Da settimane il bollettino quotidiano dei decessi a causa del Covid-19 punteggia le nostre giornate. Il freddo conteggio, però, non fa che coprire i volti di migliaia di invisibili che muoiono nascosti al nostro sguardo: l’illimitata rete di immagini a cui siamo abituati si interrompe di fronte al volto reale della morte. La lotta concorrenziale per accaparrarsi l’attenzione attraverso i mezzi di comunicazione e la sua coazione universale a trasmettere (ciò che ci porta il mondo a domicilio) si fermano davanti allo shock del “morire per davvero” a causa di una pandemia di coronavirus. Chi muore non ha volto tranne che per i familiari e i congiunti, diventa un numero che si aggiunge alla cifra amministrata pubblicamente dalle autorità competenti. All’insufficienza dei posti in rianimazione si aggiunge la difficoltà della sepoltura di quanti sono morti: la difficoltà per lo “smaltimento” dei cadaveri ci mostra un lato della nostra disumanità. Il morire si ritira in un astratto concetto di morte per non mostrarsi nello scandalo del cadavere. «Bisogna aver visto morire davvero», dice il dottor Bernard Rieux ne La Peste di Camus, «per lottare con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi al cielo dove Dio tace; per lottare anche se le vittorie saranno sempre provvisorie, senza per questo smettere; per non credere nel facile eroismo, che può essere anche omicida, quanto piuttosto nell’onestà, la sola maniera di lottare contro la peste».
Mentre gli invisibili muoiono ai quattro angoli del mondo ecco che compare sempre più insistente la parola d’ordine del momento: salvezza. Si tratta di salvare vite umane, questo sì, il più possibile, ma si tratta anche di salvare gli Stati, le economie, le aziende grandi e piccole, il lavoro. Si tratta di salvare quanto più è possibile affinché tutto torni come prima, affinché venga restaurato l’ordine antecedente, quel prezioso anelito all’irrilevanza che accompagnava l’apparente sicurezza dell’abituale vita di tutti i giorni. La salvezza che si richiama in questi giorni sta per restaurazione, in economia sta per ristrutturazione. Pare che ogni sforzo si orienterà in questa direzione. Andare avanti per tornare indietro, muoversi in avanti per affrettarsi a dimenticare e tornare a come eravamo: un dimenticare che non significa non ricordare cosa è successo (avremo modo di celebrare con riti sacri e profani le sventure occorse), bensì ricominciare un discorso malamente interrotto per ripristinare una continuità, una crescita, uno sviluppo che ha avuto una maledetta pausa. È questa la vera dimenticanza: continuare e lasciare celebrare. Ma forse è tempo di porsi qualche domanda del tipo: Cosa sta succedendo? Sta succedendo qualcosa? Oppure è solo un arresto momentaneo, tanto poi tutto riprenderà come prima, come se niente fosse realmente successo? O forse sta cambiando qualcosa? Come accorgersene?
Continuo a pormi questa domanda: cosa sta succedendo? Certo, è una pandemia, e poi? Salvezza come restaurazione sembra essere l’anelito a cui sta aspirando il Tantalo contemporaneo: la società moderna colpita dal virus non sembra disposta a rinunciare alla sottomissione alla ripetizione, al sempre-uguale che si maschera da novità, al fatale assegnamento sull’avvenire con il quale si timbra il presente. Bisogna immaginare Sisifo felice nell’eterna ripetizione della fatica quotidiana: felicità e assurdità sono figlie della stessa terra. Ogni volta che Sisifo solleva in alto il suo macigno si sente appartenere a un’umanità che nega con forza gli dei; ma gli dei si vendicano e, sapendo che l’umanità non è più un loro spettacolo, lasciano che essa si annienti da sola nell’inferno del sempre-uguale, della storia che si ripete. Ma la speranza di Sisifo non dovrebbe essere la salvezza nel sempre-uguale che ritorna, la restituzione delle catene che l’abitudine ha reso più leggere mitigandone le pene; essa non è nemmeno l’auspicio di un rinnovato abbandono alla malinconica acedia, all’onnipotenza della fatalità e alla sottomissione all’ordine presente delle cose ristabilite. Rifiutare l’eternità dell’inferno vorrebbe dire ribellarsi alla fatalità della restaurazione vestita dei panni del rinnovamento, per organizzare il pessimismo scoprendo nello spazio dell’agire politico lo spazio immaginativo finora oscurato. Dissolvere l’apparenza del sempre-uguale, scrive Benjamin, indicherebbe l’autentica esperienza politica in grado di contrastare la catastrofe ineluttabile del “che tutto continui così”, “come è stato così sarà”. La salvezza auspicata come restaurazione significherebbe invece, ripristinare ancora una volta la storia dei vincitori. I milioni di Sisifo che non vedono l’ora di tornare alla vita quotidiana di prima saranno destinati a applaudire i vincitori marcianti sotto l’arco di trionfo della storia, e si preparano a pagare il conto, per generazioni future, restituendo i debiti insolvibili che graveranno sulle loro teste come una colpa. Il prezzo da pagare per il ritorno alla vita di sempre: organizzare la colpa, pagare la crescita, incrementare lo sviluppo.
Ma, fino a pochi mesi fa, non stavamo parlando della catastrofe ambientale del pianeta, dell’erosione delle terre, dello scioglimento dei ghiacciai, dell’aumento della temperatura con la conseguente riduzione delle risorse? Sbaglio o stavamo accennando a problemi quali l’aumento della povertà, la divaricazione delle disuguaglianze sociali, l’accumulo di ricchezze in mano a pochi e l’assenza di redistribuzione dei beni? Non stavamo d’altra parte correndo verso la totale privatizzazione dei beni comuni e l’incessante smantellamento del welfare con la riduzione delle spese sociali? Correggetemi, ma qualcuno non stava parlando di questi e altri problemi infastidendo il sonno della ragione che aveva tutto il diritto di risposare sugli allori del progresso e delle sue fantasmagoriche magnificenze? Verrebbe da dire a voce alta: se dovete venire a soccorrerci per riportarci al mondo di ieri, tale e quale, allora vi prego: non venite a salvarci! Venite solo se siete disposti a fare qualcos’altro!
Che cosa sta succedendo? Sta succedendo qualcosa oppure niente? Tutto sarà come prima oppure cambierà qualcosa, oppure tanto? Le risposte stanno nella pasta di cui sono fatti gli uomini presenti. Che tipo di uomini siamo, adesso: qui sta la risposta. L’apocatastasi che si desidera non può essere la mera restaurazione dell’immediato passato interrotto: questa non sarebbe una restituzione, ma un proseguimento, come se niente fosse successo. Passata la nottata il sole sorgerà di nuovo ripristinando la temporalità lineare dell’orologio appena sospesa. Mi chiedo: saremo in grado di meritarci le donne e gli uomini che eravamo qualche mese fa restituendo a essi (a noi) una possibilità che non hanno (abbiamo) ancora avuto? Oppure ci restituiremo semplicemente lo stesso mondo che ci ha condotti a questo stadio prendendoci in carico soltanto l’obbligo di continuarlo, come tanti Sisifo fatalisti? Siamo in grado oggi di opporre alla melanconia del futuro un presente possibile, “spazzolato in contropelo”, in grado di attivare quel potenziale utopico segreto già contenuto nella nostra cultura e nella nostra vita, capace di rendere maneggevoli e edificabili le rovine causate dalla distruzione, e tuttavia ancora nascosto e, per certi versi, tradito?
Lasciando ai maghi e ai fattucchieri del pensiero l’idea che un dio ci venga a salvare, e ai dorati sacerdoti del capitale quella che la salvezza passi per la restaurazione dell’inferno, noi ci chiediamo quale sia l’altezza dell’uomo contemporaneo e a quale altezza si collochino il suo pensiero e la sua prassi. Se è stato solo un incidente, una momentanea interruzione di una storia progressiva, allora si tratta solo di uscire da uno stato di eccezione persuadendoci di essere felici nel ristabilire le normali leggi “naturali” della fatale vita di sempre. Se invece si è trattata di una reale interruzione, di un “freno d’emergenza” che ha interrotto il procedere potenzialmente infinito della locomotiva della storia, di un’intermittenza che ha aperto lo sguardo su nuove costellazioni, allora si potrà parlare di una vera restituzione, se non ad integrum quanto meno parziale, a misura degli uomini che potremmo essere. Saremmo passati dall’onestà di Sisifo alla gloria dei vinti e degli invisibili, ma almeno potremmo essere protagonisti di qualcosa che non piove dall’altro come una necessità. (E infine mi chiedo non senza qualche dubbio: chi passerà sotto l’arco di trionfo questa volta? Quali vincitori saranno applauditi da ali di folla festante e pronta a pagare?)