Mi ha sempre colpito come il termine guerra sia spesso abusato in politica. Qualunque cosa cui ci opponiamo con forza rischia di diventare una guerra: guerra al terrorismo, alla droga, alla criminalità, tutte espressioni che non brillano per chiarezza. Il Covid-19 ha immediatamente scatenato la stessa associazione. “Siamo in guerra” ha detto Macron, sono un “Wartime President” ha fatto eco Trump. Ma questa volta l’analogia ha ragioni dalla sua. Appartengo a una generazione che della guerra ha solo sentito parlare, nei racconti di famiglia, ma ritrovo nella crisi attuale – la più grave dalla fine dell’ultimo conflitto, è stata definita – molto in comune con quei racconti.
Il primo tratto in comune è l’indeterminatezza. Pensiamoci nel 1942, quel tempo in cui Churchill disse memorabilmente che coloro che in ultima analisi avrebbero perso la guerra ancora la stavano vincendo. Quanto durerà, ancora, la guerra? La nostra incertezza oggi si misura con quel metro, non un altro. Tutti scrutiamo l’orizzonte delle notizie, nessuno ha una risposta affidabile. Ma accanto al quando, sorge la domanda, ora come allora, sul come finirà la guerra. Voci pessimiste affermano che il Covid-19 non scomparirà, solo recederà dalla sua forma acuta, ma potrà riaffacciarsi nel prossimo inverno e non saremo mai più sicuri come prima. Sorgono speranze rivolte all’ “arma risolutiva”, che ribalterà le sorti della guerra: il vaccino. Ribalterà le sorti, e il virus farà la fine del morbillo. Viviamo una temporalità sospesa, volta a sopravvivere ed arrivare a vedere quell’alba.
Una guerra mette la sordina ai dissensi, perché dividersi è già soccombere. E noi vediamo come oggi i dissensi siano più fra i governi, quelli che ancora si ostinano a negare l’eccezionalità della minaccia e quelli che reagiscono con forza, che non fra i governi e le forze politiche interne. Biden non può attaccare Trump frontalmente. Da noi il consenso intorno a un governo nato in modo travagliato, e tenuto insieme dal timore di elezioni anticipate, è arrivato a livelli con pochi precedenti. Un Presidente del Consiglio che nemmeno due anni fa era ancora percepito come ostaggio dei suoi due vice parla al Paese in edizioni dei TG straordinarie e notturne. L’opposizione a guida leghista non è in grado di contrapporsi: si limita a chiedere “più uno”, “più presto”, di più di qualcos’altro, ma nulla di diverso. Note a piè di pagina, non alternative.
Una guerra disloca fortune. Oltre ai vincitori sul campo, riordina vincitori e vinti nelle retrovie. Il Covid-19 potrebbe invertire gli effetti di quell’entrata nell’euro che Tremonti, a suo tempo, pure non esitò a paragonare a una guerra. Il governo Berlusconi dell’epoca non “seppe” impedire che milioni di “partite Iva” e di lavoratori del “sommerso” praticassero “il cambio a 1000 lire”. Ai banchi del mercato o quando chiamavi l’idraulico le vecchie mille lire contarono come un euro, ma lo stesso miracolo non si produsse per il popolo dei lavoratori dipendenti. Il fermo imposto dal Covid-19 all’economia del paese potrebbe portare una dislocazione opposta della ricchezza e del reddito. Alla riapertura, ciò che rischia di non ripartire è molto di più il lavoro autonomo. In quell’area, come nell’economia eufemisticamente “informale”, più presente in alcune parti del Paese, il fermo si traduce in perdita economica secca con una crudele immediatezza che è sconosciuta al popolo dei lavoratori dipendenti, soprattutto nel settore pubblico. Ma il coronavirus, come una guerra, può anche sgretolare la globalizzazione, incentivando l’autosufficienza autarchica e le economie locali, senza motivazioni nazionalistiche, ma solo per motivi di sicurezza sanitaria.
Una guerra polarizza le figure morali, che la vita in condizioni normali sfuma nel grigio dell’ordinarietà. Ha i suoi eroi e i suoi sciacalli. I primi ieri erano i soldati, oggi sono i medici e gli infermieri. Li si applaude dai balconi e li si riverisce per i rischi che corrono, a vantaggio di tutti. Un giorno li ringrazieremo come si deve e onoreremo quelli che fra loro hanno perso la vita. Ma la guerra ha anche i suoi profittatori e questi suscitano una riprovazione tutta particolare: quella che rivolgiamo a chi rubato cellulari ed effetti personali ai medici dell’Ospedale Civico di Palermo mentre erano a curare pazienti, a chi scippa le buste della spesa a un anziano uscito dal supermercato. Altri profittatori, più fortunati, hanno i loro difensori in Parlamento: Matteo Salvini ha chiesto la “pace fiscale” per chi ha evaso le tasse, e magari è oggi curato a spese di quelli che le tasse le hanno doverosamente pagate. Colpisce che questa richiesta venga da un sovranista attento alla nazione. Ci saremmo aspettati che li bollasse, nel suo lessico, come traditori: venir meno al fare la loro parte quando la Nazione ha bisogno del concorso economico di tutti, e profittare del servizio sanitario nazionale mantenuto a spese altrui. Inoltre, una guerra semina e sparge impunità casuale, e così il coronavirus. Migliaia di inadempienze di ogni tipo resteranno impunite, con gravi costi sociali, e imperseguibili, coperte da uno stato di necessità con cui non hanno relazione alcuna.
Una guerra anonimizza le sue vittime. Ovunque lascia, dopo, monumenti al “milite ignoto”, davanti ai quali si depongono corone di fiori. Nulla ha colpito di più, in questa guerra sanitaria che combattiamo, della fila di camion dell’esercito carichi di bare di persone morte da sole, senza la presenza dei loro cari, e portate in luoghi lontani senza alcun rapporto con la vita del defunto. E proprio come le partenze dei soldati in guerra, anche adesso quando il 118 trasporta via dalla propria famiglia un paziente da intubare è una partenza cui non si sa se seguirà un ritorno, ci si stringono le mani per una volta che potrebbe essere l’ultima.
Naturalmente va mantenuto il senso della differenza con la guerra non metaforica. Non solo si chiede ai soldati di mettere a rischio la vita, ma nelle guerre di oggi anche i civili sono esposti, oltre a tutto quanto detto sopra, pure al fuoco nemico e talvolta amico, alle azioni terroristiche di fazioni armate, al tiro dei cecchini, all’oblio delle pagine interne dei giornali: come salvezza spesso non hanno che il consegnarsi con i loro averi a trafficanti che li abbandoneranno in acque ostili, prima di emergerne per trovare “centri di accoglienza” e sovranisti che li osteggiano.
Tornando alla guerra metaforica, sorprende in tutto questo che vi sia ancora chi parla del Covid-19 come di poco più che una normale influenza, presa a pretesto per instaurare uno stato di eccezione in assenza di vera emergenza. Ma la capacità di giudizio, ha spiegato Hannah Arendt, non sempre si accompagna al sapere che si possiede. Mostrerebbe, la paura che ha messo interi paesi in lockdown, quanto siamo attaccati alla “nuda vita” e rifiutiamo di guardare più in là, e questa paura aprirebbe una finestra di opportunità per governi securitari che eliminano la libertà con la scusa di curare la salute. Tocca allora banalmente ricordare, come altri hanno fatto, che la libertà ha bisogno della vita. E che il primo compito dei governi è proteggere la vita umana, per lasciare al cittadino, «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» come recita la nostra Costituzione, di definire che cosa vada oltre la sua nuda forma.
Da un governo democratico ci aspettiamo anche di più, però. Che pensi al dopoguerra da subito e proponga una sua vision riguardo a ciò che rimarrà immutato e ciò che cambierà dopo, che ascolti ma non lasci che questo nuovo assetto sia determinato dal prevalere degli interessi più forti. Ci si attende trasparenza sulla prognosi e non le “bugie pietose”, che nella cultura di un tempo che fu facevano tacere al malato la natura vera del suo morbo. Ci si attende che utilizzi il bonus di consenso di cui ancora gode, e quello spontaneo stringersi insieme di tutti noi, che ci sentiamo parte di un destino fatto di destini incrociati, per anteporre l’interesse generale (su cui errare humanum est, ma almeno bisogna mirarvi) agli interessi di singoli settori della società.