Nell’ultimo decennio ciascuno di noi è vissuto prevalentemente all’interno della propria “bolla” comunicativa e relazionale, consentita e forse favorita dalla consuetudine ad abitare lo spazio connesso, in un narcisistico e compiaciuto riconoscimento delle proprie personali opzioni identitarie ed esercitando, allo stesso tempo, la pretesa che esse potessero rappresentare la misura del mondo.
Eravamo tutelati e corroborati dal fatto che la bolla ci ritornava la nostra immagine, riflessa e enfatizzata dall’osservazione dagli altri che erano confinati, con noi, in quella specifica nicchia ambientale. Potevamo alzare la voce, affermare una realtà in modo controfattuale, appassionarci per le idee più bislacche, aggredire in nome e per conto di chi ci esprimeva comunque sostegno, contro coloro che provavano a superare il confine per interloquire con quel mondo creato per noi, a nostra dimensione e somiglianza.
Questa deformazione della sfera percettiva – che in molti casi sfiora il delirio – ha riguardato tutti: politici e giornalisti, intellettuali e celebrities, insieme alla gente comune di qualsiasi età e appartenenza che ha trovato, all’interno di questo straordinario processo di world building, occasioni quotidiane di effimera visibilità.
“Echo Chambers” e “Filter bubbles” sono espressioni ben conosciute all’interno delle discipline comunicative; segnalano nel primo caso una forma di selettività intenzionale, autoprodotta (come nel caso da manuale degli spettatori della Fox News negli USA) che riguarda i contenuti che leggiamo, condividiamo e intorno ai quali discutiamo, e i network relazionali che producono l’eco; nel secondo una forma di selettività inconsapevole, prodotta dalle logiche con cui operano gli algoritmi dei motori di ricerca e dei Social Network Sites (le tech companies come Google e Facebook che operano attraverso la “datificazione” degli utenti e traggono profitti dalla vendita della loro profilazione), che ci suggeriscono contenuti, fonti informative, consigli per i consumi e l’intrattenimento consonanti con i nostri gusti, preferenze e orientamenti.
Entrambe inducono meccanismi di polarizzazione dell’informazione e sono state abbondantemente messe a frutto dagli spin doctors, favorendo in tutto il mondo l’affermazione di leaders di impronta populista, che sono oggettivamente avvantaggiati dall’uso di meccanismi di estrema semplificazione nella costruzione del discorso pubblico, sempre pronti ad additare i nemici/i colpevoli della situazione, cinicamente consapevoli del fatto che una buona menzogna, se ben diffusa, produce effetti all’interno della “bolla” difficilmente contrastabili dall’esterno.
L’efficacia delle camere dell’eco e delle bolle è correlata ad una fase evolutiva in cui i sistemi mediali sono fortemente differenziati e prevalgono le forme disintermediate (i social media), in cui sono meno visibili e autorevoli le strutture (editoriali e non solo) che tradizionalmente operavano come mediatori del dibattito pubblico e dell’interesse collettivo.
Ma questo non significa che la frammentazione sociale che stiamo sperimentando sia da imputare alla diffusione dei social media. È invece probabile che funzioni un meccanismo di causazione inversa: in una società che Castells e Wellman interpretano (dall’inizio degli anni 2000) secondo la chiave di lettura del networked individualism, sono semmai le tecnologie di rete a rappresentare con sempre maggiore evidenza il desiderio e l’occasione di socialità. Con i rischi che ne conseguono – la chiusura all’interno della “bolla” algoritmica – di cui le persone sono del tutto inconsapevoli.
Questo quadro che ci vedeva felicemente artefici della nostra effimera affermazione identitaria e che scambiava agevolmente la realtà con raffinate proiezioni simulacrali (condensate nelle immagini instagrammate del proprio stile di attraversamento del mondo) viene all’improvviso messo in crisi da un evento esterno, imprevedibile. Con gli appositi hashtag abbiamo provato a esorcizzarlo, ad imputarlo attraverso una ricorrente caccia all’untore (esterno, tra i mangiatori di “topi vivi”; e interno, con l’istigazione a denunciare coloro che si assembrano, come propone una apposita app del Comune di Roma), a monitorarlo costruendo curve sulla diffusione del contagio e assistendo a (disintermediate) dichiarazioni dei governanti, di notte sui social.
Alla fine, forse, ci stiamo arrendendo alla devastante forza d’impatto della realtà che condiziona qualsiasi nostro atto, pensiero, emozione, espressione di socialità.
La condizione di forzata reclusione in cui siamo improvvisamente caduti forse potrà liberare risorse cognitive e esperienziali per farci prendere atto dell’esistenza delle bolle in cui siamo stati (inconsapevolmente) immersi. Dai tanti schermi che ci circondano arrivano infatti immagini di realtà che superano i “filtri” (delle bolle) e il “rumore di fondo” (delle camere dell’eco): da quelle rubate nei reparti di rianimazione a quelle di un Papa che lancia il suo messaggio all’umanità intera (“nessuno si salva da solo”) in una Piazza San Pietro deserta, alla impressionante fila di veicoli militari con le bare dei deceduti destinate alla cremazione.
La drammaticità dell’evento porta perfino a riscoprire occasioni in cui ci ritroviamo insieme, in forma fisica opportunamente distanziata, come nei primi giorni degli smart mob convocati sui balconi per esprimere unità del paese e sostegno agli operatori sanitari; oppure, con la mediazione degli schermi, in occasione degli appelli del Presidente della Repubblica, del Papa, degli appuntamenti ormai quotidiani di preghiera che vede protagonisti un numero sicuramente molto vasto di credenti e trova rispetto da tutti.
Nella sfera privata questo istinto a riannodare rapporti su una base comunitaria si esprime nell’attenzione rispetto alle piccole cose quotidiane, alla cura del sé della casa e del cibo, dei propri cari; alla disponibilità nei confronti dei vicini, spesso sconosciuti, di pianerottolo e di palazzo, anche condividendo se necessario la propria rete wi-fi per consentire ai ragazzi in casa di fare didattica online; alla manutenzione del capitale sociale, delle reti amicali e familiari, in cui diventiamo tutti esperti di videocomunicazione multipla per ricreare quella sensazione di presenza momentaneamente perduta.
Sul piano della embrionale consapevolezza che si viveva all’interno di una bolla informativa, spesso deformante, si può sicuramente annoverare la riscoperta del ruolo di guida della scienza. Tutti noi stiamo imparando a fare i conti con la difficoltà delle espressioni probabilistiche, con la cautela delle ipotesi che contemplano una molteplicità di variabili e non danno mai una risposta certa, ma soprattutto stiamo imparando a rispettare quei volti da cui dipende il nostro destino; quei volti e quelle parole, tanto distanti dalle semplificazioni che si vivono all’interno delle proprie bolle, a cui piano piano si impara ad attribuire autorevolezza e fiducia.
Sono tutti segnali deboli che richiederebbero, per trasformarsi in una ondata di consapevolezza collettiva, un sostegno più forte e consapevole da parte del sistema dell’informazione e di tutti coloro che hanno responsabilità istituzionali e che a vario titolo alimentano il dibattito pubblico, anche in abito culturale o nel mondo dell’intrattenimento. In ogni caso l’intelligenza diffusa che si esprime nei vari nodi delle conversazioni in rete mi auguro sappia diventare protagonista di questa opera di necessario disvelamento. Così quando finalmente romperemo la bolla (di sicurezza) che ci tiene chiusi in casa non correremo a rinchiuderci nelle prossima bolla in cui qualcuno sta già chiedendo il nostro consenso per disegnare la ripresa, con le stolide certezze e la sicumera che ben conosciamo. E che tanti disastri sta ora producendo.