Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Tomaso Montanari - La terza di tre meditazioni

15 aprile 2020

Pasqua 2020/3. Domenica di Pasqua: un cuore di carne 

Con mia grande sorpresa, don Giuliano Zattarin (prete dalla parte dei poveri, a lungo missionario in Brasile e ora parroco a San Martino di Venezze, nel Polesine) mi ha chiesto di scrivere, per la sua comunità, tre meditazioni sul Triduo Pasquale. Non è possibile dire di no a don Giuliano: queste righe sono il tentativo di dirgli di sì, partendo da alcune delle parole della Scrittura che la liturgia del Triduo proclama. 

«Toglierò da voi il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne» (Ezechiele 35, 26). 

«La pietra scartata dai costruttori / è diventata testata d’angolo / ecco l’opera del Signore» (Salmo 118, 22-23) 

«Non abbiate paura!» (Matteo 28, 5) 

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Luca, 24, 5) 

Ricordo che, da bambino, le parole che mi colpivano di più nella lunga liturgia della notte di Pasqua erano le ultime del canto dell’Exultet, quando il diacono, lodando il lavoro delle api che ha permesso di avere il cero pasquale, dice: «Lo trovi acceso la stella del mattino, quella stella che non conosce tramonto». Si affollano in queste parole molte immagini, e molte emozioni. La stella del mattino è Venere, che almeno qualche volta tutti abbiamo visto brillare nel cielo ancora scuro, subito prima dell’alba: è il segno della luce che torna, è un annuncio di resurrezione. Quella stella è figura del Cristo: che non tramonta perché sconfigge la morte come la stella del mattino sconfigge le tenebre della notte. 

E il cero, che cosa rappresenta il cero? Rappresenta la nostra umanità, personale e collettiva; la nostra fede nella giustizia; la nostra capacità di tenere accesa un po’ della luce della resurrezione nel buio della violenza di ogni giorno. Tenerla accesa fino all’alba: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18, 8). A questa domanda, tormentata e inquieta, di Gesù, rispondono oggi gli angeli che siedono sulla sua tomba vuota: «Non abbiate paura!» 

Quanto abbiamo bisogno di sentircelo dire, in giorni come questi, intessuti di paure che non riusciamo nemmeno a confessare! Ma nessun’altro può dircelo, solo Lui: «Tu hai parole di vita eterna» (Giovanni 6, 69), dice Simon Pietro a Gesù. 

La buona notizia, il Vangelo, è la sconfitta della morte: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (Paolo ai Corinzi, 1, 54-55). Gesù è risorto: è veramente risorto. È risorto dai morti: cioè ha rotto il recinto che riduceva all’impotenza e all’oscurità le generazioni precedenti. Si è liberato da quei ceppi: per essere la nostra comune liberazione. 

C’è una cosa che mi manca in questa Pasqua: poter tornare a trovare l’immagine della Resurrezione che mi è più cara, quella plasmata dal vecchio Donatello in uno dei due pulpiti di San Lorenzo, qua a Firenze. Vi si vede Gesù appena uscito dal sepolcro. Ancora completamente coperto dal sudario e dalle bende funebri: una specie di mummia che cammina, come nei film dell’orrore. Morire e 

risorgere: una fatica terribile. Tutta la sofferenza del mondo, tutta la stanchezza del mondo: e ora non ha nemmeno la forza di sbendarsi. Prima deve riprendere fiato, con un piede appoggiato al suo sarcofago. Chiunque, vedendo questo Cristo fragile e umanissimo, può credere che la resurrezione lo riguardi personalmente. 

Quella carne stanca è la nostra carne stanca. Quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di bello riesce senza fatica, al mondo: nemmeno la resurrezione. E, su un incredibile sfondo di architetture di vimini, i soldati dormono come pupi siciliani caduti dal chiodo. Chiusi nelle loro armature non si accorgono di nulla. Proprio come noi. 

Ecco, risorgere vuol dire scuotersi, svegliarsi, liberarsi dall’armatura di paura: contestare la morte in ogni giorno della vita. Vuol dire non chiamare “progresso” ciò che ci conduce verso la morte: la morte del pianeta, la morte della giustizia, la morte della nostra interiore umanità. 

Ha scritto ancora Simone Weil: «L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire: e persino quando non gli si riconoscesse alcun diritto. [...] Il progresso si misura su di esso. [...] La coscienza umana su questo punto non è mutata mai. Migliaia di anni fa, gli egiziani pensavano che un’anima non potesse giustificarsi dopo la morte se non poteva dire: “Non ho fatto patire la fame a nessuno” [...]. Nessuno, cui la domanda venga posta in termini generali, penserà che sia innocente chi, avendo cibo in abbondanza e trovando sulla soglia della propria casa un essere umano mezzo morto di fame, se ne vada senza dargli aiuto». 

La resurrezione è il contrario della morte: ora il dimenticato, il rifiutato, lo scartato sono innalzati. «La pietra scartata dai costruttori / è diventata testata d’angolo / ecco l’opera del Signore», canta il salmo allelujatico di Pasqua. La resurrezione è un’opera di giustizia: il momento in cui ogni ingiustizia, perpetrata contro ogni debole in ogni momento della storia, viene rammentata, considerata, sanata. Viene riparata e curata. Ebbene: la resurrezione di ogni giorno è affidata a ciascuno di noi, perché «la giustizia consiste nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini» (Simone Weil). 

La resurrezione come distruzione della morte, la resurrezione come distruzione della paura, la resurrezione come costruzione della giustizia. In una parola: la resurrezione come conquista di una umanità piena. 

Nella notte di Pasqua si avvera la promessa fatta dal Signore ad Ezechiele: «Toglierò da voi il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne». Liberati dalla paura, liberati dalla morte, diventiamo umani: con la tenerezza di un cuore di carne. Un cuore capace di compassione: cioè di soffrire della sofferenza degli altri, di gioire della gioia degli altri. Un cuore capace di costruire un Noi collettivo. 

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo?»: la domanda degli angeli alle donne che la mattina di Pasqua vanno alla tomba di Gesù è oggi rivolta a ciascuno di noi. 

Queste settimane terribili ci hanno mostrato con terribile chiarezza cosa è vivo e cosa è morto: la morte provocata dalla logica del profitto e degli spietati interessi; la vita di chi offre il proprio corpo per gli altri. 

Non cerchiamo ciò che è vivo nella tomba del ricco: negli inganni e nella menzogna di una politica disumana, in un’economia che uccide la giustizia e la vita stessa del pianeta. Cerchiamo la vita in ciò che è vivo: nella giustizia, nell’eguaglianza, nella tenerezza. Nella speranza dei poveri, che combattono per una vita migliore. 

Troppo a lungo abbiamo cercato noi stessi tra i morti: ma la buona notizia, che stanotte ci è data, è che siamo vivi. Apparteniamo alla vita, non alla morte: l’amore è più forte della morte. 

«Insorgere, risorgere» gridavano i partigiani di Giustizia e Libertà contro la grande morte del fascismo. Oggi abbiamo bisogno di risorgere da questa pandemia, da questa politica di morte, da questa economia che uccide. 

Tutti oggi vorremmo solo una cosa: tornare a pochi giorni fa, a prima della pandemia. Ma guardiamo bene: quella “normalità” non aveva nulla di normale. Il pianeta era già sull’orlo di una crisi irreversibile, il controllo dei beni comuni concentrato in pochissime mani, la legge del più forte a dominare rapporti sociali e politiche globali. Il mondo era malato, anche se noi ci sentivamo sani. E, d’altra parte, appare già chiaro che nulla sarà come prima: il controllo sulle nostre vite, le limitazioni della nostra libertà, le esigenze di sicurezza e di distanziamento sociale rischiano di rimanere, almeno in parte. 

E a questo punto si apre un bivio: il mondo può sprofondare ancora di più nella morte dell’ingiustizia sociale, nell’avarizia di salvarsi da soli, in una diseguaglianza ancor più evidente nella vita quotidiana, in una oligarchia ancor più escludente. 

Oppure, possiamo provare a risorgere: convertendoci. Cioè, letteralmente cambiando strada: tentando di salvarci tutti insieme. Possiamo uscire da tutto questo molto peggiori o molto migliori: molto più morti, o molto più vivi. 

Per scardinare il coperchio di questo sarcofago e risorgere, abbiamo un’unica via: quella indicata nel Magnificat. Abbattere i potenti dai troni, innalzare gli umili. Rimandare i ricchi a mani vuote, ricolmare di beni gli affamati. 

Scardinare la violenza omicida del potere di pochi e permettere l’accesso dei poveri ai beni comuni: arrestando la corsa del pianeta verso la distruzione. E c’è un unico metro per misurare la nostra distanza dal progetto della resurrezione: quel metro è la condizione degli scartati, dei rifiutati, dei dimenticati. 

Perché «la pietra scartata dai costruttori / è diventata testata d’angolo: / ecco l’opera del Signore». 

Amen, amen. Alleluja. 

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