L’ennesimo bollettino di guerra… la voce grave e monotona del burocrate, poi quello stillicidio di dati snocciolati nella loro glaciale essenzialità…
La mente, sopraffatta da un indicibile bisogno di evadere, ha iniziato a spaziare nel silenzio spettrale della città, abitata oramai solo da curiose geometrie dell’instabile e bazar di fantasmi, consunti baluardi di un’umanità in disarmo.
Gli avvenimenti di questa giornata grave sembrano sfaldarsi e quello che il silenzio elabora viene redistribuito nella mente. In realtà, non capisco se vedo o, più semplicemente, se immagino… quell’agitarsi insensato di voci, quel mescolarsi di parole scomposte che non riuscendo a formarsi restano sospese a galleggiare in un territorio arido, senza più margini di razionalità. La sensazione di vuoto è così possente che ogni tentativo di capire si perde in una confusione accecante.
E che dire del mondo? È come rimpicciolito, accartocciato, stropicciato nella sua insensatezza, serrato nelle maglie di quel silenzio assordante, di quella luce verticale che taglia lo spazio in forme sempre più indefinite. Le strade si diramano come tanti capillari privi di sangue. Negli interstizi, residui di escrementi… parole, numeri, cifre dell’innominabile si stagliano sopra di noi, senza decoro, senza un disegno, senza un perché. La fragilità di quell’attimo… come una spina conficcata nella carne già lacerata, autopunizione collettiva per colpe che ignoravamo.
Poi, la paura… distillata in gocce di sapienza da autorevoli caste sacerdotali. Santoni col camice bianco, lacchè di regime, starlette narcisistiche vomitano cifre e raccomandazioni da comode poltrone televisive, accompagnati dall’incitamento di una pletora di presentatori adulanti. Bollettini ripetuti senza sosta, divieti amplificati da mezzi di comunicazione bisognosi di sangue, di viscere da squartare, di menti pronte a essere plasmate per la nuova caccia al tesoro nella città dolente: l’untore, il ribelle da diffamare, l’apostata, l’infame da bandire, il nemico della pubblica sanità, l’indecente camminatore solitario nella luce opaca di un’alba silente e minacciosa.
Sanguina la terra del Nord, ma la politica giace stordita in un letto di corsia… ospedale dell’anima di un Paese anestetizzato, serrato in un dispositivo emergenziale intento a emanare coercizioni e incapace di raccogliere il dolore. Corpi vivi cercano di abbandonarsi alla metafisica di spazi concentrici, senza accorgersi di scivolare nell’imbuto di una città trasformata in ombre che si fuggono. E mura, mura come infinite ripetizioni di percorsi obbligati in cui ogni metro sembra convincere l’altro che non si può andare da nessuna parte.
Rumori impercettibili e lampeggiare di sirene, poi, sullo schermo, aerei a bassa quota… rombo di motori e spruzzo di massicce dosi d’insetticida… Una voce ripete costante lo stesso motivo: «È giunto il momento di entrare di nuovo in guerra, non contro l’Iraq o il terrorismo internazionale, ma contro la mosca della frutta, un insetto dalle potenzialità devastatrici. L’obiettivo della guerra è chiaro: distruggere la mosca della frutta prima che questa abbia la possibilità di distruggere noi. Nonostante le rassicurazioni sul fatto che la vaporizzazione dell’insetticida non comporta pericoli per la salute, la gente ha la sensazione di essere tenuta all’oscuro di qualcosa e per di più non esiste un unanime consenso sul fatto che gli obiettivi possano essere raggiunti. Questa guerra può essere vinta? Alcuni dicono di no. Si sta forse sollevando un polverone affinché certe persone possano coprirsi le spalle?»*.
Silenzio. Vuoto. Una mosca si agita nello spazio saturo della mia mente sopraffatta.
*Rif. Short Cuts (America Oggi) di Robert Altman, 1993.