Pasqua 2020/1. Giovedì Santo: l’umanità tutta intera
Con mia grande sorpresa, don Giuliano Zattarin (prete dalla parte dei poveri, a lungo missionario in Brasile e ora parroco a San Martino di Venezze, nel Polesine) mi ha chiesto di scrivere, per la sua comunità, tre meditazioni sul Triduo Pasquale. Non è possibile dire di no a don Giuliano: queste righe sono il tentativo di dirgli di sì, partendo da alcune delle parole della Scrittura che la liturgia del Triduo proclama.
«Questo è il mio corpo, che è per voi» (Luca 22, 19)
«Gesù [...] dopo aver amato i suoi che erano nel mondo,
li amò sino alla fine [...] Si alzò da tavola,
depose le vesti, e, preso un asciugatoio,
se lo cinse intorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli,
e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto» (Giovanni 13, 1, 4-5)
Ha scritto Simone Weil: «Quando abbiamo bisogno fino alle viscere di un rumore che voglia dire qualcosa, quando gridiamo per ottenere una risposta ed essa non ci è concessa: allora noi sperimentiamo il silenzio di Dio». È l’assenza dell’amato, il tempo dell’abbandono: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (Cantico dei Cantici 3,1).
Il silenzio di Dio: nella grande piazza San Pietro vuota, sotto la pioggia. Nelle strade vuote delle nostre città deserte. Nelle colonne di camion che portano via le bare. Nelle chiese chiuse. Il rumore di cui abbiamo bisogno non c’è. La nostra testa brulica di rumori, ma quel rumore non lo sentiamo.
Eppure, proprio «mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Sapienza 18, 14-15). L’ordine che rompe il silenzio è un ordine di amore incondizionato.
Un amore senza confini, né riserve, né cautele. Un amore irragionevole e smisurato. Un amore non astratto, ma concreto: che si tocca. Un amore che si attua, si vede, si misura attraverso il corpo. «Questo è il mio corpo che ho dato per voi»: il mistero dell’eucarestia è il mistero dell’annullamento di ogni proprietà, dello spogliarsi da ogni possesso. Il mio corpo è per voi: non per me. E il corpo è parte per il tutto della persona: il corpo è la persona, quella di Gesù tutto intero («corpo, sangue, anima e divinità», dice la Chiesa) e quella di ognuno di noi, come abbiamo imparato nell’età della biopolitica denudata da Michel Foucault. Dare il corpo significa dare tutto, senza riserve.
E il mistero è grande: perché solo un corpo offerto, consumato, mangiato vivo è un corpo salvato. Mentre un corpo tenuto per sé, conservato, risparmiato è un corpo perduto: «perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Matteo 16, 25).
Ebbene, siamo allora sicuri di non aver ottenuto risposta, di non aver trovato l’amato, di non aver sentito la voce di Dio?
I corpi dei medici e degli infermieri sono, in questi giorni drammatici, corpi dati, corpi offerti, corpi mangiati. Nella fatica, nella dedizione, nella consapevole accettazione delle verogonose condizioni in cui sono stati costretti a lavorare, nel contagio e troppe volte nella morte sono corpi perduti, e dunque salvati. Sono la più alta rinuncia ad ogni proprietà, in nome di qualcosa che non si può chiamare se non amore. «Questo è il mio corpo che è per voi». Cassieri dei supermercati, autisti di mezzi pubblici, donne e uomini del 118, operai e lavoratori di servizi essenziali... quanti altri di noi stanno dicendo, ogni giorno: «Questo è il mio corpo che è per voi»?
I medici e gli infermieri delle rianimazioni non scelgono i loro amici: non mettono in gioco la propria vita per coloro che amano. Lo fanno per degli sconosciuti: si chinano a lavare i piedi a chi bussa alla porta dei loro reparti. E lo fanno con ogni cura: mostrando loro ogni umanità.
Quest’ultima frase è la traduzione di un famoso ordine che Benedetto dà ai suoi monaci, nella regola. L’abate e tutta la comunità dovranno lavare i piedi ad ogni ospite, ad ogni sconosciuto che bussa alla porta del monastero: «omnis ei exhibeatur humanitas». Cioè: si offra ad ogni straniero ogni umanità: ogni più premurosa, educata, amorosa ospitalità.
Humanitas: la misura della nostra umanità è la misura in cui doniamo noi stessi. La misura in cui ci inginocchiamo a lavare i piedi agli sconosciuti che bussano alla nostra porta. La misura in cui rinunciamo alla proprietà: alla proprietà del nostro stesso corpo, «che è per voi».
Pensavamo forse di rimanere sani in un mondo ammalato? È questa la domanda con cui papa Francesco ha rovesciato i nostri cuori. Ora non muoiono corpi invisibili e lontani, no: la malattia è nel nostro ricco occidente, toglie l’aria ai nostri corpi protetti. E non possiamo dire al virus: «torna a casa tua». Non possiamo dire «prima gli italiani»: perché lo siamo stati davvero. Non possiamo dare la colpa ai diversi, ai poveri, ai neri.
Quando bussiamo alle porte delle terapie intensive, oggi, siamo noi a chiedere di essere amati senza alcun merito, senza nulla da dare in cambio, senza motivo: se non quella umanità che san Benedetto voleva fosse mostrata ad ogni straniero, attraverso la lavanda dei piedi.
Ecco di cosa ci parla, il Giovedì Santo: «avete udito che fu detto ... ma io vi dico» (Matteo 5, 21-22). Con il corpo del Dio fatto Uomo inginocchiato a lavare i piedi alle creature, con il corpo dato, con il corpo mangiato nasce una nuova legge: quella dell’umanità senza condizioni. Un amore fino alla fine: l’amore della lavanda dei piedi, che è un altro modo di parlare della stessa offerta totale del corpo dato per tutti.
Lavare i piedi ai poveri, agli ultimi, ai malati. Ai migranti. Questo non è un sublime sogno mistico: è il programma essenziale per qualunque politica che voglia cambiare questo mondo guasto e disumano: cambiarlo a partire dal corpo, dal cuore.
Dal nostro corpo, dal nostro cuore.
Amen.