Sono un insegnate di storia e filosofia nei licei. Le pandemie, le crisi economiche, le loro cause, i loro effetti, sono costantemente oggetto di riflessioni con i miei studenti. Proprio in questi giorni di quarantena, sto provando ad applicare alla nostra quotidianità il metodo di analisi che solitamente usiamo con eventi del passato. Operazione complessa, innanzitutto perché manca il distanziamento temporale necessario per costruire una ipotesi interpretativa, ma utile quantomeno per provare ad orientarci.
Il nostro è uno scenario assolutamente inedito, perché questa è la prima pandemia della globalizzazione. D’improvviso tutte le questioni legate all’agenda politica sono state spazzate via, viviamo nelle nostre case non da padroni ma da reclusi, mentre il mondo fuori sembra allontanarsi. Siamo dentro ma non c’è un fuori, siamo costretti a una solitudine collettiva.
Solitamente un evento catastrofico rappresenta un punto di svolta che spezza l’esistenza di una comunità in un prima e in un dopo, e c’è sempre un'istantanea che racchiude lo shock dello smarrimento. Nel caso del Coronavirus, manca questo momento comune che annulla tutto, anche se tutti ricordiamo l’attimo in cui abbiamo realizzato la gravità della pandemia. Le nostre vite sembrano adattarsi tutte alle descrizioni contenute nel secondo capitolo de La Peste di Albert Camus: chiuse le porte della città, ognuno si ritrova con sé stesso e con il proprio smarrimento.
Impossibile prevedere come la storia racconterà questo momento, se torneremo alla normalità, se esso sarà ricordato come uno spartiacque o una crisi fisiologica. Tuttavia è evidente che la quarantena ci fornisce anche il tempo per ripensare le nostre priorità, individuali e collettive. Subito dopo il fallimento di Lehman Brothers, Rahm Emanuel, capo gabinetto nel governo di Barack Obama disse: “A crisis is a terrible thing to waste”, è terribile sprecare una crisi. Questa quarantena lascerà una cicatrice nelle nostre vite, è come se ci fossimo fatti tutti lo stesso tatuaggio, e tuttavia eventi come questo possono trasformarsi in acceleratori di processi sociali.
Abbiamo ad esempio il tempo per ripensare i nostri bisogni individuali e collettivi, e non è un caso se una delle domande più condivise di questi giorni è quella sulle prime cose che si vorranno fare finita la quarantena. Quando si racconta ciò che ci manca, non esiste risposta banale. C’è un profilo Instagram che si chiama “insta_della_spesa”, è molto seguito e pubblica solo fotografie di foglietti ritrovati per caso con liste di cose da comprare. È significativo vedere come siano cambiate le liste ritrovate nell’ultimo mese.
Oltre ai desideri, a cambiare è anche la quotidianità. Per la prima volta gli insegnanti stanno sperimentando lo smart working. Da un giorno all’altro, ci siamo lanciati in una nuova sfida, la didattica a distanza, mentre le classi scolastiche vuote diventavano simbolo della società presa in ostaggio dal virus. Ho dovuto ripensare il mio modo di lavorare. Ora faccio lezione su Google Meet, comunico attraverso Google Classroom, carico i miei podcast su Google Drive. La scuola italiana ha fatto un notevole investimento economico per garantire la didattica a distanza, e del resto è da anni che stata istituita la figura dell’animatore digitale e si lavora a progetti di educazione alla cittadinanza digitale. Tuttavia manca ancora una piattaforma di didattica a distanza unica, una alfabetizzazione digitale diffusa, e inoltre è riemerso prepotentemente il problema del digital divide: secondo l’Istat un terzo delle famiglie non ha un pc in casa. La formazione online ha dato vita ad un animato dibattito tra i docenti, e vi è chi non esita a palesare paure di stampo luddista. Sembra tornare di attualità un racconto di Isaac Asimov, Chissà come si divertivano, in cui due bambini del 2157 ritrovano un libro che racconta le caratteristiche del sistema scolastico del ventesimo secolo e con grande sorpresa scoprono che ai loro avi veniva impartita una istruzione comunitaria con insegnanti umani e libri di carta. Ai più fatalisti, la didattica a distanza potrebbe apparire addirittura come un curioso contrappasso: se prima ai nativi digitali bisognava quotidianamente ricordare di spegnere il cellulare in classe, paradossalmente adesso bisogna invitarli a connettersi.
Mi auguro che questo slancio verso le opportunità del digitale non svanisca con il passare dell’emergenza, ma che anzi si possa lavorare per la creazione di un sistema integrato. Diventa però fondamentale capire che l’uso dei nuovi mezzi impone anche un ripensamento delle metodologie didattiche.
Un discorso analogo si potrebbe fare per le università, che in questi giorni stanno propongono lezioni ed esami tramite piattaforme online. In questi anni, gli atenei pubblici hanno preferito non lavorare in questa direzione, garantendo così implicitamente il proliferare di università private che meglio riuscivano a intercettare le esigenze di studenti lavoratori.
Il cambio di rotta non riguarda solo i luoghi tradizionali di trasmissione del sapere: è interessante analizzare come stia modificandosi l’uso comune dei social. La consapevolezza che la piazza virtuale sia divenuta l’unica percorribile favorisce meno i messaggi di odio e rivalità rispetto alla condivisione di buone pratiche, di tutorial. Anche i canali televisivi hanno ripensato i loro palinsesti, arricchendo le trasmissioni educative. Al posto di opinionisti di professione, ora gli studi televisivi ospitano scienziati ed esperti.
Anche in questo caso sembra trattarsi di una risposta a un modello comunicativo figlio della rivoluzione digitale, che esaltava la libertà di espressione a discapito della veridicità. In un contesto in cui è la condivisione a creare verità, fiorivano opinioni infondate – ma condivise appunto –, che a cascata occupavano gli spazi dell’informazione. Nell’infosfera del lockdown sembra esserci meno spazio per terrapiattisti e no vax e a farsi largo la ricerca di un principio di razionalità capace di fornire un criterio di valutazione affidabile.
Il discorso pubblico sulla pandemia è caratterizzato da continui riferimenti e metafore che attingono al linguaggio bellico. Questa scelta, se sembra rispecchiare l’esigenza di incoraggiare la popolazione ad accettare sacrifici e politiche d’emergenza, non è esente da rischi. Secondo Paul Ricoeur, le metafore servono per descrivere, ma al tempo stesso finiscono anche per creare una nuova realtà. Ma questa pandemia non è una guerra. Nella guerra c’è un nemico visibile, e c’è intenzionalità nell’infliggere violenza. Questo aspetto è già in parte venuto meno nei bombardamenti, dove vittime e carnefici non hanno un volto. Tuttavia, nel caso di una catastrofe naturale, a mancare è appunto l’intenzionalità del recar lutto, anche se ciò non toglie le responsabilità di chi non ha prevenuto i danni. Costruire il racconto della quarantena mediante un linguaggio militare ottocentesco rischia di acuire la conflittualità in un momento in cui avremmo invece bisogno di collaborazione ed empatia.
Dal punto di vista economico, è evidente che siamo in una crisi del tutto nuova, che riguarda sia la domanda che l'offerta e che impone un ripensamento dell’ideologia globalista. Dopo la caduta del muro di Berlino ci siamo raccontati che per la civiltà occidentale e democratica sarebbe iniziato un cammino trionfale e irreversibile. Abbiamo creduto che la storia fosse finita, che non fosse possibile nessuna alternativa alla cultura del profitto e dell’individualismo: abbiamo avuto bisogno di un virus per far cadere questa illusione.
La pandemia è diventata lo specchio letale della globalizzazione: se siamo quasi otto miliardi, e se abbiamo dichiarato guerra all’ambiente, non ha senso continuare a credere nel mito di una crescita infinita. Il virus non ha confini, ma può crearli. In Italia, mentre si rafforza la fiducia al Governo, l’Unione Europea appare sempre più un sogno, una fotocopia sbiadita di sé stessa. Tuttavia, se non si vuol correre il rischio di rafforzare gli autoritarismi, bisognerebbe partire dall’evidenza che questa crisi investe tutti per capire che solo insieme si può trovare una soluzione. E questo è un principio tutt’altro che ovvio: implica la necessità di sostituire alla cultura dell’individuo quella della collettività, e di individuare nella salute una priorità universale.
C’è poi la questione legata alle relazioni sociali e agli spazi di incontro, che recupereremo, anche se non sappiamo ancora in che modo e quando. Gli arresti domiciliari di massa hanno paralizzato le relazioni umane, e questo rischia di produrre un'implosione psichica, ed è un pericolo che non va sottovalutato. Tuttavia è altrettanto evidente che per alcuni la quarantena era iniziata molto prima: molti surrogati virtuali che ci offre la rete hanno già da tempo occupato un posto nella quotidianità di ognuno. E questo facilita un processo, già in atto, molto delicato: la possibilità di trasformare lo smartphone in un braccialetto segnaletico, limitando la libertà di ognuno in funzione di una maggiore sicurezza. A conferma del fatto che mentre siamo fermi e immobili nelle nostre case, tante cose stanno cambiando.