Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

6 aprile 2020

 Noi esseri umani sappiamo bene che le nostre vite sono sempre percorse da un contagio che riguarda idee, parole, immagini, stati d’animo, e via discorrendo: è la dinamica tipica di ciò che chiamiamo “cultura”. Il Covid-19 o Coronavirus è il protagonista di un contagio biologico e naturale, evidentemente, ma anche di una parallela propagazione sociale e culturale: una diffusione simbolica, che non richiede contatto e vicinanza e ha fatto proliferare scritti, diari, video, post, immagini, disegni e quant’altro.

È normale: in questo turbinio di flussi comunicativi, si trova qualcosa di interessante e intelligente e qualcosa di imbarazzante e inopportuno – anche il contagio simbolico può determinare una mancanza d’aria, questa volta tra i pensieri. A ogni modo, questa moltiplicazione delle prese di posizione testimonia il bisogno di orientarsi e orientare, di provare a capire dove siamo, che cosa sta succedendo e dove ci ritroveremo.

Ovviamente, a questo sforzo si stanno dedicando anche i filosofi; anzi, forse essi si sentono particolarmente chiamati a dire la propria, perché se la voce dei filosofi non si fa sentire in tempi di isolamento con se stessi e i propri pensieri, quando mai dovrebbe allora farsi sentire? Oltretutto, dovendo passare più tempo a casa, chi è più portato a leggere e scrivere o lo fa “di lavoro” avrà più tempo per dedicarsi a tali attività: ecco che il dado è tratto.

C’è un aspetto che mi sta particolarmente colpendo dei numerosi interventi di filosofi, più o meno di spessore, che si stanno susseguendo in queste settimane. E no, non mi riferisco ad alcune “analisi” onestamente imbarazzanti di supposti Filosofi, né alle polemiche, talora di basso tenore, che ne sono scaturite – su tutta la diatriba, sto via via raccogliendo materiali per cercare di fare il punto quando sarà passata acqua sotto ai ponti qb.

Mi riferisco piuttosto a questo: ho notato che i vari interventi dicono molto dei punti di vista (idee, paradigmi, modi di pensare, maniere di inquadrare, ecc.) dei loro autori. Dicono invece meno, paradossalmente, di quanto sta effettivamente accadendo, degli stati di cose a cui ci si dovrebbe star riferendo. Questo, a ben vedere, non vale solo per i filosofi o presunti tali, ma anche più in generale; al limite, per i filosofi la cosa è più accentuata, persino evidente, dato che essi si esercitano di professione nell’elaborazione di visioni sulle cose e quindi hanno una prospettiva personale più nitida e strutturata – qualcuno potrebbe aspettarsi che ciò li dovrebbe rendere “più oggettivi”, ma questa ora è un’altra faccenda.

Ho quindi provato a chiedermi il significato di questa “viralità filosofica”, che – va da sé – è entrata nel radar della mia attenzione perché a mia volta mi muovo in un determinato orizzonte prospettico, in cui essa ha una qualche rilevanza.

Sulle prime, ho pensato (continuo in parte a pensarlo) che questo gioco di voci sia rivelativo del metodo di lavoro dei filosofi in Italia, che li vede ancora troppo spesso impegnati a produrre teorie complessive che poi andrebbero semplicemente applicate ai vari casi, senza curarsi troppo di numeri e dati. D’altronde, anche per ragioni storico-culturali, i pensatori italiani che vanno per la maggiore sono ancora oggi metafisici, filosofi morali e politici, non certo filosofi della scienza o epistemologi.

Non a caso, la figura del filosofo-vate o filosofo-illuminato in Italia (certo non solo) è ancora molto diffusa e accomuna figure che indubbiamente hanno capacità e consistenza poco paragonabili (basta pensare a ciò che passa da Cacciari a Fusaro, per capirci), ma che comunque condividono una certa noncuranza per l’analisi empirica e puntuale dei fenomeni, in ragione di una diffidenza di fondo nei confronti della scienza (sempre rigorosamente al singolare), come se – per essere icastici – una parola greca fosse sempre meglio di una curva statistica e ancor più di uno strumento tecnico. Per essere ancora più esplicito, confesso che ho temuto che quell’ormai famoso servizio della trasmissione Leonardo del 2015 diventasse l’occasione per qualche eminente pensatore per dire che magari il virus non viene effettivamente da quei laboratori, ma nondimeno una simile coincidenza dovrebbe far riflettere su quanto sia pericoloso l’essere umano che gioca a fare Dio.

(Probabilmente, un pensatore che avrebbe spiccato in questo momento, per ragioni di indole personale come di attitudine professionale, sarebbe stato Remo Bodei, che ahimè attende ancora che sia raccolto il suo testimone)

Eppure, i filosofi sono soltanto una parte di coloro che stanno dicendo la propria – mi son detto: dovrà allora esserci una motivazione ben più rilevante e profonda, una ragione più complessiva. Mi sono quindi chiesto: che cos’è a spingere i filosofi e noi tutti a cercare risposte e a provare a darle? Mi sono risposto che a spingerci è il fatto di star vivendo nel cuore di un evento, anzi, ben di più, di un evento collettivo epocale, un evento storico. Molto semplice – forse troppo, ma mi spiego.

Ho provato a chiedermi che cosa possa caratterizzare eventi di tale portata e far sì che essi generino delle reazioni così variegate; la risposta che mi sono dato è banale, ma credo efficace: un evento, quando è tale, cioè radicale come quello che ci ha investito, è un punto interrogativo. Ora, chi ha vissuto un qualche evento veramente “traumatico” nella propria vita intuisce sùbito che cosa ciò significhi, ma qui siamo di fronte a qualcosa che investe tutti (in questo caso letteralmente), così da rendere decisamente più difficile – per certi versi impossibile, anche ai filosofi – avere un qualche appiglio e riferimento per sciogliere l’enigma.

Per intenderci, se perdo una gamba perché sono stato assalito da uno squinternato armato di machete, è indubbio che si tratta di un vis-à-vis tra me e quell’evento, ma è anche vero che potrei trovare una qualche leva per affrontare la situazione in racconti di persone che hanno vissuto esperienze simili, o nell’azione di medici che hanno compiuto interventi analoghi a quello che mi toccherà, e così via. Quando invece siamo tutti presi di sorpresa, lo smarrimento diventa estremo e – in mancanza di punti di appoggio – ciascuno reagirà a modo proprio. Per inciso, questo smarrimento radicale si diffonde anche a livello economico: agli economisti, sono note situazioni in cui si dà o uno shock dell’offerta (si smette di produrre), o uno shock della domanda (si smette di consumare), o uno shock dell’intermediazione commerciale (si smette di commerciare), con varie combinazioni che però non prevedono la compresenza di tutti e tre i fenomeni di crisi (salvo in guerre mondiali). Bene, ora siamo proprio nel mezzo di un simile scenario (potenza dei micro-organismi).

In questo senso, più un evento prende la forma di un punto interrogativo, più quello che diremo e faremo rivelerà qualcosa di noi stessi, anziché qualcosa della natura di quell’evento. Ecco dunque il perché di reazioni così diverse: ha fatto irruzione nelle nostre vite un elemento, una variabile impazzita, che rovescia e rimescola le carte, che costringe e costringerà a riorganizzare la vita singolare e collettiva a partire da e intorno ai suoi sviluppi. Sviluppi che non sono noti a nessuno, per quanto tutti si sforzino di decifrarli e prefigurarli, ciascuno – filosofi compresi – con i propri strumenti, con le proprie lenti e con la propria sensibilità: ecco farsi largo la consapevolezza che niente tornerà mai come prima, sempre unita però al tentativo di raffigurare il futuro avvalendosi di qualcosa che fa parte del passato o del presente. Perché in realtà la consapevolezza minimale e immediata che un evento del genere porta è esattamente questa estrema insicurezza su ciò che sta avvenendo, prima ancora che su ciò che avverrà: a simile insicurezza, si reagisce dando il maggior numero di risposte possibili da sùbito, un po’ alla cieca.

Quello che spiazza e forse spaventa di un tale evento è il suo carattere aleatorio, la sua vaghezza, che però spiega anche la molteplicità dei tentativi di interpretarla: qualcosa di vago si presta a molte letture, le supporta anzi persino le sollecita, fa risuonare reazioni diverse, agisce come un moltiplicatore di punti di vista sullo “stesso”, che però ha appunto la veste contorta di “?”. In questo senso, verrebbe da dire che un evento è in quanto tale virulento, dotato di una carica virale legata a questa capacità di scardinare certezze, smuovere consuetudini, suscitare reazioni e far riprendere posizione – di innescare trasformazioni. Un evento non è un fatto, che ha pur sempre un carattere determinato e oggettivo, perché rimanda a qualcosa di accertabile e riscontrabile (nella sua forma lineare di “!”); anzi, quando si è investiti da un evento, i contorni netti cominciano a sfumarsi e le possibilità – anche le più negative – si aprono: gli eventi hanno sempre conseguenze, chissà quali.

Personalmente, una delle cose che più mi lascia perplesso è la sfida radicale posta al rapporto con il “proprio corpo”. Siamo abituati a considerarlo il luogo di noi stessi, la cosa più nostra, intima e inalienabile che ci sia, per la quale soltanto noi siamo responsabili e di cui possiamo persino abusare, perché è nel nostro corpo che prenderebbe forma concreta il fatto che in fondo la nostra vita è soltanto nostra. Ora, stiamo invece cominciando a dover fare i conti con il fatto che il nostro corpo può diventare persino un’arma per il solo fatto di esserci, così da presentarsi come fonte di pericolo per gli altri, prima ancora che per noi stessi. Quante volte ci capiterà in futuro di chiederci se non siamo nel novero dei pericolosi positivi asintomatici? Quanto dovremo attendere per vedere fenomeni analoghi a quelli dei malati di HIV che – per un misto tra senso di vendetta, gioco morboso e disorientata disperazione – si dedicano a contagiare volontariamente altre persone inconsapevoli? È così insensato immaginare che un kamikaze in futuro agirà tossendo o starnutendo, o persino semplicemente stando tra altri corpi?

Insomma, un evento non fa che lasciarci immersi nel dubbio. Tuttavia, è in simili frangenti che bisogna essere attenti a non dimenticare che non tutti i dubbi sono uguali: il dubbio sollevato con apparente ingenuità dai complottisti di ogni sorta non è uguale al dubbio fatto valere da uno studioso conclamato di relazioni internazionali, né tantomeno al dubbio avanzato con metodo e cautela dal virologo. Insomma, è importante tener presente che non sapere si dice in molti modi: quando so di non sapere in quale cassetto Giorgio ha nascosto la mascherina che ho comprato sono insipiente; quando so di non sapere con sicurezza se quel farmaco è efficace per guarire dal Covid-19 sono incerto; quando non so di non sapere come agisce un virus sono ignorante. E a ciascuno di questi tipi di dubbio, si deve rispondere in maniere diverse.

Per certi versi, l’evento dentro cui siamo lascia in eredità prima di tutto questa necessità di prestare attenzione alle forme del dubbio – perlomeno a chi può permettersene il lusso. Di sicuro, i filosofi innanzitutto di questo potrebbero e dovrebbero occuparsi.



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