Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Flavio Cuniberto - Riflessioni sulla pandemia come guerra civile mondiale

7 aprile 2020

 

  1. Nessun evento della storia recente – neanche il fatale 11 Settembre, o le periodiche emergenze terroristiche, e nemmeno la grande ondata migratoria degli anni recenti – ha suscitato una ridda di reazioni contrastanti o convergenti paragonabile all’attuale fibrillazione planetaria. Una fibrillazione sostanziata da quell’emozione primitiva che è la paura, o anche solo il sospetto del pericolo. In questo variegato scenario, il filosofo o presunto tale sconta la debolezza congenita di un sapere non-tecnico per definizione (che i filosofi non si indignino: è così). Una condizione di outsider epistemologico che non impedisce al filosofo di intervenire, anzi lo stimola, nel suo tipico stile «senza qualità» (si potrebbe anzi già costruire un piccolo florilegio di interventi filosofici di livello, da Žižek a Nancy, da Agamben a Byung-Chul Han e così via). 

 

  1. Adottando l’approccio metodologico della «nota in margine», vorrei partire da un’osservazione in apparenza del tutto marginale: come mettere una lente d’ingrandimento su un dettaglio minimo, e accorgersi poi che quel dettaglio può fare molta strada. Il dettaglio è l’uso del termine «ricostruzione». Proiettandosi verso il dopo-crisi, esponenti autorevoli della scena politica parlano apertamente della futura «ricostruzione», azzardando perfino (è il caso di Roberto Gualtieri) un parallelo epocale col famoso Piano Marshall dell’immediato dopoguerra. Il termine suggerisce una presunta analogia col ’45: l’Italia in ginocchio, avviata appunto alla «ricostruzione». 

Se le metafore hanno una loro disciplina segreta che le rende più o meno felici, questa è una metafora infelice: non risulta che mesi di bombardamenti aerei abbiano demolito le città, le infrastrutture, scuole e ospedali. Al contrario – e restando nella cornice di un film apocalittico – le città spettralmente vuote fanno pensare piuttosto a un ordigno nucleare molto sofisticato, che sterminando la popolazione abbia lasciato intatte le strutture architettoniche. L’epidemia non ha distrutto nulla: ha paralizzato un paese (e mezzo mondo). Non di ricostruire si tratta, ma di ripartire: tutte le attività innaturalmente sospese, come per un singolare sortilegio o «malefizio», dovranno in un modo o nell’altro rianimarsi, rimettersi in movimento, ripartire. 

 

  1. Perché allora «ricostruzione»? La metafora infelice lascia intendere che negli ambienti politici e politico-economici più direttamente coinvolti dall’emergenza, il programma a cui si accennava sta già prendendo forma, almeno nelle dimensioni del suo impegno economico. Sono infatti le dimensioni finanziarie del programma – e nient’altro – a giustificare il parallelo con la ricostruzione post-bellica. Fonti attendibili prospettano già un aumento vertiginoso del debito pubblico, che dovrebbe-potrebbe raggiungere nel 2021 l’astronomica quota del 150% sul PIL. Sulla sostenibilità di un simile faraonico programma starà ai tecnici pronunciarsi. Resta la previsione di un indebitamento colossale – di dimensioni post-belliche – che renderà ancora più cruciale il ruolo del sistema creditizio, grande stella fissa al centro di tutto.

 

  1. Ma lo scenario di guerra che giustifica in qualche modo il lapsus linguistico della «ricostruzione» serpeggia ovunque, per altre vie. A partire dal «nous sommes en guerre» di Macron e dai «medici in trincea», la pandemia viene percepita essa stessa come un evento di natura bellica. Viene evocato il «colpo di pistola» di Sarajevo (Giulio Tremonti: «è come Sarajevo 1914»; o Giuseppe Maronta, Il coronavirus e i mercati finanziari: siamo a Sarajevo 1914, «Limes-online», marzo 2020). Sempre e solo in via di metafora? 

Si aprirebbero qui scenari differenti: dall’ipotesi «cospirativa» della guerra batteriologica, respinta da tutte le fonti scientifiche ufficiali e certamente indimostrabile, ma – la cosa è interessante – nemmeno del tutto accantonabile, essendo indimostrabile anche l’ipotesi prevalente dell’origine naturale; al fatto che l’«economia di guerra» avrà comunque vincitori e vinti, si conteranno le vittime, lo sciacallaggio sarà sistematico, qualcuno ne uscirà rafforzato e forse con la «corona» della Vittoria (la corona di chi sarà uscito, se non indenne, meno danneggiato dalla catastrofe). Né va trascurata una circostanza ulteriore (che contribuisce al clima di guerra): è questa infatti la prima pandemia della storia (l’influenza suina del 2009-2010 non è paragonabile) che si manifesta in concomitanza con una sempre più intensa e minacciosa attività di ricerca in campo batteriologico e anche batteriologico-militare (Si veda l’ottimo lavoro di Roberto Felician, Le armi di distruzione di massa, tesi di dottorato presso l’Università di Trieste e lo IASD). 

Se è vero che il «post hoc» non è un «propter hoc», la concomitanza non è una causa ma contribuisce a creare un clima. La vicinanza fisica tra il mercato di Wuhan e i famosi laboratori batteriologici non è un nesso causale, ma aleggia come un Perturbante incontrollabile nell’«immaginario» collettivo. 

 

  1. Anche variando il punto di vista, la fisionomia «bellica» della pandemia si irrobustisce (per non parlare degli ingredienti eccezionali della vita quotidiana: la quarantena-coprifuoco, la tessera annonaria per gli indigenti, gli ospedali da campo, i discorsi alla Nazione, l’autocertificazione come salvacondotto ecc. ecc.). Siamo sempre nella Grande Metafora. 

Può chiamarsi «guerra» una situazione in cui non esistono potenze in conflitto (diretto) tra loro, ma il conflitto sembra piuttosto accomunare l’intera «comunità mondiale» contro un nemico non umano e invisibile? Va da sé che le tensioni fra le grandi aree sono fortissime, e che scenari strategici elaborati in tempi non recenti prevedevano che lo scontro tra l’impero americano in difficoltà e la potenza cinese in ascesa sarebbe entrato nella fase «calda» proprio intorno al 2020. Una circostanza, quest’ultima, che non viene riferita dai media, ma che – a soppesarla – si aggiunge alle considerazioni precedenti sull’«escalation» delle ricerche batteriologico-militari, e che alimenta, una volta di più, quella sensazione che una vecchia immagine definisce come «venti di guerra». Ma solo «venti», o la guerra è già in atto? Si direbbe insomma un caso «borderline», tra il metaforico e il letterale.

 

  1. Per concludere. Negata come guerra in senso proprio, la pandemia viene affrontata come una guerra, utilizzandone ossessivamente il linguaggio e gli scenari. Questo passaggio dal senso letterale al senso metaforico potrà apparire ovvio e anche innocuo. Non lo è affatto. Per quanto naturale – e non militare – possa essere la sua origine, la pandemia ha attivato una mentalità di guerra (una «attesa di guerra») ormai latente da tempo, e in attesa dell’occasione giusta per manifestarsi. Il virus di Wuhan ha «catalizzato» un processo che era nell’aria da tempo. Dunque non è una guerra metaforica: è una guerra reale «sotto mentite spoglie». Il Nemico invisibile – che c’è – è solo il grandioso e in fondo misterioso pretesto per accendere uno scenario niente affatto metaforico di guerra civile mondiale. 
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