Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Marialuigia Scotton - Scoprirsi parti di un intero. "L’esperienza della quarantena"

16 aprile 2020

 

No man is an island entire of itself; every man
is a piece of the continent, a part of the main;
if a clod be washed away by the sea, Europe
is the less, as well as if a promontory were, as
well as any manner of thy friends or of thine
own were; any man's death diminishes me,
because I am involved in mankind.
And therefore never send to know for whom
the bell tolls; it tolls for thee.

John Donne, Meditation XVII, Devotions upon Emergent Occasions


Non sono del tutto persuasa, benché lo auspichi, che il difficile momento storico che stiamo vivendo produrrà su di noi un qualche effetto trasformativo, come la retorica di questi giorni insiste a ripetere. Ritengo tuttavia che abbia almeno fatto emergere una verità profonda, spesso ignorata o dimenticata, sulla natura stessa dell’uomo: il nostro essere membri di una
comunità, non solo sociale e politica, ma, in senso più ampio, umana. Paradossalmente, proprio nel momento della sospensione dei rapporti interpersonali imposta dalla quarantena, o quantomeno del loro allentamento determinato dalla distanza di sicurezza e dalla mediazione di guanti e mascherina, abbiamo preso coscienza del nostro costitutivo essere in relazione, del nostro essere, anche se nostro malgrado, dipendenti dagli altri. Tale consapevolezza è ancora più acuta perché non è il risultato di una riflessione teorica, ma deriva da un’esperienza concreta che tocca ciascuno di noi in prima persona, con il suo carico di sofferenza, ansia e paura. L’individualismo radicato nella nostra economia capitalistica e alimentato dalla retorica demagogica e populistica, il delirio di onnipotenza generato dalla società dei consumi ed esaltato dalla pubblicità, l’attivismo frenetico che domina lo stile di vita occidentale, sono stati smascherati nella loro illusorietà dall’emergenza sanitaria e forzatamente abbandonati al fine di scongiurare la diffusione del virus. 

Considerazioni molto simili a queste sono state espresse con grande chiarezza e forza empatica da papa Francesco in occasione della benedizione Urbi et Orbi impartita lo scorso 27 marzo alla città di Roma e al mondo intero. Il vasto eco mediatico suscitato dalle parole del pontefice, riprese da numerose persone nei loro profili social, o diffuse tramite le applicazioni di messaggistica, dipende dal fatto che esse comunicano qualcosa di universale, che inerisce alla natura profonda dell’uomo. Il messaggio veicolato dal papa – “nessuno si salva da solo” –  risulta condivisibile indipendentemente dall’adesione a una determinata confessione religiosa. Questa era del resto l’intenzione dichiarata del papa che, preparandosi a benedire l’intera umanità, commenta un passo del Vangelo di Marco, osservando come questo ci colpisca e ci riguardi tutti. Vorrei dunque muovere dalle osservazioni di Francesco per proporre una riflessione di carattere filosofico, mostrando, in particolare, come il pensiero antico fosse pervenuto alle medesime conclusioni. Nel cristianesimo e nella filosofia greca, le fondamenta su cui si erge la cultura occidentale, ritroviamo lo stesso insegnamento che, benché a lungo accantonato, riemerge oggi in tutta la sua attualità.

Il brano del Vangelo dal quale prende avvio il discorso di papa Francesco racconta di una tempesta che coglie di sorpresa i discepoli, i quali, spaventati, invocano l’intervento di Gesù. Allo stesso modo, il pericolo che incombe su di noi ci ha fatto rendere conto di “trovarci tutti sulla stessa barca”, come si suole dire nel linguaggio comune. Ciò va inteso in senso negativo, nella misura in cui siamo tutti parimenti impauriti e disorientati, ma significa anche, come intende porre in evidenza il pontefice, che il contributo di ciascuno è importante e necessario: solo remando tutti insieme, possiamo metterci al riparo dalla tempesta. L’appartenenza comunitaria è data, oltre che dalla condivisione dei patimenti, anche dall’impegno con cui ciascuno collabora attivamente alla salvezza collettiva. 

Francesco, tuttavia, si mostra consapevole delle difficoltà che adempiere un tale compito comporta: alla richiesta di non avere paura che Gesù rivolge ai discepoli, ma più in generale agli uomini colpiti dalla sventura, egli replica che “la nostra fede è debole” e che “siamo timorosi”. Emerge chiaramente nel passo del Vangelo la distanza che intercorre tra l’atteggiamento di Gesù e quello dei discepoli: mentre questi ultimi sono presi dal panico, Gesù dorme sereno a poppa, proprio nella parte della nave che per prima va a fondo, testimoniando così la sua fiducia nel Padre. Non bisogna tuttavia pensare che la paura dei discepoli derivi da una mancanza di fede: papa Francesco osserva che essi non avevano smesso di credere in Gesù, come dimostra il fatto che immediatamente invocano il suo aiuto. A mio parere, il brano del Vangelo suggerisce che la paura dei discepoli scaturisce dalla finitezza che è costitutiva dell’uomo: è proprio perché si sentono inermi e si scoprono del tutto impreparati ad affrontare una tempesta inaspettata e furiosa che i discepoli sono impauriti. 

Allo stesso modo anche noi abbiamo preso coscienza del nostro limite a causa della rapida e imprevista diffusione dell’epidemia. I governi si sono rivelati incapaci di gestire l’emergenza e di accordarsi su una linea comune, adottando misure tardive e spesso in contrasto con quelle degli altri Paesi. La scienza ha fornito spiegazioni diverse e contraddittorie, mostrando di non essere in possesso di una verità assoluta, ma di non poter far altro che procedere verso una conoscenza dei fenomeni che è sempre perfettibile. La macchina produttiva si è arrestata, suggerendo che il dominio del mercato sulla vita civile può essere incrinato e che l’ordine delle priorità può venire ridisegnato. L’hybris della società capitalistica e del modello consumistico occidentale è stata smascherata, facendo crollare le nostre false sicurezze. Abbiamo dovuto abbandonare l’individualismo che, in molti casi, orientava le nostre vite e rinunciare alla pretesa illusoria di una soddisfazione illimitata del desiderio, scoprendo invece la nostra dipendenza dagli altri. Il comportamento di ognuno ha ripercussioni sulla vita di tutti in quanto può favorire la diffusione del virus. Proprio questa scoperta ha generato quella frustrazione che ha spesso trovato libero sfogo sui social networks attraverso le invettive rivolte a coloro che non rispettano le regole. Non siamo allora poi così diversi dai discepoli che, sopraffatti dalla paura, accusano Gesù di non curarsi di loro. Anche per noi, assaliti dai timori relativi alla nostra salute e al tracollo economico che seguirà l’emergenza, è difficile fidarci degli altri. 

Tuttavia Bergoglio osserva che l’inizio della fede risiede proprio nel saperci bisognosi di salvezza, nella consapevolezza che non siamo autosufficienti e che da soli affondiamo. È importante notare che nel discorso pronunciato dal pontefice il termine fiducia è utilizzato ripetutamente come sinonimo di fede. Egli chiarisce infatti che l’appello alla fede di cui si fa portavoce non consiste tanto nel credere che Dio esista, ma nel fidarci di Lui. La fiducia evocata da Francesco deve però essere rivolta anche agli altri uomini. Come rileva Simmel, vi è un tipo di fiducia che rientra nella categoria della fede religiosa: come non si crede in Dio sulla base delle prove della sua esistenza, ma in modo assolutamente immediato, allo stesso modo si può “credere” in un uomo senza che questa fede si giustifichi con prove relative alla dignità della persona, e spesso nonostante le prove in contrario. Si potrebbe precisare meglio questo concetto affermando che l’atto del dare fiducia corrisponde a quel salto nel buio con cui Kierkegaard identificava la fede. 

Francesco invita ad aprirsi con questa medesima fiducia sia a Dio che agli altri uomini. Egli esorta infatti a “cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta”, in cui “scegliere che cosa conta e che cosa passa”, “separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”, ma soprattutto “reimpostare la rotta della vita verso Dio e verso gli altri”. Queste parole richiamano l’etimologia del termine “crisi”, che deriva dal verbo greco krino, ovvero “separare”. Da questo primo significato, che si riferiva alla trebbiatura, cioè all’attività consistente nella separazione della granella del frumento dalla paglia e dalla pula, è poi derivato quello traslato di “scegliere”, “giudicare”. Benché il vocabolo “crisi” abbia assunto oggi un’accezione prevalentemente negativa, esso può designare dunque anche un momento di riflessione e di valutazione. In tal senso, quello che auspica Bergoglio è che la paura suscitata dalla scoperta della nostra vulnerabilità non determini una chiusura, ma che la consapevolezza della nostra insufficienza, dell’impossibilità di salvarci da soli, sia premessa di un’apertura fiduciosa all’altro, intendendo designare in questo modo sia l’alterità assoluta rappresentata dal divino, sia quella degli altri uomini. 

Il messaggio trasmesso dal papa può quindi essere accolto anche da chi non è credente in quanto pone in rilevo la nostra costitutiva condizione di dipendenza che, a prescindere dalla dimensione religiosa, ci definisce come membri di una comunità. A tutti è dunque diretto l’appello di Bergoglio a vincere la paura di queste settimane, trovando “il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati” e dando vita a “nuove forme di ospitalità, fraternità e solidarietà”. Si tratta, in altre parole, di rispondere all’imperativo etico che secondo Lévinas proviene dall’alterità e che rovescia la mia libertà di soggetto egoistico nella libertà di soggetto responsabile.

L’esortazione a prendere coscienza che nessuno si salva da solo richiede quindi di cessare di pensarsi come autosufficienti. Il pensiero antico era già pervenuto a questo risultato, come emerge in particolare dalla celebre definizione aristotelica dell’uomo come animale politico (politikon zoon) che troviamo nel primo libro della Politica. Il filosofo spiega in questa sede che chi non vive in società o è una bestia, inferiore all’uomo perché incapace di riunirsi in comunità organizzate, oppure è un dio, superiore all’uomo in quanto non manca di nulla e dunque non necessita della dimensione politica. L’uomo invece, poiché isolato non è autosufficiente (autarkes), si configura come parte di un intero. Di conseguenza la polis, ovvero la comunità politica, precede – non cronologicamente, ma logicamente e assiologicamente – l’individuo. Secondo Aristotele, infatti, l’intero viene prima della parte: quest’ultima non può esistere che all’interno dell’intero, così come una mano e un piede sono veramente tali soltanto finché sussiste il corpo. Una mano di pietra, si legge nella Politica, è così denominata solo per omonimia, ma non è propriamente una mano, in quanto ciascuna cosa è definita dalla sua funzione (ergon) e capacità (dynamis). Allo stesso modo, è veramente un uomo e non porta semplicemente lo stesso nome colui che svolge il ruolo che gli compete all’interno dell’aggregato politico. Questa concezione che fonda la nostra identità nell’appartenenza alla comunità, pur essendo evidentemente molto lontana dall’odierno modo di pensare, non può che renderci più ricettivi alla chiamata alla responsabilità civile che è stata costantemente sollecitata dalle autorità nelle ultime settimane. 

Per Aristotele affermare che l’uomo è per natura un animale politico significa sostenere che egli realizza la sua essenza nella comunità politica. In questo contesto, infatti, la natura non designa una condizione primitiva, come per i filosofi del XVII e XVIII secolo, ma il fine, vale a dire il compimento del processo di formazione di un ente. In tal senso, quando Aristotele dichiara che la polis va annoverata tra le cose che esistono per natura intende dire che essa rappresenta il vertice tra le forme di aggregazione e che di conseguenza ha conseguito la piena autosufficienza. Quest’ultimo è il fine della comunità politica che, nella prospettiva del filosofo, coincide anche con il meglio. La polis infatti non garantisce soltanto il vivere, ma permette di raggiungere l’eu zen, il vivere bene. A che cosa Aristotele faccia riferimento viene precisato nel terzo libro, dove la polis è definita come una comunanza di stirpi e di villaggi in una “vita pienamente realizzata e indipendente”: è questo, afferma il filosofo, “il vivere in modo felice e bello”.  L’autosufficienza che sfugge al singolo e che può essere conseguita solo a livello politico comporta dunque anche il raggiungimento della felicità. In questo senso va letto l’incipit dell’opera, in cui si afferma che, poiché ogni comunità è costituita in vista di un qualche bene, la polis, che è la più eminente e comprende tutte le altre, tende al massimo bene. Alla luce di queste affermazioni l’insegnamento “nessuno si salva da solo” assume un significato ancora più profondo: nei termini impiegati da Aristotele, non soltanto abbiamo bisogno degli altri per vivere, nella misura in cui il contagio può essere contenuto solo attraverso il sacrificio di tutti, ma abbiamo bisogno degli altri per vivere bene, ovvero per essere felici, come credo ciascuno di noi nell’isolamento di queste settimane abbia compreso. Poiché l'individuo realizza la sua umanità nella comunità, ne deriva che solo al suo interno egli possa condurre una vita autenticamente felice.

L’impossibilità per l’uomo di salvarsi da solo è evidenziata anche da una delle più note e potenti allegorie della filosofia platonica, quella della caverna, che è contenuta nel settimo libro della Repubblica. Come molti sapranno, la condizione degli uomini viene paragonata a quella di prigionieri vissuti fin dalla nascita in un antro, i quali sono convinti che le ombre che vedono proiettate nella parete di fronte a loro rappresentino l’unica vera realtà. Pochi però ricordano che lo schiavo che uscito all’aperto impara gradualmente a distinguere gli oggetti esterni fino a contemplare il sole – metafora dell'idea del Bene – era stato liberato da qualcun altro e che costui, a sua volta, torna nella caverna per sciogliere dalle catene i suoi antichi compagni di prigionia. Colui che discende nuovamente nell’antro, emblema del filosofo, compie un grande sacrificio, nella misura in cui rinuncia alla visione del Bene per tornare a rivolgersi alle vicende umane. Platone non nasconde i rischi a cui va incontro, in quanto, proprio come lui era stato liberato contro la sua volontà, anche gli altri prigionieri rifiuteranno probabilmente di lasciare la caverna. Essi potrebbero deriderlo e cercare addirittura di ucciderlo se questi tentasse di trascinarli fuori. Il pericolo corso da chi, all’interno della comunità, interviene a soccorso degli altri appare ancora più evidente nella situazione attuale, in cui medici e operatori sanitari (ma non solo) sono quotidianamente esposti al contagio. 

Nel dialogo platonico, tuttavia, si replica a questa possibile obiezione affermando che la legge non deve mirare a privilegiare una singola categoria di cittadini, ma deve perseguire il bene della collettività, spingendo ciascun individuo a espletare il proprio ruolo all’interno dell’organismo politico in base alle proprie competenze. Come Aristotele dunque anche Platone sottolinea il primato dell’intero, in cui le singole parti acquistano senso nell’esercizio della propria specifica funzione. Anche in questo caso la salvezza non è concepita come individuale, ma come conseguibile solo dalla totalità dei membri della comunità. Quest’ultima è identificata da entrambi i filosofi con l’aggregato sociale e politico, ma può anche essere intesa in senso universale come la comunità cui aderiamo in quanto esseri umani. È a questo secondo significato che papa Francesco fa riferimento quando parla di “quella benedetta appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”. Non si tratta tuttavia di un’idea soltanto cristiana: anche gli stoici d’età imperiale, come Epitteto e Marco Aurelio, avevano sostenuto l’universale fratellanza o parentela degli uomini, che giustificavano sulla base dell’unità del cosmo permeato dal pneuma divino e dell’universale diffusione dell’anima divina che si ripartisce nelle anime individuali.

In conclusione, non è possibile affermare con certezza che questa prova impegnativa ci renderà migliori, ciò dipende evidentemente dagli sforzi individuali, ma ritengo comunque che l’esperienza che stiamo vivendo collettivamente, a livello nazionale e globale, possa dirci qualcosa sulla nostra umanità. La crisi che stiamo attraversando, tornando nuovamente all’etimologia del termine, rappresenta anche un momento di valutazione e di giudizio, sta poi a ciascuno di noi fare in modo che ciò costituisca la premessa di un miglioramento e di una rinascita. In tal senso, il discorso del pontefice offre molti spunti di riflessione anche a coloro che aderiscono a un’altra confessione religiosa o che si pongono in una prospettiva laica. È inoltre possibile trovare nella cultura greca un importante contributo in questa direzione, poiché quel passato che pure appare così remoto continua a parlarci e in quanto esseri umani possiamo ancora riconoscerci nel pensiero dei filosofi antichi. 



 

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