D. Vittorio Hösle, un filosofo di fama internazionale, è un grande amico dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Lo ha frequentato, ne ha animato la vita per molto tempo, fin da quando era un ragazzo, ed è stato molto vicino a Gerardo Marotta. Attualmente Vittorio insegna presso l'University of Notre Dame, negli Stati Uniti, dove vive con la sua famiglia. Ha accettato di collegarsi con noi via Skype, e di rispondere ad alcune domande legate all'attuale pandemia.
Caro Vittorio, le società, nel tempo storico che conosciamo, sono state attraversate da grandi momenti di crisi; oltre alle guerre, direttamente legate all'agire degli uomini, le carestie, le catastrofi naturali, le epidemie. Con quali risorse di senso erano affrontate queste crisi – in particolare le epidemie – nelle società tradizionali, e quali risorse di senso siamo in grado di mobilitare oggi?
R. Vorrei affrontare il paragone dei due periodi con un problema meramente pragmatico. Senz'altro una cosa positiva è che possiamo imparare dagli errori del passato. La più grande pandemia del XX secolo è stata la Spagnola, che, nonostante il suo nome, ebbe origine negli Stati Uniti e non in Spagna. Fra il 1918 e il 1919 essa uccise dai 25 ai 50 milioni di persone, un numero di morti superiore a quello dei caduti della Prima Guerra mondiale. Sicuramente uno dei motivi per cui tanta gente morì è che non si conosceva la causa della malattia, si pensava fosse un batterio, mentre invece era, come nel caso attuale, un virus. Inoltre le persone erano confinate in luoghi molto angusti a causa dello sforzo bellico, erano sfinite dalla fame e dalle limitazioni. Tutto questo evidentemente aumentò il numero dei morti. Noi per fortuna non siamo in questa situazione e possiamo imparare dal passato, persino dal passato prossimo, perché da quando c'è questa epidemia – i primi casi, lo sappiamo, non risalgono a gennaio 2020, ma a dicembre, a Wuhan, in Cina – diversi paesi hanno reagito in maniera molto differente. E questo porta anche a risultati molto differenti per quanto riguarda il tasso di letalità della malattia. Purtroppo l'Italia oggi è il paese con il secondo numero di morti, dopo la Cina, anche se la Cina ha un numero di abitanti venti volte superiore e l'epidemia vi si è manifestata molto prima. È molto probabile che presto l'Italia sarà il paese con il maggior numero di morti [infatti, ora che rivedo l'intervista dopo pochi giorni, ciò è già avvenuto]. D'altra parte la Corea del Sud, dove è nata mia moglie, è il paese che è riuscito, sebbene avesse all'inizio, dopo la Cina, il maggior numero di casi di corona-virus, a limitare il numero dei morti a circa 80, finora. Quali sono le lezioni che possiamo apprendere da questo passato prossimo?
Un primo punto, importantissimo, è relativo alla trasparenza. Un fatto sicuramente inaccettabile è che il governo cinese per diverse settimane abbia tentato di nascondere l'epidemia. I dottori che la scoprirono a Wuhan vennero intimiditi dalla polizia, fu loro imposto di non parlarne. Il primo medico che analizzò il fenomeno contrasse l'infezione e morì. La trasparenza è assolutamente decisiva, però occorre aggiungere che la trasparenza non deve andare a scapito delle misure prese dallo Stato. Io personalmente credo che il maggior errore fatto in Italia è che quando il governo ha deciso di dichiarare tutto il Nord “zona rossa” la notizia è trapelata e ha raggiunto i mass media, cosicché migliaia e migliaia di meridionali che vivono a Milano sono fuggiti nel Sud. Meglio sarebbe stato dichiarare subito “zona rossa” tutto il paese e impedire questi viaggi, perché verosimilmente questa fuga ha aumentato l'espansione del virus nel Meridione d'Italia, e come sappiamo le strutture infermieristiche e mediche in Italia meridionale sono inferiori a quelle del Nord. In questo senso, se il numero di infezioni raggiungesse qui il livello dell'Italia settentrionale la mortalità sarebbe ancora maggiore. Dunque ci vuole una mescolanza di trasparenza e di capacità da parte della politica di prendere provvedimenti rapidamente e in maniera riservata: nel caso si decida di mettere in quarantena un'area, questa decisione deve essere presa segretamente e poi eseguita velocemente, per evitare che il comportamento delle persone limiti l'efficacia di queste misure. Molti aspetti di quanto sta accadendo ci richiamano alla mente la grande descrizione della peste offerta da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, dove si narra come molte persone fuggissero da Milano a causa della peste sperando di evitare la morte, ma come l'unica cosa che riuscissero a fare era espandere la malattia nei luoghi dove arrivavano. Si verificano dunque oggi alcuni fenomeni simili a quelli che si produssero nel passato; ma c'è anche una conoscenza virologica ed epidemiologica relativa alla maniera in cui una pandemia si diffonde molto superiore a quella dei tempi passati. Per questa ragione sono ottimista: non avremo una situazione paragonabile a quella della Spagnola.
Arrivando finalmente alla domanda sulle risorse di senso, probabilmente per il nostro tempo è più difficile accettare una calamità come quella provocata dal coronavirus. Nel mondo premoderno le calamità erano parte della vita normale, anche perché ogni generazione ne affrontava varie, e si sapeva che ciò fa parte dell'esistenza umana. Per noi è più difficile, per la mia generazione è la prima volta che si limita la libertà di movimento come sta accadendo in questi giorni. Fra l'altro, in queste settimane è riaffiorato in me il ricordo di mia nonna che nel '19 ebbe essa stessa la Spagnola e quasi morì. Mi raccontò spesso della sua esperienza di questa terribile malattia, mi disse che nella strada dove viveva c'era una famiglia di un medico molto rispettato a Milano: morirono sua moglie e tutti i loro numerosi bambini, e il suo consistente patrimonio fu lasciato a un orfanotrofio.
Anche se naturalmente le vittime di ogni calamità – sia una guerra, sia una carestia, sia un'epidemia – non sono mai individualmente responsabili per ciò che accade, si può forse tentare di trovare un senso nel riconoscere nell'epidemia anche una reazione della natura a fenomeni che magari non sono tanto ragionevoli. Si possono avere ad esempio dei dubbi su alcuni aspetti della globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, chiederci se essi siano positivi. Evidentemente la globalizzazione ha portato all'estendersi di questa malattia. Il fatto che ora possiamo e dobbiamo viaggiare molto meno è una cosa non solo negativa: farà bene all'ambiente, l'emissione di CO2 in Cina nell'ultimo mese è diminuita più del 20%, e questa è una buona notizia; magari questa crisi ci aiuterà a non ricadere subito nei soliti modelli di consumo dopo che la crisi sarà finita, ma a riflettere che una vita più scarna e più modesta, che usa meno energia e che è meno mobile in un senso assurdo può essere più a misura d'uomo. Questa è la mia speranza, questo è il senso che io trovo in questa calamità, anche se so benissimo che per le persone che stanno morendo – e purtroppo muoiono quasi tutti isolati dai loro cari, che non possono nemmeno visitarli nelle ultime ore negli ospedali – questa consolazione è molto astratta. D'altra parte come filosofi dobbiamo cercare di vedere quale potrebbe essere il senso universale di un evento di questo genere.
D. Grazie Vittorio. Con le tue parole hai in parte anticipato la domanda che pensavo di porti ora. Ci sono elementi a tuo avviso per considerare l'attuale pandemia come una crisi sistemica (con riguardo in particolare alle problematiche connesse all'ecologia) e come un cambiamento destinato a fare epoca (dall'economia fino agli stili di vita)?
R. Evidentemente l'evento è connesso a vari aspetti dell'attuale situazione mondiale. Naturalmente le pandemie ci sono state anche prima. La peste del Medioevo europeo, ad esempio, venne dall'Oriente – la parola quarantena deriva dal fatto che proprio per questa ragione i Veneziani non permettevano di sbarcare per quaranta giorni alle navi provenienti dall'Oriente. L'espansione di malattie, soprattutto nel continente eurasiatico, dove non ci sono oceani che dividono i paesi, è stata cosa ben nota all'umanità. Ma tutto questo è fortemente accelerato dalla globalizzazione. La Spagnola non era limitata al continente eurasiatico, ma già all'inizio del XX secolo era una pandemia che si trovava in tutti i continenti (tranne l'Australia, che si protesse con una quarantena rigorosa). Anche quella di oggi è una pandemia. La grande preoccupazione è che mentre i paesi europei, o gli Stati Uniti d'America, o il Giappone o la Corea riescono a trattare i malati e a limitare la mortalità grazie alle loro forti infrastrutture, è molto improbabile che i paesi africani riusciranno a farlo se la malattia arriverà anche da loro. Dunque vediamo che da una parte la malattia è connessa al fenomeno della globalizzazione, ai continui viaggi fra i continenti, ma dall'altra che essa porta allo scoperto le enormi diseguaglianze, le disparità che ancora sussistono, nonostante la globalizzazione. E ciò è un fenomeno preoccupante. Sicuramente la malattia porterà a una recessione mondiale, ciò è inevitabile, poiché moltissime attività economiche sono state fermate nelle ultime settimane e non sappiamo quanto questo stato durerà – i pessimisti pensano che possa protrarsi per due anni, ma forse in estate la situazione sarà meno pressante. Anche la Spagnola ebbe tre ondate, nella primavera e nell'autunno del '18 e poi nella primavera del '19, e in verità piccole ondate continuarono a ritornare negli anni Venti. Per esempio il sociologo Max Weber morì della Spagnola nel giugno del 1920, cioè in una delle piccole riprese successive. Convivremo a lungo con questo problema, che del resto era stato predetto correttamente come una possibilità molto reale da virologi ed epidemiologi. Che cosa questo significhi per i cambiamenti che potranno subentrare dopo è una questione molto interessante; ci si può chiedere se la gente vorrà riprendere le abitudini di consumo sfrenato che ci caratterizzava prima della crisi, se tutto ciò che abbiamo risparmiato, per esempio in termini di CO2 buttato nell'atmosfera, verrà perso nel corso di pochi mesi. Ma può anche darsi, e questa è la mia speranza, che si rifletta sulla possibilità di limitare i viaggi superflui, proseguendo nei rapporti virtuali fra gli individui, come nel caso della nostra conversazione. Una bella cosa nel mondo attuale è che, anche se non posso più venire a Napoli, posso parlare con i miei amici napoletani, per Skype posso sentire la loro voce, posso vederli, tutto questo è un fattore che può portare a intelligenti limitazioni dei viaggi e delle attività economiche non sensate.
D. Rimanendo su questo piano di considerazioni, e però spostandolo sul versante geopolitico, ti vorrei fare una domanda che ricavo da un intervento in rete di Roberto Buffagni. Abbiamo visto in questi mesi approcci distinti al problema del diffondersi del virus e delle sue conseguenze sulla salute pubblica. Quanto lo stile strategico di gestione dell'epidemia rispecchia l'etica e il modo di intendere l'interesse nazionale e le priorità politiche degli Stati? In particolare nel passaggio dalla Cina e dalla Corea del Sud, che hanno in ogni caso approcci molto diversi, per arrivare all'Europa e poi agli Stati Uniti?
R. Da una parte mi sembra cruciale riconoscere che una malattia pandemica per la sua propria natura può essere superata unicamente con una collaborazione internazionale. Sarebbe una catastrofe se la crisi attuale portasse non solo a una chiusura temporanea delle frontiere, che è sensata perché non si vuole che il virus venga trasmesso ad altri paesi, ma anche a una chiusura mentale delle frontiere e a una incapacità di collaborare a livello internazionale, sul piano della World Health Organization. Allo stesso tempo hai ragione nel dire che la maniera nella quale i vari paesi reagiscono alla crisi risente di culture molto diverse. Non si può semplicemente parlare di differenze di culture distanti paragonate alla nostra, perché la Cina e la Corea, che sono paesi vicini, hanno trattato la crisi in maniera completamente diversa. La Cina, come dicevo all'inizio, ha tenuto nascosta l'esplosione dell'epidemia per quasi un mese e ha fatto con ciò grandi danni alla propria popolazione; però poi ha usato la forza di uno Stato autoritario o totalitario nel rafforzare le misure pubbliche ed eseguire una quarantena intorno a Wuhan, nella provincia di Hubei, che ha sicuramente limitato l'espandersi della malattia. In Corea la trasparenza c'è stata dall'inizio e allo stesso tempo lo Stato è riuscito a emarginare l'espandersi della malattia con mezzi molto ragionevoli e basati su una politica del rispetto dei diritti umani. Hanno offerto alle persone la possibilità di sottoporsi al test e hanno preso al tempo stesso una misura molto saggia, a mio avviso: le persone che mostravano di essere positive, ma non erano in una situazione grave, non sono state messe in quarantena a casa – ciò sarebbe inevitabilmente andato a danno dei membri più anziani della famiglia –, ma sono state accolte in luoghi speciali, ben divisi dagli ospedali, i quali a loro volta non sarebbero stati in grado di accettare tutte queste persone.
D'altra parte secondo me, come ho già detto, in Italia c'è stata all'inizio una certa ingenuità e una chiara violazione dei provvedimenti relativi alla zona rossa, con tutte le persone che sono scappate con gli ultimi treni dal Nord al Sud. Ciò è stato sicuramente controproducente e ha contribuito all'alta mortalità. Sicuramente la mortalità ha anche a che fare, in Italia, con il fatto che i suoi abitanti hanno un'età mediana molto elevata, maggiore di quella di altri paesi europei, eccetto forse la Germania. Non dimentichiamo però che il Giappone, che è il paese con l'età mediana più alta del mondo, ha avuto relativamente poche vittime.
Non può essere tuttavia solo l'età mediana elevata a spiegare l'elevato numero dei morti in Italia. Non dobbiamo dimenticare, quando parliamo delle vittime di questa epidemia, è che ci sono vittime non dovute al coronavirus, ma all'epidemia del coronavirus. Cosa voglio dire? Ci sono molte persone che non hanno il coronavirus, ma non possono, per esempio, essere operate perché non ci sono più posti negli ospedali, esse muoiono a causa di altre malattie, che risultano fatali proprio perché non ci sono più posti a causa del coronavirus. Ciò aumenta il numero dei morti, anche se la cosa non appare nelle statistiche che leggiamo ogni giorno. E questo è un fattore sicuramente importante. Dunque la risposta deve essere che gli Stati collaborino, che non pensino primariamente solo ai propri cittadini, ma che tentino di sviluppare strategie a beneficio per il pianeta come tale, anche se, come ripeto, la chiusura delle frontiere può benissimo essere una strategia razionale accanto ad altre come la quarantena, per evitare l'espandersi della malattia. Siamo franchi, il virus quasi inevitabilmente si espanderà, ma il punto essenziale è rallentare questa espansione, poiché se essa avviene in un arco di tempo ristretto gli ospedali avranno un collasso totale, non sarà più possibile trattare le persone con sintomi severi, le fatalità saranno molto molto più alte, probabilmente il doppio di quelle che si avrebbero se il virus si espandesse in tempi molto più lenti.
D. In particolare, qual è la situazione del paese che attualmente ti ospita? Qual è la percezione del problema, ritieni che si stia andando nella direzione giusta?
R. Noi abbiamo un Presidente degli Stati Uniti che è probabilmente la persona più incompetente che si potesse dare rispetto alla professione che esercita. All'inizio Trump ha completamente sottovalutato la gravità della situazione. Credo che da circa una settimana si è capito che il problema è molto serio e le misure che abbiamo preso oggi in America sono paragonabili a quelle che si hanno in paesi europei. Le scuole e le università sono chiuse, i ristoranti sono chiusi, ci sono pochi movimenti sia dall'estero sia all'estero, ma anche i movimenti fra gli Stati sono fortemente diminuiti, e ciò sicuramente rallenta lo spargersi della malattia. Rimane però che negli Stati Uniti il problema più rilevante è la mancanza, nonostante la Obama Care, di un'assicurazione per tutti. Il problema che molti avevano fino a pochi giorni fa di potersi permettere di pagare per esempio un test per il coronavirus è tipico del paese, mentre in Corea i test venivano offerti gratuitamente. Ciò peggiora le cose, oltre al fatto che il numero dei posti letto in ospedale in rapporto alla popolazione è molto inferiore rispetto a quello dei vari paesi europei. Tutto questo preoccupa, ma almeno le misure di contenimento dell'ultima settimana mi sembrano andare nella direzione giusta.
D. Oltre ai mutamenti che ha introdotto nella vita di tutti noi – almeno nei paesi in cui sono state prese forti misure di distanziamento sociale –, l'epidemia sembra aver provocato (al di là della paura, dell'angoscia) una sorta di azzeramento del futuro, mettendo in discussione quella proiezione in avanti che muove tanto del nostro agire e del nostro sentire. Ci ha reso più soli – fisicamente, ma anche di fronte alle nostre paure – e insieme ci ha uniti, almeno in una certa misura (al netto delle abissali differenze legate alle possibilità di accesso alla cura, cui tu stesso accennavi in precedenza). Cosa ti sembra più profondamente messo in questione e cosa lascia vedere questa situazione di crisi, che forse prima si celava maggiormente ai nostri occhi?
R. Certamente l'esperienza di una pandemia ci rende molto più coscienti della nostra mortalità e questo credo sia una cosa positiva, visto che l'epoca moderna è caratterizzata da una sua rimozione. Tentiamo di non vederla, di non riconoscerla e il fatto che adesso capiamo che nel mezzo della vita siamo circondati dalla morte può essere molto utile per maturare. Dunque io non vedo questa circostanza solo negativamente. Devo dire francamente che nelle ultime settimane ho parlato con mia moglie e i miei figli della possibilità di una mia morte prematura – non la spero evidentemente, ho vari piani per il futuro –, ma sarebbe irresponsabile non riflettere su questa possibilità. Dunque il fattore della presenza della morte lo vedo come positivo; allo stesso tempo credo che alla coscienza che il nostro orizzonte individuale possa essere più breve di quanto avevamo sperato e ci fossimo aspettati nel passato è abbinato un forte senso di responsabilità per il futuro, non necessariamente solo il nostro futuro. Tutte le misure che prendiamo, la rinuncia a viaggi, a incontri con amici sono intese ad evitare che il numero di morti aumenti. E questo presuppone che noi speriamo e siamo convinti che l'umanità continui anche senza di noi.
L'aspetto della solitudine è anch'esso molto interessante. Da una parte, è vero, ci sono meno contatti con altre persone; d'altra parte, quando ci sono contatti – come avviene in questo momento parlando con te, o come quando due giorni fa ho telefonato a mia cugina nel bergamasco, o a una mia cara amica a Milano –, lo spessore della conversazione è superiore, perché ci rendiamo conto che magari è l'ultima telefonata, l'ultima conversazione: i temi sono molto più profondi di quanto lo siano di solito e questo credo sia una cosa positiva. La solitudine fisica, per fortuna, grazie a queste forme di comunicazione della rete, non ci depriva della possibilità di condividere i nostri pensieri con amici e parenti, consentendoci un contatto meno fisico, ma magari meno effimero attraverso la concentrazione del pensiero su fattori che ci preoccupano. Perciò ho aderito subito con entusiasmo alla tua proposta di parlare di questo tema in un momento in cui l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, al quale io sono da sempre molto legato, deve chiudere le porte fisiche a causa della pandemia, ma vuole mantenere vivo un dialogo. Si vuole conservare un certo livello di riflessione, e se Platone ha ragione quando ci dice nel Fedone che filosofare è apprendere a morire, potremmo affermare che questa esperienza, di una morte molto più vicina a noi di quanto pensassimo poco tempo fa, offre la possibilità di una filosofia più profonda.