1.
Più passa il tempo, più ho l’impressione (per fortuna non chiara e distinta ma vaga, come si suol dire) di essere stato catapultato in una di quelle distopie fantascientifiche di cui sono ricchi la letteratura e il cinema del secolo scorso e di questo inizio di millennio. A rendere, però, le attuali condizioni di vita emergenziali poco comparabili con molti classici contemporanei dell’utopia negativa – in cui i paesaggi sono solitamente cupi e piovosi – contribuisce qui da noi, a Napoli, il bel tempo, con un sole ormai primaverile (non aggressivo, ma tuttavia deciso) che irrora di luce le strade semideserte.
Vivo da solo in un piccolo appartamento di un palazzo d’epoca nel cosiddetto salotto buono della città. Dal balcone riesco a vedere uno scorcio della via principale, dove di tanto in tanto transita qualche sconsolato passante non più infagottato in abiti invernali, ma adeguatamente bardato con mascherina e guanti di lattice alle mani, con le quali tiene un cane al guinzaglio o le buste con la spesa.
Non ho animali, quindi – a parte le poche discese e risalite serali rapidissime per depositare la spazzatura – esco approssimativamente una volta a settimana per acquistare generi alimentari in due negozietti sotto casa molto ben organizzati e forniti, dove l’ingresso è rigidamente regolato (un cliente alla volta).
Mi tengo aggiornato – per quanto possibile e con tutte le cautele critiche del caso – attraverso la tv e la rete.
Per il resto, poco è cambiato nella mia vita professionale di studioso e non ho il tempo di annoiarmi (sono fortunato!). Leggo, studio, scrivo, progetto ricerche e performance filosofiche in contatto con miei compagni di lavoro: insomma le solite cose.
Ogni giorno ascolto musica e di tanto in tanto guardo qualche film.
Non è l’isolamento in sé che talvolta mi pesa, ma il pensiero che sia un obbligo (certo, da tutti riconosciuto nella sua necessità), non il frutto di una libera scelta in circostanze ordinarie.
2.
In un giornale di qualche settimana fa ho letto che bisogna mettere in fila un milione di Covid-19 per farne un millimetro (sarà vero?): siamo, quindi, di fronte al potere dell’immensamente piccolo. Bisogna riconoscere che il virus si muove nei liquidi delle nostre vie aeree molto meglio del migliore dei nostri campioni di nuoto e ha una spaventosa capacità di propagazione. Per poter sopravvivere e diffondersi vuole che facciamo ciò che comunemente piace a tutti noi: incontrarci per lavorare o svagarci, darci la mano, abbracciarci, baciarci. Perciò tutta la fisica della socialità – se posso dir così – deve essere sospesa, persino quella fra membri di una medesima famiglia. Ma abbiamo i telefoni, gli sms, whatsapp, facebook, twitter, skype, e così le nostre interazioni possono continuare in rete. Continuare? Non sarebbe forse meglio dire che devono essere confinate e ridotte alla sola loro dimensione digitale? In queste mie affermazioni non c’è alcuna intenzione polemica (e contro chi poi? un virus, che è troppo impegnato ad agire e ad espandersi per poter replicare), ma solo un modestissimo intento descrittivo. I corpi, dunque, arretrano e all’opposto avanzano baldanzose le parole che si depositano sulle pagine virtuali, si scambiano con un amico o un conoscente a un cellulare, a una cornetta o su skype (in quest’ultimo caso potendo finalmente anche guardare il nostro interlocutore, riprodotto in un’immagine spesso traballante).
Per ragioni anagrafiche sono un tardivo immigrato digitale (anche un po’ pigro, ma non insofferente verso le nuove tecnologie) e in linea di principio non ho mai stigmatizzato la relazionalità intersoggettiva praticata nei cosiddetti social, quando parossisticamente non si sostituisca del tutto ma si accompagni alla socialità fisica, di cui caldeggerei la prevalenza nella vita di un essere umano. In linea di fatto, però, non sono sui social e li utilizzo in forma indiretta solo per motivi strettamente professionali. Tuttavia non posso non rilevare come, per poter conversare con una persona a me molto cara (anche lei barricata in casa) e associare al suono della voce il suo volto, io mi sia precipitato a riattivare autonomamente (e dunque in maniera piuttosto maldestra) skype, rimasto silente in basso sullo schermo per diversi anni, dopo che un collega – esperto informatico – lo istallò nel mio computer, non ricordo nemmeno più perché.
La cosa, in verità, mi preoccupa poco, poiché, se e quando si ritornerà alla “normalità” (una parola oggi pronunciata nel buio), il programma sarà nuovamente abbandonato a se stesso, invecchierà e morirà con discrezione. Ma, proiettando su larga scala ciò che è capitato a me, mi domando: l’ulteriore e forzata decorporizzazione dei nostri rapporti personali, provocata oggi dalla pandemia, non comporterà domani – quando l’emergenza sarà ufficialmente rientrata, ma potrà persistere la paura individuale del ritorno e la diffidenza nei contatti ravvicinati, unite magari a una certa spontanea assuefazione ai comportamenti acquisiti o potenziati – un’impennata nel trasferimento dei nostri costumi relazionali verso una socialità virtuale defisicizzata (già lamentata, soprattutto nei confronti dei nativi digitali e delle nuove generazioni)?
Staremo a vedere…
3.
Questa pandemia ci spaventa più per quello che potrebbe succedere che per quello che già è accaduto. Inutile dire che la sofferenza degli ammalati e la loro cura deve essere l’oggetto privilegiato della nostra attenzione; ma preoccupa anche il potenziale di risposta di cui dispone il sistema sanitario nazionale: potenziale che diversi governi di vario colore nel corso del tempo hanno contribuito a ridurre con la tracotanza e il merito sbandierato (sic!) di chi smantella di più per risparmiare di più. E questo sulla pelle dei pazienti e del personale medico, oggi – purtroppo – messo a dura prova.
Come si risolverebbe, non dico dal punto di vista morale e “umano”, ma sul piano giuridico e fiscale una eventuale decisione – motivata dall’esigenza di non sottrarre le poche sale di terapia intensiva disponibili a pazienti più giovani e con maggiori possibilità di guarire – di non prestare assistenza medica adeguata a persone anziane che per una vita hanno versato contributi per sostenere la sanità pubblica?
A partire dall’esperienza drammatica che tutti stiamo facendo, si comprenderà che sulla salute non si può disinvestire? Si saprà fare marcia indietro?
Timori si nutrono poi anche per la tenuta economica del Paese e – di riflesso – del resto del mondo: quanto tempo si potrà resistere con i cancelli chiusi e le saracinesche abbassate? Quanto si potrà tirare l’elastico prima che si spezzi?
Uno stato d’assedio (per dirla con Camus) come questo che stiamo attraversando richiede alle istituzioni di non dare segnali di cedimento nemmeno per un istante e alla logistica della distribuzione di non lasciare scaffali vuoti nei negozi di alimentari e nei supermercati: panico e disgregazione socio-economica sono dietro l’angolo.
4.
Bisogna dire (molto in breve) che il tessuto morale del nostro Paese – già di suo insidiato da un’anarcoide idiosincrasia per le regole condivise (è un luogo comune – lo so –, ma ha tuttavia un fondamento di verità) – è stato messo a dura prova da decenni nei quali purtroppo la classe dirigente nel suo complesso ha saputo esprimere poche e isolate personalità esemplari accanto a un vasto catalogo di comportamenti eticamente discutibili e giuridicamente sanzionabili, in molti casi anche sanzionati. Questo ha divaricato sempre più la faglia già aperta fra le istituzioni e i cittadini e fra questi ultimi e i loro rappresentanti, ritenuti il più delle volte autoreferenziali o inaffidabili (quando non corrotti).
A me sembra che questa urgenza sanitaria – di per sé la regina di tutte le urgenze, quella che fa pericolosamente vacillare ogni altra impellenza – offra ai politici italiani di ogni schieramento una possibilità unica, che difficilmente si ripresenterà: quella di implementare un processo virtuoso di riacquisizione della fiducia perduta presso i cittadini.
Su tutti coloro che governano e anche su chi è all’opposizione grava una responsabilità grande e densa di significato: quella di traghettare il Paese fuori dall’emergenza. Oggi non sappiamo se questo avverrà con l’annientamento definitivo del virus o con l’instaurazione di un assetto in cui ci si potrà convivere, abbattendone considerevolmente il danno. Proprio con l’adempimento di questo difficile compito – in un momento in cui tutti noi più che mai ci sentiamo necessitati ad affidarci ai politici impegnati nel e fuori dal governo come alle uniche figure in grado di tutelare la nostra salute –, le donne e gli uomini seduti su uno scranno potranno (cominciare a) salvare anche il senso della politica, che ha bisogno di essere rifondata e riqualificata innanzitutto attraverso la riconquista di un rapporto fiduciario con i cittadini, fondato sua una concreta attenzione ai loro bisogni (e non a quelli del profitto o del partito) e su una concezione partecipativa della res publica. Vedremo se l’attuale clima di solidarietà e di impegno riuscirà a sopravvivere e a dare i suoi frutti anche dopo il superamento di questi giorni difficili.
Forse chiedo troppo: non solo spero che il virus sia sconfitto, ma anche che questa vittoria segni l’inizio di una guerra al malcostume politico…