Intanto sarebbe importante che non ci fosse un dopo. Capiamoci: non sto dicendo che auspico la permanenza del Coronavirus, ma che auspico resti quella sensazione di fragilità condivisa che spinge alla solidarietà e a guardare all’essenziale della vita.
Anche se non ci sono confronti per dimensione, durata e profondità della crisi, io ricordo l’epidemia di poliomielite che 65 anni fa terrorizzò le famiglie, dal momento che colpiva soprattutto i bambini, e ricordo l’epidemia di colera a Napoli nel 1973. Ricordo bene che durante il colera ci fu una responsabilizzazione reciproca, che i cittadini cominciarono a curare di più il bene comune, vale a dire l’igiene ambientale. Le autorità non furono all’altezza della situazione e lasciarono cadere quella mobilitazione popolare sostituendovi la sciatteria burocratica e la passività del “lasciate fare agli specialisti”. Nel 1980 abbiamo vissuto il terremoto, nel 1991 l’allarme guerra in Iraq, che sembrava il preludio di una nuova guerra, se non mondiale per lo meno europea. Noi napoletani di periferia, come altri meridionali di periferia, viviamo in presenza cronica del virus della violenza e del crimine organizzato.
Durante le emergenze qualcuno cresce, qualcuno si rintana, qualcuno reagisce all’impazzata, c’è bisogno di tornare alla “normalità”, non si può vivere in uno stato di tensione cronica. Quello che si vorrebbe è che nella definizione di normalità fosse inclusa da un lato la fragilità delle nostre strutture sociali e mentali, dall’altro la capacità di affrontare il rischio e la crisi.
In fondo, l’uomo, la scimmia nuda, ha colonizzato nel bene nel male l’intera biosfera proprio perché ha imparato ad affrontare – non certo ad eliminare – i rischi, quelli connessi alla temperatura ambientale, quelli connessi alle intemperie; banalmente ha imparato a vestirsi e ha imparato a costruirsi dei ripari. Poi ha imparato a difendersi da innumerevoli malattie… ciò che non ha imparato è difendersi da se stesso e dalla propria superbia; ciò che non ha imparato è fidarsi degli altri e fidarsi della ragione quando si trova in difficoltà.
La fiducia nella socialità e nella ragione in questa nostra società è delegata alla razionalità tecnica ed economica: quando queste falliscono le persone restano sole e senza risorse. Lo slogan “restate a casa” diventa un imperativo morale, mandare indietro le relazioni e il pensiero. La prima lezione che dovrebbe restare è che la ragione, la fiducia sociale non siano fuori di noi, ma facciano parte dell’esperienza e del bagaglio personale.
Non dobbiamo imparare a prevenire ciò che non è possibile prevenire, ma dobbiamo imparare ad affrontare le difficoltà senza perderci nell’angoscia.
Abbiamo visto istituzioni tecniche e politiche che dovrebbero essere esempio di preveggenza ed equilibrio ondeggiare e perdersi dietro opinioni infondate, smentite da lì a poche ore. Abbiamo visto capi di governo a livello mondiale tentennare di fronte al virus, abbiamo visto che le nudità del re non sono coperte né dalle corazze dei carri armati, né dai funghi atomici, né dalla potenza economica.
Dobbiamo imparare che la nostra salute e la nostra ragione dobbiamo curarle in prima persona, che non possiamo delegare ad altri né il nutrimento del corpo – sicurezza, riparo, cibo – né nutrimento della mente, fiducia in sé, solidarietà.
Ora sono in molti a dire che il sistema sanitario era ed è debole. Per parte mia sottolineo che la sua debolezza non deriva dal fatto che si siano smantellati i piccoli ospedali, o che esso si sia affidato alla sanità affaristica; la sua debolezza deriva dal non aver costruito un apparato diffuso di salute, così come un apparato diffuso per la sicurezza, per emergenze di varia origine, dall'aver avocato allo Stato e all’economia di mercato ogni anche minima incombenza riguardante l’accudimento personale, la cura amorevole degli uni per gli altri.
Dunque io spero che se qualcuno in questi mesi ha sperimentato quanto sia bello e significativo risolvere i problemi con le proprie mani, se qualcuno ha imparato a pensare senza aspettare le direttive dei capi, ebbene, che questo qualcuno non si ritiri, che continui a lottare per una società che sarà più giusta e più equa solo quando le responsabilità saranno diffuse, quando piccole comunità solidali costituiranno la sua base, in luogo di una folla di individui anomici e impotenti.