Non vi è forse, nella nostra tradizione, immagine più violenta della sorte degli uomini colpiti da un’epidemia che il misterioso finale a cui Lucrezio affidò l’epilogo del De rerum natura.
Una terribile peste – forse una forma di vaiolo o di tifo – si era abbattuta sulla città di Atene nel 430 a. C. Già Tucidide ne aveva offerto una descrizione nel secondo libro della Guerra del Peloponneso, insistendo sugli atroci sintomi del morbo che apparivano sui corpi.
Ma in Lucrezio l’episodio della peste di Atene sarebbe divenuto, a chiusura del poema, l’immagine stessa della morte violenta: ricalcando in parte Tucidide, egli descrive, con una cura ai limiti del fisiologico, i «dolori intollerabili» e l’«ansiosa angoscia», capaci di abbattere «le forze dell’anima e quelle del corpo». Allo stremo, «orridi nel fetore», i corpi infetti erano oramai di sola «pelle, su ossa da ulcere tetre»; le lingue, sanguinanti, non potevano più parlare. Ai cadaveri non spettava l’inumazione né il pianto dei cari.
L’insistenza sui dettagli più strazianti è a tal punto manifesta, che si direbbe che il poeta abbia voluto spaventare, quasi atterrire, in quelle ultime pagine, il suo lettore.
Ma perché un poema filosofico, che intende liberare gli uomini dalle paure e dalle vane sofferenze – che, con Epicuro, vuole convincere che «è possibile per un mortale vivere come un dio» (fr. 144 Arr.) –, si chiude con un’immagine tanto angosciosa della morte?
Perché è proprio la peste di Atene, questa morbida vis (la potenza morbosa di una pestilenza), l’ultima figura che la filosofia, alla fine del suo percorso, ci consegna?
Italo Calvino ha descritto una volta il poema di Lucrezio come uno straordinario esempio di leggerezza: «Il De rerum natura – scriveva – è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo […] La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci» (Lezioni americane, Milano 1988, p. 10).
Si tratta, in effetti, di non separare la greve immagine della pestilenza dal senso più intimo della filosofia lucreziana. Se Sofocle aveva attribuito la peste alla punizione divina per la tragica uccisione di Laio (Edipo re, 31-164); se per Ovidio il morbo di Egina non avrebbe segnato che l’ira della dea Giunone (Met. VII, 523-614); se persino per Tucidide l’oscuro male era stato predetto come un destino (II, 54); in Lucrezio, il contagio pestilenziale non è altro che il luogo in cui si manifesta, nella sua semplice verità, la natura materiale delle cose.
Come i fulmini e le tempeste, i terremoti e le eruzioni vulcaniche, gli avèrni e le calamite (VI, 96-1089), così la peste non è che un naturale risultato dell’aggregarsi e disgregarsi degli atomi, corpuscoli invisibili ed eterni (elementa o semina) che compongono tutti i corpi. Seguendo il loro clinamen, il moto imprevedibile delle loro inclinazioni, essi configurano ogni realtà corporea che, senza provvidenza alcuna, «si risolverà nella sua ora suprema» (I, 546).
In lingua greca il termine “epidemia” – epì dēmos (“sopra/presso il popolo”) – designava il soggiorno in una terra straniera, ed era riferito tanto agli dèi (apparsi in un’epifania), quanto agli uomini. Presso i Dori, ad esempio, il termine designava un diritto fondamentale dell’ospite. È nel Corpus Hippocraticum che questo primo senso è stato traslato a significare malattie che si diffondono facilmente su tutto il popolo (nousēmatos epidēmía) (De nat. hom. 9). Il termine non appartiene però al lessico latino, e sarebbe stato traslato dal greco solamente nel tardo Medioevo.
È significativo che, accanto al più generico morbus, Lucrezio utilizzi perlopiù contagium (da contingĕre, cioè “toccare qualcuno”), che indica non solo l’attecchire della malattia, ma innanzitutto il contatto dei corpuscoli che si aggregano in un corpo. Ogni configurazione suppone, in tal senso, un qualche contagio fra elementi – il quale contagio, propriamente, contingit, cioè “ci tocca”, “accade” in modo del tutto casuale, appunto “contingente”.
Accanto a contagium Lucrezio conia il vocabolo pestilitas (preferendolo al più comune pestilentia), a indicare specificamente la piaga che colpì Atene. Ma, come ogni malattia, questa non si distingue dal fenomeno naturale dell’aggregarsi dei corpuscoli nei corpi, ovvero del loro mutuo contagiarsi. Così, nello spiegare la natura della malattia, l’esempio scelto è quello della «forza del vino» (vini vis): questa si distribuisce nel corpo attraverso il calore (ardor), del tutto analogamente alla morbida vis (la potenza del morbo) e, con analoga violentia vemens, si trasmetterà attraverso il bruciore (aestus), contagiando tanto l’anima quanto il corpo.
Se, allora, il sopraggiungere della peste spaventa, o per la sua atrocità è riferita alla collera degli dèi, ciò è perché l’animo debole e «pieno di superstizione» degli uomini né conosce la natura del mondo, né comprende la separatezza degli dèi – il loro abitare, impassibili e indifferenti, negli interstizi tra i mondi infiniti.
Divino è ciò che sosta sul limite del mondo, ma non ha presa su di esso. Nulla invece, nella materia, sfugge all’«urto» naturale: il mondo è un moto incessante di piccoli corpi, percorso da un «vento» instancabile e casuale.
Ne è prova la sorprendente simmetria dell’epilogo della peste con il proemio dell’opera: come Venere nell’inno iniziale appare accompagnata dai venti (I, 624), così accade per la peste, portata dalle nubi, nei versi conclusivi; come gli uccelli annunciano l’arrivo della dea (I, 12-13), così essi sono colpiti per primi dal contagio (VI, 1216); come l’eroe Agamennone è descritto nella privazione della progenie (I, 627), così gli appestati compiono l’atto singolare di evirarsi (VI, 1209; sul parallelo, D. Bright in “Latomus”, n. 30, 1971).
Come se – contro l’ipotesi diffusa di uno stato incompiuto dell’opera (E. Bignone) – Lucrezio avesse voluto esibire in una precisa configurazione poetica il partecipare a una sola natura di tutte le res: la luce della conoscenza come le «tenebre dell’animo», la gioiosa generazione di «ogni corpo animato» come il più oscuro e temibile degli eventi, quello della morte.
L’anima non è che un’aggregazione di atomi, pronta a disgregarsi (per riconfigurarsi altrove) come tutti gli altri corpi. «Niente è la morte per noi», scriveva Lucrezio nel terzo libro, «e non ci riguarda per niente» (III, 830).
Non si tratta allora soltanto, in questa impietosa descrizione del morbo, di una ragione «didascalica», come un «monito» morale per chi viva senza la filosofia di Epicuro, e non potrà che dolersi (Ch. Segal, E. Foster). Neppure è in questione solo, com’è stato detto, una «prova» per chi, seguendo gli insegnamenti dell’opera fino a quel punto, ne abbia infine accolto i principî (D. Clay, T. Stover). Piuttosto, ne va del solo modo in cui il filosofo può, nel suo poema, descrivere la natura di un’epidemia: come «semi di cose che si spostano», come corpi in incessante contagio, in imprevedibile moto di aggregazione e disgregazione.
«Lucrezio non ha mai descritto per altre ragioni che per dimostrare», osservava il giovane Henri Bergson in un commento al poema per i suoi studenti. «Malgrado la serenità che trapela», lo sguardo del poeta non sembra impassibile, ma è colto «da una pietà dolorosa». Non tuttavia per le sofferenze della morte e della pestilenza, ma per la vita «timorosa» degli uomini, che solo l’abbattersi improvviso di una peste consente finalmente di vedere: «pietà per questa umanità che si agita senza risultato, che lotta senza profitto, e che le leggi inflessibili della natura trascinano nell’immenso vortice delle cose. Perché lavorare, darsi pena? Perché lottare, lamentarsi? Siamo soggetti alla legge comune, e la natura si occupa poco di noi. Basta che un vento carico di germi velenosi soffi sulla terra e nascerà un’epidemia» (Éxtraits de Lucrèce, Paris 1884, p. XII).
Lucrezio
De rerum natura
libro VI (estratti)
(vv. 1090-1105)
Quale causa abbia il morbo e da dove
repentina e mortifera nasca
la forza per l’uomo e le greggi morbosa
esporrò.
Di tutte le cose vi sono semi
– ma già lo dissi – a noi vitali.
Altri semi, che a morbi e morti
conducono, volano a fiotti. Sorgono
a caso, turbano il cielo, morbosa
rendono l’aria. Tale pestilità
o giunge estranea, da nuvole e nebbie,
dall’alto in basso, o dalla terra,
dal di sotto sgorga, quando si spacca,
umida prima di piogge improvvise,
l’attimo dopo percossa dal sole.
(vv. 1138-1162)
Queste ragioni e questo calore
mortifero gli agri funestarono
di Cècrope. Devastate le vie,
vuotò la città. Nata ai confini d’Egitto,
venne per aria e per campi natanti.
Il popolo di Pandione assalì –
gli Ateniesi a schiere morirono.
Un infuocato bollore nel capo,
occhi di fiamma fra torbida luce.
Grondava su per la gola un sudore
di sangue. Chiuso era il varco alla voce
da ulcere. Altro sangue sgorgava
dalla lingua, interprete dell’anima,
grave al moto, ruvida al tatto.
E nel petto scendeva dalla gola
la forza del morbo, giungeva al cuore –
le barriere della vita cedevano.
Un tetro odore volgeva nel fiato,
rancido olezzo sopra i cadaveri
abbandonati. Le forze dell’anima
e del corpo allo stremo penavano.
Dei loro mali un’ansiosa angoscia
era compagna, e lamenti e gemiti.
E un singulto frequente, notte e giorno,
forzava i nervi, tendeva le membra,
disgregava i corpi, sfiniti, affaticando.
(vv. 1267-1285)
Molti, sparsi in luoghi aperti e per strade,
languide le membra, semivive,
avresti veduto allora perire
– orrido fetore, coperte di stracci,
lordura: pelle, non corpi, su ossa,
da ulcere tetre, sorde, sepolta.
I santuari degli dèi si colmarono
di corpi esanimi. Dei celesti
i templi erano ingombri di cadaveri,
ospiti trascinati dai custodi.
Né religione né maestà degli dèi
più contava: dolore li eccedeva.
Né più il costume della sepoltura
che un popolo aduso a inumare i defunti
conosce. Si agitavano i superstiti,
scossi, chi di qua chi di là, e ognuno,
come meglio poteva, inumava
i suoi cari. Mestizia su tutte le cose.
Si assuefà l’uomo a molti orrori
per necessità e per povertà –
vi era chi i propri consanguinei
sopra roghi gettava costrutti per altri,
smodate grida, e la torcia accostava –
Si abbandonavano alle risse, allora,
in luogo di abbandonare i corpi.