8 marzo e seguenti. E ora tutto questo, la morte nella sua incarnazione più invisibile e inafferrabile – il virus – ci circonda, stringe d'assedio le nostre vite, intralcia le nostre abitudini quotidiane, rivelando quanto da esse dipendiamo – e quanto ci abbiano indebolito come specie – si interpone tra noi e gli altri con un sospetto umiliante, ci tiene a distanza di sicurezza, separa le famiglie, predica l'isolamento e condanna senza appello la socialità come una condizione insalubre, contaminata, impura. Non resta altro, suggeriscono i virologi, che tenerci a più di un metro dai nostri simili, frequentarli il meno possibile e lavarci le mani in continuazione come un Ponzio Pilato collettivo. Le cose migliori, le buone intenzioni, gli appelli alla solidarietà e al coraggio, si rivelano illusorie e, peggio, controproducenti, e in alcuni casi colpevoli; le cose peggiori, la paura, la diffidenza nei confronti del nostro prossimo, la chiusura, lo stato d'eccezione sono prescritte da un'austerità senza precedenti – e da qualche tenore che non riesce a mitigare la propria soddisfazione. Riaprendo La peste di Albert Camus sono addirittura spaventato dalla precisione con cui un romanzo che è stato sempre trattato come una grande, e neanche troppo riuscita, “metafora” descrive l'attitudine che ci ha portato dritti fino alla situazione attuale: «Dal momento che il flagello non è a misura dell'uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa, e di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti, che non hanno preso alcuna precauzione. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presupponeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli».
Il virus ha materializzato di colpo tutte le paure dell'epoca e la ha fatte parlare tutte insieme, per la gioia, e ben presto per lo scoramento, di chi da tempo lavorava alla loro manipolazione, alla loro trasformazione in strumenti di potere: la contaminazione che proveniva dall'esterno, dalla Cina, il paese simbolo della globalizzazione, ora separa a sciabolate gli spazi interni, a cominciare dal nord e dal sud – ma a parti rovesciate tra il forte che appare debole e il debole che sembra misteriosamente immune – per procedere con chirurgica spietatezza a divisioni sempre più minuziose: nella stessa regione, divisa in zone, nella stessa città, nello stesso casamento, nella stessa famiglia, senza alcun rispetto per le divisioni che si immaginavano buone perché erano istituite a protezione della nostra identità, di posizione sociale, di fede politica, di appartenenza nazionale, di cultura. Alla fine, con la generalizzazione del contagio, siamo tutti in esilio gli uni dagli altri, tutti aggressori e tutti aggrediti, tutti contro tutti e tutti sulla stessa barca: nelle strade svuotate il passante che cerca di restringersi quando ci incrocia (è incredibile come proprio in questa rarefazione una specie di trasgressiva, inopportuna forza magnetica ci spinga inesorabilmente, assai più di prima, a sbattere sugli altri) potrebbe essere il misterioso assassino, inizialmente designato con il numero “zero”, pronto a infettarci, ma nel suo foro interiore il poveretto sta sicuramente pensando la stessa cosa, che siamo noi gli inconsapevoli o irresponsabili killer che non dovrebbero avventurarsi per strada a quest'ora, si vede lontano un miglio, infatti, la nostra aria sbattuta, il naso arrossato, e lo sguardo irritato dalla congiuntivite. Oppure no, continuiamo a passeggiare, come ogni giorno, nella fiduciosa e immotivata convinzione che la porzione di mondo che ci è stata data in sorte sia un'isola, e che basterà rimpicciolirsi, non farsi notare, giocare all'uomo della strada, perché l'onda ci risparmi...
Già, l'onda, si propaga alla stessa velocità di uno tsunami ma non fa rumore, non si annuncia con il brivido di un fruscio lontano e un biancheggiare spumeggiante all'orizzonte, si deposita in minuscole gocce impercettibili, leggere come l'aria che respiriamo, si insinua mentre non sentiamo niente, il virus è astratto, anaffettivo, ha l'indifferenza dei grandi nichilisti e, come loro, è pronto a ribaltare tutte le nostre certezze, trasformandole in beffarde contro-verità, dietro ognuna di esse fa capolino la maschera del clown dalla risata cattiva: chi giurerebbe oggi sulla propria volontà di “stare accanto a chi soffre”, quando persino la necessità di questo gesto è messa apertamente in discussione da quei professionisti della prossimità che sono i medici, quando “stare accanto” è considerato un delitto e “chi soffre” lo fa nell'assoluta incomunicabilità, senza urla, senza suppliche, spegnendosi lentamente, isolato da tutti, come una candela in una campana di vetro?
L'aver trasformato tutto in sistema fa in modo che, appena il sistema mostra le proprie falle, di colpo ogni sforzo umano per il bene ci appare donchisciottesco e controproducente perché non è più confortato da una forza organizzata, da una superiorità collettiva, da una macchina efficiente – e così, non la vita delle persone, ma la funzionalità del sistema sanitario, la sua capacità di reggere all'urto del contagio, sono diventate il bene supremo, e si sente sempre più parlare di malati che gravano sugli ospedali, di scelte inevitabili tra chi deve essere curato e chi no, il che significa ancora una volta ragionare sull'emergenza come qualcosa che deve essere contenuta dalla norma, come se essa non potesse produrre niente di diverso che il continuo ritorno sulla norma (e sulla normalità). Si comincia a parlare, qua e là, ma con accenti sempre meno timidi di vittime necessarie.
C. mi scrive ancora, un fuoco di fila di domande: “ Ne usciremo con una società diversa? O la società è già diversa? O la società è già diversa da quel che crediamo? Il virus ci trasforma? O fa da rivelatore a quel che già siamo?” Rispondo brevemente solo a quest'ultima domanda. Lo rivela. E lo radicalizza. E lo rivela, vorrei aggiungere, perché lo radicalizza. Ma tutto è già esistito molto prima, senza che noi ce ne accorgessimo, fermi su un lato del nastro di Moebius che ci è stato dato in sorte: i detenuti sui tetti che bruciano lenzuola e pagliericci, del “mai visto” dai tempi della legge Gozzini, sono sempre esistiti, vivevano, stentatamente, in una dimensione parallela alla nostra, invisibili come topi di cui di tanto in tanto percepivamo il raggelante squittio, il virus è solo la miccia che li ha fatti esplodere sotto i nostri occhi, costringendoci in qualche modo a vedere quello che abitualmente non vogliamo vedere – e che cosa non vogliamo vedere? Il disonore, semplicemente, del mondo che abbiamo costruito e nel quale fino a ieri camminavamo gongolanti e impettiti, lusingati dalla sua bellezza. Ma il risultato di questa visione fulminea – zone rosse, contatti interdetti, carcerati sui tetti o abbracciati ai cancelli come scimmie che vogliono uscire a cui le noccioline della dignità teorica dell'essere umani non bastano più – è paradossale: ora che anche noi siamo segregati, limitati nei nostri spostamenti, condannati agli arresti domiciliari, quella quota di esseri umani che consideravamo meritatamente imprigionata e separata da noi, e che dunque credevamo e volevamo dimenticata (in un modo non troppo diverso da come dimentichiamo che gli sciacquoni dei water portano alle fogne e che le cose morte finiscono ammassate nelle discariche), ci ispira sentimenti solidali ancor meno di prima, quando il privilegio della piena libertà ci faceva sentire più munifici, più caritatevoli, perché più distanti. Oggi il virus vanifica quella distanza (e il suo pathos) e lo spettacolo dei carcerati sui tetti ci sembra una rappresentazione esacerbata di una condizione che è anche, potenzialmente, la nostra, e questa vicinanza ci turba, ci spaventa, ci irrita, soprattutto inibisce qualunque pietà. Fanno bene a bastonarli senza tanti complimenti, come, qualche giorno fa, la guardia costiera greca con i migranti siriani nel più osceno fermo immagine di quello che l'Europa è diventata.
Scendo nel nostro giardino selvaggio e di colpo vedo riapparire un mondo dimenticato – a venti metri di distanza dalla cuccia in cui sono rintanato, protetta da pile di libri e di pacchetti di sigarette – il sole splende, il cielo guardato attraverso l'intrico dei rami, è di un azzurro nitido e infrangibile che fa addirittura male, come una sorsata di alcool inghiottita troppo in fretta, i frulli e i gorgheggi riempiono l'aria e danno alla testa, impedendomi di concentrarmi sulle pagine che dovrei leggere (una Storia dell'Adriatico per altro bellissima): tortore, usignoli, pettirossi e l'ombra sfrecciante dei parrocchetti brasiliani che da qualche tempo infestano i nostri parchi con i loro bagliori azzurri, gialli e verdi. Impassibile e opportunista, la natura resta, siamo noi che passiamo. Un pappagallo piega con il suo peso un ramo dell'albero di arancio proprio sulla mia testa. Poi se ne va sbattendo le ali, stringendo nel becco ricurvo un arancio rinsecchito.
Un tempo, quando i nostri pensieri ci apparivano irreali, astrusi o folli, correvamo fuori per riaccordare il nostro respiro al mondo reale e ritrovare una misura delle cose e degli altri più comune, più fraterna. Ora l'irrealtà ci attende fuori da noi, ha preso la concretezza delle strade vuote, delle serrande chiuse, delle ombre furtive che camminano rasente i muri, con la testa china, per non essere notate. Nei nostri peggiori incubi, esorcizzavamo il terrore dell'evento smisurato e imprevedibile, riportando continuamente al pensiero ciò che non volevamo pensare, al desiderio, ciò che non si poteva desiderare. Un inciampo, una svista banale, l'improbabile circostanza di un pipistrello che morde un maiale (o un serpente) – improbabile quanto lo è il caso di un uomo che incontri per strada il padre che non ha mai conosciuto e lo uccida per una questione di precedenza – e siamo precipitati nella distopia. In realtà, abbiamo previsto tutto. E pur prevedendolo, qualcosa è accaduto lo stesso. Ogni mattina ci risvegliamo, richiamati dalla tenue speranza che il vecchio mondo sia risorto e il nuovo sia svanito. E ci ritroviamo come il sognatore che, sollevato dalla fine del sogno, pensa di essersi svegliato e non si rende conto che sta solo passando da un sogno a un altro sogno.
Centinaia di fotografie scattate dai reporter dell'Ansa per raccontare il 2019. Un forte sentimento di lontananza nel ricalcare i passi perduti dell'ultimo anno normale, con normali catastrofi, normali crolli, normali esodi di migranti. La riconferma che il tempo non scorre con uguale continuità ma si dilata o si contrae, si avvicina o si allontana, a seconda della violenza che sulla sua continuità esercita la cesura dell'evento. Eric Vuillard ha scritto un romanzo sulla grande guerra del 14-18, La battaglia dell'Occidente, dove, a un certo punto, entra nella testa di un giovane contadino alsaziano a poche ore dallo scoppio del conflitto per scoprire che nei suoi pensieri non ce n'è neanche uno che esprima minimamente il presagio del boato che viene dal futuro per travolgere la sua vita e stravolgere la sua memoria. Anche noi come lui, nei mesi più caldi del 2019, quando Notre Dame era uno scheletro piatto e annerito illuminato da fiamme infernali – e nel rosone pulsava una luce incandescente simile a quella di un sole – quando anche la foresta amazzonica bruciava producendo le stesse ombre di cenere, non ne sapevamo nulla. Anzi era proprio «l'ora in cui non sapevamo nulla l'uno dell'altro», come direbbe Peter Handke. Greta Thunberg era una Giovanna d'Arco sbeffeggiata dai virili signori della terra. Accanto a lei, in un'immagine del Fryday for future che si svolse a Roma, un giovane alza un cartello dove si legge: «Non deve cambiare il clima, devono cambiare le nostre abitudini». Detto fatto. Ma non sotto la spinta dei ghiacci che si sciolgono e dei continenti che sprofondano, il piccolo virus – il totalmente inaspettato perché sempre minimizzato – è stato più veloce dei grandi dinosauri agonizzanti.