Loimòs (λοιμός) è la parola che i Greci utilizzavano per indicare i concetti di ‘peste’, ‘pestilenza’, ‘epidemia’. È un termine arcaico della lingua greca, attestato già in Omero per indicare, nel primo libro dell’Iliade, il morbo funesto che decima l’esercito degli Achei accampati a Troia (v. 61), causato dalle frecce infuocate di Apollo (il dio è arrabbiato per l’offesa che Agamennone ha arrecato alla figlia del sacerdote Crise). Loimòs è il termine con cui gli storici, in primis Tucidide, designano l’epidemia che nel 430 a.C. sconvolse Atene mietendo migliaia di vittime tra le quali anche Pericle. L’etimo della parola è incerto. Gli antichi lo abbinavano a limòs (λιμός), ‘carestia’ (Erodoto, Opere e giorni, v. 243, Tucidide, II, 54), ma forse è più corretto postulare un collegamento con loigòs (λοιγός), ‘rovina’, ‘strage’, come fanno i dizionari etimologici moderni (Frisk, Chantraine, Beekes). Meno verosimile il legame col verbo leìbo (λείβω), nel senso di ‘liquefarsi’, ‘struggersi’ (vecchia ipotesi di Jacob Wackernagel).
Al di là delle radici etimologiche è evidente che nel V secolo il termine aveva assunto una forte valenza evocativa, sicché non stupisce trovarlo usato anche in tragedia. Lo fa Sofocle nell’Edipo re per designare la terribile pestilenza che travolge la città di Tebe all’inizio del dramma. Il vecchio sacerdote, alla guida del corteo di supplici, ricorda al sovrano le gravi sofferenze provocate dall’«orribile pestilenza» (v. 28: λοιμὸς ἔχθιστος) che scuote la polis: morte e sterilità delle piante, degli animali e delle donne (vv. 2529). La descrizione più puntuale del malanno si svolge nella parte centrale del canto corale d’ingresso, la parodo (vv. 167 ss.), subito dopo l’invocazione ad Atena, Artemide e Apollo perché facciano cessare il male. Tra le conseguenze del flagello viene indicata anche l’impossibilità di rendere gli onori funebri ai morti per paura del contagio (vv. 180 s.), un topos delle descrizioni pestilenziali che compare anche in Tucidide (II, 52, 4) e che sarà ripreso da Lucrezio in termini ancora più esasperati e apocalittici (De rerum natura, VI, vv. 1282-86). A distanza di 2500 anni il senso di impotenza che produce il turbamento della normalità dei riti funebri risulta di un’attualità sintomatica e sconcertante.
Gli studiosi si sono spesso chiesti se il loimòs con cui si apre l’Edipo re sia da riconnettere con l’epidemia che storicamente colpì Atene, oppure se si tratti di un motivo liberamente inventato dal tragediografo. Ci sono differenze evidenti a partire dal fatto che quella di Tebe si configura come un flagello di origine divina, una piaga mitica al di fuori della storia, che si abbatte sul regno animale e vegetale provocando in primo luogo sterilità ed aborti, paragonabile per molti aspetti al flagello dell’Iliade. D’altro canto, il fatto che Sofocle utilizzi per la descrizione dell’epidemia tebana moduli letterari tradizionali, in cui prevale il motivo della infecondità animale e vegetale, non esclude di per sé che l’ispirazione sia venuta proprio dall’esperienza storica della peste ateniese. Al motivo della sterilità si accompagna infatti anche la moria degli uomini dei cui lamenti «si riempie il nero Ade» (vv. 29 s.), mentre tutta la città si volge agli altari per supplicare gli dei (vv. 182-9). La sterilità non è in questo caso alternativa, bensì complementare e conseguente rispetto a quella che si configura come un’epidemia vera e propria.
Si possono riscontrare, per altro, diverse analogie lessicali e concettuali tra il testo sofocleo e la descrizione della peste di Atene fatta da Tucidide nel secondo libro della sua opera storiografica: ciò rafforza l’ipotesi che il tragediografo abbia voluto suscitare nel pubblico il ricordo dell’epidemia storica del 430 a.C. Le corrispondenze sono molteplici e difficilmente si potrebbero spiegare tutte come elementi topici ricorrenti in descrizioni di tal tipo. Con questo non si vuole dire che Sofocle – come Tucidide – abbia anch’egli “descritto” la peste di Atene, il che sarebbe del tutto assurdo per una tragedia. Più verosimilmente il poeta ha preso spunto da quell’evento per rielaborarne il tema in forma letteraria.
Ma c’è un altro aspetto da tenere in considerazione. Prima dell’Edipo re, nessuna attestazione a noi nota della saga tebana conosce il motivo dell’epidemia che si abbatte sulla città. Naturalmente non è possibile escludere a priori, data la parzialità della nostra documentazione, che una tale versione sia esistita. Può darsi che l’introduzione di questo motivo sia stata un’innovazione al mito apportata proprio da Sofocle; oppure il tragediografo avrà ripreso e valorizzato una tradizione esistente e a noi sconosciuta. Comunque sia, possiamo immaginare che gli spettatori siano rimasti molto colpiti nell’assistere ad una tragedia sul mito di Edipo che si apriva con l’immagine della città sofferente e scossa dall’epidemia, e il pensiero sarà andato inevitabilmente al flagello che loro stessi avevano sperimentato nel 430 a.C. con la conseguenza di un fortissimo impatto emotivo.
L’innovazione apportata da Sofocle produce significative conseguenze. In primo luogo sul piano del ritmo drammaturgico: l’epidemia di Tebe e lo stato di prostrazione in cui giace la città servono ad avviare l’azione scenica presentando Edipo nelle sue caratteristiche di sovrano benvoluto e stimato da tutti i cittadini che a lui si rivolgono supplici, perché trovi un rimedio contro la malattia. Come un tempo aveva salvato la città dal pericolo della Sfinge, così ora i Tebani si attendono che Edipo faccia cessare il contagio del morbo. E il sovrano, fiero dei successi passati e della propria superiorità intellettuale, non esita a mettere in moto la sua inchiesta, dapprima ascoltando il responso dell’oracolo di Delfi, da lui fatto preventivamente consultare, quindi proclamando un bando per trovare l’uccisore di Laio, causa della contaminazione. Che la funzione dell’epidemia sia fondamentalmente quella di avviare l’azione è dimostrato dal fatto che dopo il prologo non se ne fa più menzione, a parte un fugace accenno ai vv. 635 s.
Inoltre, il motivo dell’epidemia corrisponde all’intento del poeta di porre al centro della vicenda il tema della conoscenza, che nel caso specifico è riferito al campo del sapere medico. Di fronte alla malattia che devasta la sua terra, Edipo è un Re-medico, che si assume l’onere di trovare la causa del male e il modo della guarigione. Tutto il dramma sofocleo si incentra sulla ricerca del rimedio al morbo e sulla ricostruzione di eventi passati (assassinio di Laio, origini di Edipo). Il motivo dell’intelligenza di Edipo, grazie alla quale era riuscito a risolvere l’enigma della Sfinge, era già penetrato nel mito. Ma la risemantizzazione che ne compie Sofocle espande notevolmente la capacità intellettuale di Edipo, fino a farne un vero e proprio campione dell’intelligenza, l’«emblema del personaggio che vuole sapere tutto fino alle estreme conseguenze e che non può rassegnarsi al non sapere» (Dodds).
A mano a mano che l’indagine di Edipo procede, incentrandosi dapprima sull’omicidio di Laio e quindi sulla propria vera identità, il tema della pestilenza sbiadisce, anzi scompare del tutto. Nessun personaggio ne fa più cenno. Il dramma collettivo di tutto un popolo si rivela inferiore a quello singolo del sovrano, ignaro uccisore del padre e ignaro sposo della madre, da cui ha generato quattro figli-fratelli. L’epidemia ha già cessato d’infierire quando Edipo si scopre il colpevole della contaminazione: è lui il mìasma (μίασμα v. 97) ed è lui che deve pagare perché si produca quella purificazione, katharmòs (καθαρμός), che l’oracolo di Delfi aveva indicato come necessaria per la salvezza della polis tebana. Accanto a loimòs, il termine mìasma è l’altra parola chiave del dramma (cft. vv. 241, 313, 1012): il significato è quello di ‘macchia’, ‘inquinamento’, ‘contaminazione’; propriamente indica un’emanazione che si spande nell’aria da sostanze organiche corrotte. Di fatto il re-medico Edipo scopre di essere lui stesso la malattia che voleva guarire. Da guaritore diventa morbo, e non importa che non fosse consapevole dei crimini compiuti. Il meccanismo del mìasma non è una procedura giudiziaria in cui si misura l’intenzionalità soggettiva; è qualcosa di più primordiale, di oggettivo e di inesorabile. La colpa che ha commesso e che ha scatenato il morbo va oltre i limiti dell’ordine giuridico e morale e richiede la vendetta degli dei. È una contaminazione che si espande nello spazio (coinvolgendo l’intera comunità) e nel tempo (investendo anche i discendenti della stirpe). Affinché la peste cessi, anche Edipo deve cessare, dev’essere azzerato nel suo potere e nel suo sapere. Perché Edipo è la peste, che lo voglia o no.