In questi giorni si sente ripetere spesso: “Siamo a un bivio”.
Non solo condivido tale immagine ma credo che, in generale, la posta in gioco consista nella possibilità di far apparire delle biforcazioni lì dove i processi storici tendono invece a presentarsi come dei percorsi obbligati. Proprio per questo tuttavia non c’è nulla di meno scontato ed evidente di una biforcazione: per far apparire un margine di libertà nella storia, ossia per qualificare la storia come un’avventura umana, c’è ogni volta bisogno di mettersi in gioco, di lottare, correndo dei rischi e assumendosi delle responsabilità.
Riformulerei dunque la questione in questi termini: “In che modo far sì che appaia un bivio?”
In primo luogo credo che dovremmo convincerci che le catastrofi – oltre al loro carattere specifico e al loro portato di sofferenze – hanno sempre un certo "valore d'uso". O meglio, potrebbero averlo. Se solo fosse possibile mettere sul tavolo e confrontare valori d'uso diversi e persino in conflitto fra loro.
A che cosa “servirà” questa pandemia? A fare questo o a fare quello? Ad andare in questa direzione o ad andare in quell’altra? Riprenderemo il vecchio cammino, magari con maggiore convinzione, oppure devieremo sperimentando percorsi alternativi?
In Shock Economy, Naomi Klein ha mostrato come l'uragano Katrina, abbattutosi nel 2005 a New Orleans, sia servito tra l'altro ad abbandonare le politiche pubbliche, in materia di edilizia popolare e istruzione, a favore di politiche di stampo neoliberale (privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica ecc.). Facendo tabula rasa del vecchio mondo, ancora intriso di Welfare, il disastro è servito a imporre il nuovo sistema senza preoccuparsi troppo del parere della gente. Insomma, le popolazioni colpite dalla calamità non hanno potuto sentirsi a un bivio, non hanno potuto approfittare di quello stato di sospensione e d’incertezza, di quella sorta di epochè provocata dall’uragano, e che avrebbe permesso di avviare una riflessione e una discussione collettive su come immaginare il proprio futuro.
Qualcosa di analogo è successo dopo il terremoto che colpì L'Aquila nel 2008: a causa del concatenamento dei dispositivi e delle logiche emergenziali, i cittadini sono stati privati della possibilità di partecipare attivamente alle decisioni concernenti l’avvenire della loro città.
Non si tratta di eccezioni, purtroppo. Nella maggior parte dei casi, dopo le catastrofi, il bivio non si manifesta nella forma radicale di una posta in gioco, oppure è occultato da qualche imperscrutabile diktat, che impone la strada da seguire come se si trattasse di un’assoluta necessità.
Per questo motivo le catastrofi sono, e probabilmente saranno sempre più, il banco di prova delle nostre democrazie.
Ma toccherà a noi lottare affinché, ogni volta, emerga quella cosa per nulla scontata che è il valore d'uso delle catastrofi, e con esso la possibilità di biforcare i percorsi storici nei quali ci troviamo avivere.