Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Tempo sospeso - Tre poesie di Francesco Giusti

a cura di
Elenio Cicchini e Nicoletta Di Vita
2 aprile 2020

Francesco Giusti è un poeta di Venezia. Ogni giorno, fra il Campo dell’Anatomia e quello di San Giacomo dell’Orio, sale-scende il ponte un numero imprecisato di volte. Non lo può ora – è la quarantena –, malgrado il suo corpo necessiti di movimento, del passeggiare.
Nella stanza che imita fedelmente l’archivio squinternato di Babele, fra cascami di libri e scartafacci, continua silente la sua vocazione. 
La sua è una poesia che registra puntualmente, giorno dopo giorno, le minute variazioni che occorrono nel pendulo passeggiare fra i due campi. Ma è la stanza stessa, sono gli interni della casa, a trasferirsi spesso nei suoi versi. 
Così ora, in questo tempo sospeso, casa e quartiere si toccano senza confine: in quei pochi metri quadri – come le tre poesie inedite, che qui si presentano, sillabano – la chiave che apre la «porta a doppia mandata» della vita è nelle stesse cose infime («poco più de robe»), tra «un bicchiere di latte» e una «camuffata preghiera».

 

LE TRE MORTI

O morte prima, o morte ultima,
in mezzo quest’altra tenete sorella, ala che
più vera ci coglie: morte vicina che dura una vita,
morte travestita, che ci vende il pane, morte
tra due colonne, che piglia, che prende una sedia
e ti si siede accanto. Morte grande
morte piccina, un bicchiere di latte una
camuffata preghiera. Tra tu prima e tu ultima,
questa vestita da sposa, questa che volo d’occhi mi ruba, c’è,
quando si tuffa sui tetti silenti, sopra camini
che son minareti, agglomerati rami, gridi da uccelli lanciati
fuori dentro notti che dal loro alveo folli tracimano – 
lo scialle bianco perla del cielo assieme chiaro e scuro
lo stacca presto dal chiodo e prima che svenga il truccato incanto,
con un mezzo giro, tolto il belletto, ce lo getta addosso.


COSA CI VIENE DALL’EREDITÀ DEL MATTINO

Scegliamo più l’idea di cormorano
che il cormorano – quando
guardiamo le ali sbattere
sopra un’idea di acqua si alza l’acqua,
porta via idea di cormorano, cormorano, acqua –
restiamo noi che la guardiamo indossare
il lenzuolo del fantasma, andarsene,
lasciarci neri voli di vuoto – l’astuccio
nero del canale, anch’esso
vuoto.



COL RESPIRO CHE LO SERA IN CASA*

Campana e campaniel,
come li fusse de là del confin, torno torno
a 'na sera che la mor co se alza
sto vento de giazzo che ghe ne basta un s'ciantin
a tajar curto, a morsegarte de silenzi pieni de denti,
a metar sgrissoli su la schena scura scura
de un'aqua tuta ondesele e no ga più lagrime
chi va drio muro come un'ombra
che cassae fora le ciave la se perde
nel vodo de case indove sole resta le tole
pareciae in furia par niente.
No, no ghe ze el corajo,
serada dopia mandada la porta,
de sentarse uno de fronte a chealtro,
a pusarse i oci nei oci. Ognun per conto suo, sto
dono che dona quel che vardemo
par ch'el perda color, tempo de pensieri
che li fadiga a vegnir, che li zera vegnui,
che li vegnarà. Poco più de robe se se trova,
in un s'cioco de dei uno da 'naltro distante, 'desso
chel respirar ze 'na colpa, roba granda
che spasima, che i dise la fassa lontani
più del zogo de qualsiasi caligoso doman.

CON IL RESPIRO CHE LO CHIUDE IN CASA    Campana e campanile, / come fossero di là dal confine, attorno attorno / a una sera che muore quando si alza / questo vento di ghiaccio che ne basta un poco / a farla corta, a morsicarti di silenzi pieni di denti, / a mettere brividi sulla schiena scura scura / di un’acqua tutta minuscole onde e non ha più lacrime / chi va lungo il muro come un’ombra / che cacciate fuori le chiavi si perde / nel vuoto di case dove sole restano le tavole / apparecchiate in fretta per nulla. / No, non c’è il coraggio / chiusa a doppia mandata la porta / di sedersi uno di fronte all’altro, / ad appoggiarci gli occhi negli occhi. Ognuno per conto suo, questo / dono che dona quel che guardiamo / sembra che perda colore, tempo di pensieri / che faticano a venire, che erano venuti, / che verranno. Poco più di cose ci si trova, / in uno schiocco di dita uno dall’altro lontani, adesso / che il respirare è una colpa, cosa grande / che spasima, che dicono faccia distanti / più del gioco di qualsiasi nebbioso domani. 

* La poesia è tratta dall’opuscolo a tiratura limitata Virus (Ossidiana edizioni, Venezia, marzo 2020).


Francesco Giusti è nato a Venezia nel 1952. Tra i suoi libri di poesia,
Accanto ai denti dell’eterno (Di Felice 2012), De un dir apocrifo (Campanotto 2014), E torna l’autunno (The Writer 2016), Senza nome (Campanotto 2017), Quando le ombre si staccano dal muro (Quodlibet 2019). Su di lui hanno scritto Paolo Ruffilli, Giorgio Agamben, Annelisa Alleva, Tommaso Ottonieri, Franco Beltrametti, Elenio Cicchini, Giulia Nicolai, Pier Franco Uliana, Paolo Leoncini.






 

Letto 3887 volte