Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Domenico Rea - Il virus siamo noi

A cura di
Elenio Cicchini e Raimondo Di Maio
2 aprile 2020

 Dall’Asia meridionale, il vibrione del colera aveva raggiunto il Nord Africa nel 1971, e nel mese di agosto del 1973 si diffuse a Torre del Greco e a Napoli. La stampa ne individuò il veicolo dapprima in un pescatore, in seguito in una partita di cozze. 

    L’istantaneo risorgere dell’antico male fece dilagare la psicosi fra i quartieri di Napoli. Domenico Rea ne trasse un racconto-denuncia pubblicato sulle pagine dell’Espresso del 9 settembre 1973. Il contesto era tanto saturo di encomi per le misure eccezionali adottate dalle istituzioni, quanto vacuo di attenzione per l’indigenza in cui versava la «Napoli plebea» – la vera protagonista dei racconti dello scrittore, dall’elogio del contrabbando (Breve storia del contrabbando, 1949) (dove la plebe avventuriera, dopo aver sfamato col contrabbando la borghesia, venne da questa cinicamente schiacciata) a quello degli scugnizzi (I bambini di Napoli, 1955). 

    Ma complice di tale miseria era, secondo Rea, la stessa letteratura del folclore. Incline a un’ipocrita compassione di quel mondo, lo sguardo borghese piantava la propria «colonna d’ingiustizia in mezzo al dissonante cuore della plebe» (Le due Napoli. Saggio sul carattere dei napoletani, 1961). 

    Per capire l’essenza della città, scrive Rea, occorre invece leggere il diario della peste di Londra di Daniel Defoe: l’epidemia non fa che rivelare il vero volto delle metropoli. Napoli, come Londra o Bombay (Bombay: l’estasi della fame, 1985), è divisa fra una classe di vinti, fuori dalla storia, e una classe di possidenti, una gestione della miseria e una produzione della ricchezza. Nel mezzo, accanto agli artigiani, una folla di lavoratori che entrano ed escono «infarinati» dalle fabbriche.

    Così, il colera non era affatto importato da un corallaro d’oltremare – esso attecchiva, piuttosto, nel disprezzo che «l’altra città», quella di benestanti e notabili, nutriva per il proprio «sottomondo».

    Parimenti, anche la cozza – la «cara cozzeca» che, secondo l’apologo di Edoardo, non salva più «manco Giesù Cristo; o l’ergastolo, o fucilata» (L’imputato, 1973) –, spugna porosa dello sversamento dei rifiuti in mare, era il solido guscio dietro cui celare le ragioni dell’allevamento intensivo e del costante incremento del pescato. 

    Il virus era dunque l’uomo – e l’uomo era la cozza: lo scoglio di malafede dove, in cambio di un piatto di edilizia, pulizie straordinarie o vaccino, si nascondeva l’opportunità di cambiare il paradigma economico e le annesse condizioni materiali.

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Estratti da D. Rea, “Colera: il virus siamo noi”, 1973

Mi reco al mercato della Torretta per acquistare una decina di barattoli di birra e un paio di bottiglie di vino. Il venditore può soddisfare in parte la mia richiesta. Acque minerali, vino, birra, Coca Cola sono andate a ruba.

    «Siete soddisfatto» chiedo all’uomo.

    «Mi farebbe piacere vendere così tutti i giorni, ma non in occasioni come queste. Il colera non fa piacere a nessuno».

 

    «Ce l’abbiamo fatta con la spagnola e ce la faremo con il colera. Allora io ero ragazzina e ci davano da mangiare l’aglio crudo. Due, tre spicchi d’aglio nell’intestino e i vermi della spagnola se ne fuggivano. Allora la spagnola la portò un soldato dalla guerra e ora il colera qualche marittimo corallaro, con la differenza che allora Napoli odorava, ora puzza. Si cammina nella porcheria, signore mio, dentro i vicoli. Ho lavato e sciacquato il mio basso con la varecchina. Di lisoformio non se ne trova da nessuna parte. Ho ucciso cinque scarafaggi, ho tolto tutte le formiche e apro solo a chi conosco».

   

    «Donna Rita abita al vicolo Forno, già vico Cucca. Non sapete dove si trova?» (Lo conosco bene. C’è una trattoria popolarissima. Bisogna addentrarvicisi muniti di scafandro.) «È una gran signora: una pulitona. Sta sempre con le mani nell’acqua. Prendessero tutti esempio da lei. Che basso! Che splendore! Ora non saremmo dove siamo: “dint’ ’a schiffezza, dint’ ’a purcarìa”, con le zoccole (i topi) che vanno e vengono, umide di merda e sempre affamate. Nella pulizia generale di questa notte della città di Napoli, mio marito e mio cognato ne hanno ucciso quattro».

   

    «Sì, le cozze!» esclama la Lunga. «Ogni mattina dovrebbero fare una pulizia radicale, con la pompa grossa, con acqua e lisoformio e dovrebbero rimettere in servizio i vecchi spazzini, quelli che non si schifavano di mettere le mani per terra. Questi di oggi, signore mio, vengono con i guanti… con gli stivali…»

   

    «Vergogna, ci voleva il colera per fare un po’ di pulizia» dice il venditore di acque. «Se ci salviamo, se quella bella Madonna del Rosario ci fa la grazia e ce la deve fare, altrimenti sarebbe troppo un’ingiustizia, sapete che vi dico» dice la Lunga «che bisogna ringraziare questa specie di colera se rivedremo Napoli un poco più pulita».

   

    Mi dispiace per noi tutti, napoletani e italiani, ma questa conversazione, non insolita e al limite dell’assurdo nel 1973, retrodatabile a piacere nella storia napoletana, meritava di essere riportata […]; in essa ci sono tutte le chiavi per aprire le vecchie e cadenti porte del sottomondo napoletano, schiacciato da insulti e vituperi d’ogni specie e, più che in antico, staccato come un satellite alla deriva, dall’altra Napoli, che ha la funzione di un mero insediamento coloniale.

   

    Trent’anni fa scrivevo dei trecentomila napoletani che la mattina si alzavano in cerca di qualcosa da fare, oggi l’esercito si è ingrossato. […] Trent’anni fa, al grido «chi fuma», le bambine venivano avviate alla prostituzione e in quest’anno di grazia, insieme all’India, siamo l’unico deposito di ragazzette del mondo occidentale destinate, educate e ammaestrate ai giochi infami che nel Settecento fecero inorridire persino il De Sade in visita a Napoli. Trent’anni fa andavi al Borgo Marinaro, alle trattorie sul mare, ma come alle Isole Capoverde trovavi i ragazzi che per un soldo si tuffavano nell’acqua e oggi per cento lire fanno lo stesso. Gridano: «A me! A me!» Cristo li solleverebbe nel cielo. Gli uomini li sprofondano sott’acqua.

   

    Qua tutto è vecchio, rognoso, umido, puzzolente; e lo diventa sempre di più, incarnato, perché per un po’ di pulizia, ben lontana da una raggiunta nettezza, c’è bisogno del cataclisma di una peste o di un colera. Della paura collettiva. “L’autorità” – ente astratto, che chi sa dove si trova –, come dice la gente, addebita alle cozze o all’arrivo di “un marittimo” infetto il focolaio originario dell’infezione. E sarà. Ma questa è una giustificazione valida per gli altri paesi non per l’abitato napoletano dove chiunque, dopo una fuggevole visita, è costretto a chiedersi come mai la città sia sopravvissuta a se stessa; perché questa è Napoli: un territorio in quarantena.

    Lo sanno bene gli abitanti dell’altra Napoli, i quali, se non vi sono costretti da forza maggiore, evitano di attraversare i quartieri; non soltanto per non vedervi la realtà e per non riconoscersi nei loro concittadini, vittime di una nascita sbagliata – giacché stiamo ancora a questo – ma per non venire a contatto con gente, pulitissima per se stessa, ma che entra ed esce da edifizi e fabbriche in cui uno finisce per infarinarsi, se non nella sporcizia, nel cattivo odore, nel muffido di secoli.

   

    Se oggi i nobili o i paranobili con il seguito degli arricchiti e dei burocrati vivono a Caracciolo, a Posillipo, o a via Petrarca – strade sommariamente pulite – quando vivevano a Spaccanapoli si mantenevano al riparo come sui trampoli al piano nobile e giù, agli altri di cattiva nascita, buttavano gli avanzi. Collegati a questi avanzi c’è il termine “zandraglia”. Lunghissima la diatriba filologica su questo lessema. Ci hanno messo bocca Croce, Nicolini, Doria, e altri numi della storia patria e si è addivenuti a un accordo nel dire che fosse il richiamo di soldati francesi, accampati nei quartieri, i quali, consumato il rancio, uscivano fuori la caserma e al grido di «Zandrà! Zandrà!» buttavano fuori sul lastrico, allora privo di fogne, i rimasugli delle loro brodaglie. I napoletani, non lo si dimentichi, si buttavano carponi e succhiavano la sbobba.

   

    E gli altri? Le centinaia di migliaia di altri? Ma chi sono? Dove sono? Nell’altra Napoli. La mancanza di spirito di socialità e di solidarietà ha in questa terra la sua ultima e imprendibile roccaforte.



Si ringrazia Lucia Rea per aver concesso la ripubblicazione




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