo tempo hanno una storia comune grazie alla struttura politica di Roma, che permette loro di comunicare. Tale primato, dato dal caso, è destinato al tramonto: ne segue un velo di malinconia, conseguenza della consapevolezza del continuo capovolgersi della ruota della fortuna.

Frammento sulla moderazione di Scipione, Polyb. XXXVIII. 21-22

Scipione vedendo ridotta ormai all’estrema rovina la città di Cartagine, pianse apertamente, si dice, per i nemici. A lungo egli rimase meditabondo, considerando come la sorte di città, popoli, domini, vari come il destino degli uomini: ciò era accaduto ad Ilio, città una volta potente, era accaduto ai regni degli Assiri, dei Medi e dei Persiani, che erano stati grandissimi ai loro tempi, e recentemente al regno macedone. Infine sia volontariamente, sia che tali parole gli siano sfuggite, esclamò: “Verrà un giorno che il sacro iliaco muro e Priamo e tutta la sua gente cada”. Polibio che gli era stato maestro e gli poteva parlare liberamente, gli chiese che cosa egli volesse significare con queste parole e allora Scipione senza reticenza nominò la patria, per la quale temeva considerando la sorte degli uomini. Ciò riferisce Polibio, avendolo udito con le sue orecchie.

Polibio, Le storie. Volume III, a cura di C. Schick, Mondadori, Milano 1955, p. 253.

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