“Combattiamo un nemico invisibile”. Ogni giorno viene emesso un bollettino (di guerra) in cui sono conteggiate le vittime, i sopravvissuti, coloro che hanno cominciato a combattere. Medici e infermieri sono diventati i nostri eroi, sono “soldati schierati in trincea” che “combattono in prima linea” per “difenderci” e “sconfiggere il nemico”. Epidemiologi, virologi, esponenti dell’Istituto Superiore di Sanità sono gli “strateghi” di questa “guerra”, dettano le mosse da compiere per “fronteggiare il nemico”, per “stanarlo”, per “prevederne le mosse”, per “difenderci dai suoi attacchi”. Chi governa decreta l’attuazione di queste mosse. Le armi scarseggiano e sono spesso inadeguate alla forza invisibile del nemico. L’arma vincente non è ancora disponibile, si sta tentando di crearla in tempi brevi. Ci sono le zone rosse: quelle “occupate” maggiormente dal nemico, quelle dove la battaglia si è fatta dura e disumana. Poi ci sono le previsioni (di guerra): quanti caduti? Quanti feriti? Quanti territori riuscirà a occupare il nemico? Quando vinceremo la battaglia? Quando finirà questa guerra? I “nemici della patria” sono sempre sotto stretta sorveglianza. Sono quelli che si rifiutano di usare le armi e combattere? Sono quelli che non hanno capito che “siamo in guerra” e continuano ad andarsene in giro senza rispettare le distanze di sicurezza? Quelli che non indossano le mascherine? O forse, ancor più, quelli che, “attaccati dal nemico”, consapevoli dell’attacco ricevuto (perché ci sono quelli attaccati a loro insaputa,) tentano di fuggire dal territorio occupato?
In questa immagine usata per narrare la pandemia di Covid-19 e la conseguente crisi che ha investito le nostre esistenze qualcosa non torna, qualcosa manca, qualcosa risulta alterato. Perché sentiamo che non basta? Perché avvertiamo delle storture? E chi avverte i limiti di questa immagine? La metafora della guerra è in grado di strutturare la percezione che ciascuno di noi, in quanto cittadino coinvolto nella crisi generata dall’autoisolamento imposto, ha di questa pandemia? La metafora della guerra rilanciata più volte sulle testate giornalistiche narra la storia che stiamo vivendo dal punto di vista politico, forse medico, ma non dal punto di vista del cittadino, non struttura la sua attuale quotidianità, neppure quella di molti pazienti affetti da Covid-19, i quali, per quanto culturalmente abituati a vivere la malattia come una battaglia, spesso non riescono neppure a trovare il tempo e lo spazio per la narrazione personale di questa malattia nei termini di una guerra. Ciascuno di noi non si comporta come se fosse in guerra. La dimensione del singolo non è quella di un campo di battaglia. E per quanto il singolo abbia l’imprescindibile responsabilità civica di evitare i comportamenti che possono causare la diffusione del virus e di correggere quelli degli altri pericolosi in tal senso, non è certo un “nemico della patria” da abbattere. La maggior parte di noi sente di vivere la propria attuale quotidianità forse più come una prigione che come una guerra. E non a caso la metafora della prigione torna spesso nelle narrazioni quotidiane di questo periodo. Non siamo più liberi di muoverci fuori dallo spazio della nostra casa, non siamo più liberi di muoverci per soddisfare esigenze che non siano considerate primarie. “Siamo agli arresti domiciliari senza aver commesso alcun reato”, qualcuno dice. Senza colpe. Senza aver mai danneggiato l’altro, bensì per prevenire il danno, per proteggere noi stessi e l’altro. L’unico modo che abbiamo per difenderci e per difendere i nostri cari dalla malattia, è quello di restare chiusi in casa, di non incontrarci, di non abbracciarci, di non baciarci, di parlare a distanza, di contenere insomma ogni slancio emotivo fisico verso l’altro. Ciascuno è costretto a rinchiudersi in uno spazio privato, spesso co-abitato, talvolta in modo asfissiante.
Il nemico è invisibile. Eppure, le nostre vite sono visibilmente e improvvisamente cambiate. Le nostre armi non sono offensive. Non ci difendiamo combattendo, ma isolandoci nelle nostre case più o meno confortevoli (ma c’è chi una casa non ce l’ha). Anche chi “resta ferito”, viene isolato, viene “curato” in isolamento casalingo o nel silenzio assordante di una stanza a pressione negativa dove non solo viene a cadere il contatto con il mondo esterno, ma anche quello con il personale sanitario costretto a un contatto “senza tatto”, nella distanza di corpi rivestiti di dispositivi di sicurezza, senza possibilità di condivisione di emozioni e sentimenti, di angosce e paure, senza il conforto degli affetti, senza sentire intorno a sé la sofferenza e la disperazione dei feriti di una guerra: intorno c’è solo il vuoto forzatamente asettico. La morte, quando sopraggiunge, non viene vissuta da parenti e amici della “vittima”, viene comunicata, viene appresa (questo sì, come avveniva per i caduti in guerra), non c’è spazio reale tra i corpi per elaborare il lutto, le emozioni negative a esso associate, non c’è spazio per la condivisione della morte. Nelle nostre città non si sentono le sirene che annunciano gli attacchi del nemico, ma al massimo quelle delle ambulanze che trasportano gli ammalati. Non vediamo la distruzione, ma c’è la solitudine e il silenzio, c’è anche qui tanto vuoto, c’è la perdita della nostra dimensione pubblica, quella reale e non quella virtuale, la quale, invece, sta guadagnando sempre più spazio nelle nostre vite. Quando la pandemia sarà passata non avremo monumenti, case, palazzi da ricostruire, ma un’economia da far ripartire rimettendo in moto le vite di ciascun cittadino, avremo modi di vivere da restaurare, magari da ripensare, ci saranno spazi e distanze sociali, affettive, pubbliche da colmare.
La riflessione sulle metafore non è una questione meramente linguistica. Come ci hanno insegnato Lakoff e Johnson, abbiamo bisogno delle metafore per comprendere e per comprenderci. Noi pensiamo e viviamo attraverso immagini, attraverso metafore. Strutturiamo la realtà, nel linguaggio, vedendo quel che accade e che ci circonda nei termini di qualcos’altro, vedendo qualcosa come qualcos’altro. Se avvertiamo che una metafora, per quanto convenzionale, non funziona in modo soddisfacente, non sembra del tutto adeguata, è perché evidentemente non soddisfa le nostre esigenze cognitive, non ci permette di comprendere in modo sensato quello che stiamo vivendo e narrando.