Tra le molteplici forme della sua costante palingenesi espressiva, la libertà di pensiero, oggi, mi pare quella maggiormente a rischio estinzione. Non già in virtù di un qualsivoglia anti-somatismo neo-platonizzante che condurrebbe incautamente chi scrive a sottovalutare il nesso costitutivo tra la libertà del pensare e la libertà del muoversi. Tutt’altro: il corpo reclama a gran voce il contatto, l’aria, lo sguardo, e lo scambio con altri viventi della stessa sciagurata specie. E neppure per l’allergia, dall’epidermica eziologia, nei confronti del dirigismo autoritario della ragion di stato planetaria che sola sembra vantare gli strumenti adatti a combattere il micro-predatore mortale: Covid-19, la minaccia mutante dentro il corpo sociale, che sogna di trasformarsi in invincibile macchina da guerra virale, armata di raggi acido-ribonucleici.
Piuttosto, la minaccia concreta alla libertà di pensiero è l’atomizzazione puntiforme che disegna la mappa mondiale di miriadi di menti in contatto per mezzo di sofisticati mezzi di comunicazione, eppure isolate come monadi per via della pandemica ipertrofia egotica in atto. I singoli appaiono spaesati, incapaci di percepire se stessi come forme d’onda fluttuanti nell’oceano dell’intelligenza collettiva che proprio l’internet materializza: la stessa intelligenza collettiva di cui Proteo modella le infinite metamorfosi e Circe riconverte in singole essenze ferine, in modo tale che ciascuno possa mettere in opera i propri talenti nelle battaglie che gli anni a venire ci riservano. Purtroppo, invece, tra le onde delle ridondanze, tocca sogghignare nel vedere alcuni millantare invenzioni e scoperte o rivendicare proprietà intellettuali su frasi fatte o immagini replicate; soffrire nello scorgere intelligenze preziose fare a gara per dire la cosa più intelligente di tutte o ergersi ad analisti del futuro applicando protocolli di validazione non dissimili da quelli dei rabdomanti. Cionondimeno, si scorgono tra i marosi molti altri appassionarsi alla riformulazione delle premesse epistemologiche ed epidemiologiche che solo i giganteschi sommovimenti tellurici della Storia assicurano alle epoche di transizione.
Ogni ossessione che si rispetti vive di passioni implacabili. E questi giorni di distanziamento fisico hanno riportato chi scrive tra le pagine autografe di quattro degli oggetti d’amore per i quali non può esistere gelosia perché patrimonio condiviso del pensiero, a meno che i suddetti non stiano ora, mentre scrivo, a parlarsi in video-conferenza tutti e quattro di nascosto: Averroè; Giordano Bruno; Louis-Auguste Blanqui; e Donna Haraway. Ora, senza con ciò voler minimamente recar offesa alcuna ai custodi dell’ordine cronologico storiografico e sintattico, pare che Blanqui abbia diritto a prender parola per primo, sebbene chi scrive non sia autorizzato a svelare il perché.
Dopo la repressione della Comune di Parigi nel 1871, il comunardo fu rinchiuso nella prigione di Fort du Taureau, nella baia di Morlaix in Bretagna. Qui, privato della visione notturna del firmamento e punito per aver materializzato la possibilità concreta di sovvertire lo status quo, il comunardo reagì: tradusse la frustrazione politico-esistenziale in visioni, raccolte nel libello intitolato L’eternità attraverso gli astri. Blanqui parlò di stelle, pianeti, orbite e comete eppure, come ebbe a rilevare Walter Benjamin, egli anticipò di circa dieci anni due delle tesi centrali intorno a cui Nietzsche costruirà Così parlò Zaratustra: la disarticolazione del rapporto di necessità tra Storia e Progresso, nonché il Tempo come «eterno ritorno». Ma non è questo ciò che a Blanqui preme sottolineare in questa sede, anche perché il nichilismo perde gran parte del suo fascino quando diviene senso comune o vezzo da salotto telematico, come accade in tempi oscuri come questi. La questione è, al contrario: quali strategie possiede il pensiero per liberare se stesso. Liberare da cosa, innanzitutto? È umile ma ferma convinzione di chi scrive che il principale limite all’elaborazione di una strategia collettiva di liberazione sia l’incapacità di trasgredire i confini politici ed epistemologici delle strutture mentali della modernità. O, più tecnicamente, di prendere atto della natura congetturale dell’idea di modernità, la cui legittimità non deriva dalla sua, affatto indimostrabile, presenza onto-storica in quanto epoca, né tantomeno di tensione verso il progresso, bensì dalla efficacia della modernità come grammatica generativa fondata su due semplici assiomi: primo, la modernità rappresenta una rottura nel tempo e una differenza nello spazio; secondo, la modernità significa emancipazione. Questo perché, in quanto grammatica generativa, la modernità consente di produrre infinite proposizioni critiche ma allo stesso tempo vieta che queste proposizioni critiche si trasformino in atti in grado di oltrepassare il confine delle premesse epistemologiche della modernità stessa, al fine di muovere il pensiero in territori non ancora definiti. Dunque, la modernità come assiomatica si configura come scissione irriconciliabile tra infinito e indefinito, dove l’infinito come possibilità è condizione d’impossibilità dell’indefinito. Ed è a questo punto che Blanqui suggerisce una via per travalicare i confini che la modernità pattuglia con asfissiante zelo: ripensare il rapporto tra l’infinito e l’indefinito. In che modo? Secondo il canuto comunardo, è possibile concepire l’infinito estendendo per via analogica l’esperienza interiore dell’intuizione dell’indefinito. Ragion per cui, una volta esperita l’analogia tra infinito e indefinito come condizione di intelligibilità del secondo attraverso il primo, nulla vieta di varcare a ritroso, coscientemente, il medesimo confine e ritornare così all’indefinito in forma di realtà aumentata: non più intuizione di una condizione d’impossibilità e paralisi quanto piuttosto apertura verso uno spazio di possibilità e movimento.
È forse un caso che Blanqui adoperi l’analogia piuttosto che la metafora per farsi capire? No, parrebbe. Hans Blumenberg, un secolo dopo Blanqui, ha affermato che la modernità fonda la propria legittimità sulla metafora come forma di rioccupazione dello spazio lasciato vacante dall’incapacità della tarda scolastica di rispondere alle nuove domande che le trasformazioni geoculturali, politiche ed economiche, ponevano al pensiero medievale tra il XII e il XV secolo. La metafora, a differenza dell’analogia – continua Blumenberg – offriva una modalità di «rappresentazione»; consentiva cioè di figurare, di trasferire il pensiero su di un piano derivato da quello originale ma ontologicamente distinto da esso, per quanto maggiormente esplicativo nel particolare contesto di enunciazione della proposizione in oggetto. Blumenberg, di fatto, viene in soccorso di Blanqui quando avverte che, data la transitoria adeguatezza di qualunque forma di legittimità storicamente determinata, anche la modernità non può che contenere in sé la possibilità della propria esiziale inadeguatezza dacché nuove domande rimangono senza risposta, inevase, sospese, e lasciano spazio a differenti processi di rioccupazione in corrispondenza del territorio inesplorato di ciò che non è ancora stato pensato, non ancora definito: indefinito.
Se Blanqui, del resto, avesse tentato di afferrare la connessione tra infinito e indefinito per via metaforica, non sarebbe andato oltre il piano della rappresentazione. Invece, per via analogica, è riuscito a ritornare al problema di partenza con una diversa nozione d’indefinito, collocata su di un piano di realtà continuo rispetto a quello dell’infinito. E non, si badi bene, come se fosse metaforicamente riemerso in superficie boccheggiando mentre stringeva in mano una manciata di granelli superstiti del pugno di sabbia afferrato in apnea sul fondo del mare. A tal proposito, Alain de Libera, nella sua voce «Analogia» contenuta della seconda edizione del Dictionary of Untraslatables (2012), chiarisce che il significato profondo dell’analogia va ricondotto a una dimensione matematica. Matematica in senso epistemologico ancorché strettamente algebrico. L’analogia – spiega – si riferisce originariamente alla relazione matematica tra quantità diverse, o più precisamente, all’equazione tra due relazioni rispetto a un quoziente. In altre parole, le due entità sono in relazione non direttamente tra di loro ma in rapporto a qualcosa di soggiacente, a un’entità terza.
Avverroè, a questo punto, scalpita. Già fremeva quando si è tirata in ballo la scolastica medioevale – che è tanto islamica quanto cristiana, ci tiene a precisare. Ora che ci si accosta, umilmente, all’analogia però, non sta più nella pelle… Se c’è una cosa che manda in visibilio Averroè è la critica della metafora. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che proprio per aver dimostrato per iscritto che l’uso della metafora come fondamento epistemologico dell’ortodossia dei clerici musulmani, capeggiati da al-Ghazālī, dava vita a una forma di conoscenza di grado inferiore alla filosofia in quanto ricerca della Verità, Averroè fu condannato all’esilio, benché anziano e nonostante fosse primo magistrato di Cordova. Il fanatismo religioso lo costrinse dapprima nella cittadina di Lucena, in Andalusia, dove un giorno, mentre pregava nella moschea, fu aggredito, percosso e riempito di sputi da una folla di fedeli che lo aveva riconosciuto e additato come eretico. Infine, riparò a Marrakech, dove finì i suoi giorni rifiutando l’invito tardivo a rientrare in patria: atto di clemenza del sultano, di cui era stato protetto e amico intimo.
Al-Ghazālī aveva attaccato violentemente i filosofi razionalisti, e personalmente Averroè, nel libro L’incoerenza dei filosofi, al quale Averroè aveva risposto, da par suo,con L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi. La questione è molto articolata sebbene la problematica sia piuttosto classica e attiene alla teodicea, ossia la diatriba intorno all’origine divina dei mali del mondo. Più nello specifico, Averroè tesse un dialogo serrato con gli scritti di al-Ghazālī, come se quest’ultimo gli fosse davanti a discutere in una pubblica piazza davanti a un pubblico di studenti. Un asso in particolare risulta efficace nel designare i termini del dibattito e, allo stesso tempo, mostrare l’origine visuale del linguaggio quotidiano dei social media: il commento.
Ghazālī prosegue:
Se definiamo «agente» ciò che è inanimato, è per via metaforica.
Allo stesso modo in cui in cui si parla metaforicamente di «tendere»
o «volere». Infatti, si dice che la pietra cade, perché tende e
ha un’inclinazione verso il centro, ma in realtà tendenza e volontà
possono essere immaginate solo in connessione con la conoscenza
e con un oggetto desiderato, e questo lo si può immaginare solo negli animali
e non in ciò che è inanimato.
Io dico:
Se per «agente» o «volere» s’intende performare l’atto di qualcuno che vuole,
allora è, sì, una metafora. Ma se con queste due espressioni s’intende
la trasformazione in atto della potenza di qualcun altro [Dio],
allora l’inanimato è agente nel senso pieno del significato della parola.
E più avanti, Averroè incalza:
Io dico:
Certo, se dico che qualcuno ha preso fuoco perché un altro lo ha incendiato,
allora l’atto di volontà di un agente è chiaramente identificabile.
Ma se dico che una persona ha preso fuoco senza che qualcuno
lo abbia dato alle fiamme, allora è il fuoco stesso ad aver agito
muovendo il sostrato materiale dalla potenza di essere incendiabile all’atto di incendiarsi.
Dunque, la connessione tra i due livelli di realtà non è di natura metaforica.
Apriti cielo... Averroè è un blasfemo perché va blaterando che Dio non è volontà! E invece il messaggio è ben più poetico. Averroè stava dicendo che agli ignoranti occorre una religione, della quale ciascuno prima o poi diventa prima devoto e poi Dio stesso. Ma agli altri bastano il pensiero, le lettere, le arti, perché attraverso di esse è possibile raggiungere la consapevolezza dei propri limiti umani. E ammettendo la propria condizione umana, i filosofi fanno esperienza dei limiti del potere, proprio e altrui, così come riconoscono l’onnipotenza di ciò che non è dato loro intendere per via razionale. Dio, se vi pare. È facile dedurne che l’autonomia del pensiero libero non piace al potere in ogni epoca e in ogni luogo. Tanto meno se offerta alla collettività come via aperta a chiunque voglia seguirla. Peggio ancora se riferita in ultima istanza a una dimensione collettiva che dunque mortifica il potere assoluto dell’individuo, su se stesso prima ancora che sugli altri: tanto nella sua assoluta autonomia dal resto degli uomini quanto nella sua colpa di fronte all’autorità, secolare o religiosa che sia.
La via della libertà collettiva, purtroppo, è impervia e richiede amore e disciplina. Ai più, infatti, la libertà fa più paura che la prigionia perché se non ci sono soglie da violare né bellezze da sabotare, non si sentono padroni del proprio respiro: ma chi lo è? Certo, si può regolare il ritmo e l’ampiezza del respiro, lo si può controllare con accurate e antichissime tecniche di cui i maestri orientali sono custodi, lo si può perfino rendere ininterrotto, circolare e diplofonico, come fanno il cantante degli Area, Demetrio Stratos, o il sassofonista statunitense, Colin Stetson. Ma l’atto del respirare, ovvero ciò che ci tiene in vita, ci è sottratto ab origine: non è una volontà individuale perché pertiene a qualcosa che è più grande di noi. Ed è la pretesa di poter ignorare questa condizione di irriducibilità nella connessione tra due forme di volontà, sovraumana e umana, diverse eppure continue, a segnare lo scarto tra chi non è filosofo e chi lo è: come sostenne Giordano Bruno davanti all’Inquisizione romana, la filosofia non è una disciplina ma una tensione verso la conoscenza; qualsiasi forma di conoscenza.
Sorvoliamo, però, sulle questioni dottrinali. A dire il vero, è lo stesso Averroè ad averci messo una pietra sopra dopo che i suoi libri sono stati messi al rogo, sia in Marocco sia in Andalusia. Il vero aculeo della cerbottana del libero pensiero con cui Averroè infilzò il deretano dell’ortodossia ecclesiastica, sia islamica sia cristiana, consiste in ciò che la legittimità dell’analogia a scapito della metafora fonda: l’intelletto collettivo.
Il tema è arcinoto, benché vittima di misunderstanding. Lasciamo pure in sospeso lo sforzo di dare una definizione impeccabile del lemma e affidiamoci all’intuizione del significato che emana dal lemma stesso: intelletto collettivo. Qualcosa, un ente, che sottostà a, e allo stesso tempo sovrasta, i singoli intelletti riferibili agli individui. In altre parole, la condizione di possibilità della connessione tra due intelletti singoli che trova legittimità in un sostrato terzo, analogamente al quoziente citato in precedenza da Alain de Libera: una proprietà essenziale per la relazione tra singoli esseri umani che si trova al di fuori di ciascuno di essi e addirittura connette tutte le intelligenze, non solo nel corso della loro esistenza terrena bensì in ogni spazio e attraverso tutti i tempi.
Fantasmagorico! La cosa dovette sembrare così potente agli uomini di scienza del XIII secolo che molti si entusiasmarono quando ebbero tra le mani le primissime versioni dei commenti di Averroè al De Anima di Aristotele. Non dimentichiamo che, fino al XII secolo, la Cristianità latina aveva conosciuto pressoché solo la Logica, tra tutte le opere dello stagirita. E invece, dalla fine del XII secolo, per circa settanta anni, il problema principale in seno all’élite erudita del mondo cristiano, soprattutto alla corte normanna di Federico II in Palermo e Napoli, e alle università di Parigi e Oxford, divenne: come conciliare fede e ragione? C’è da rilevare che nelle aree islamiche del Mediterraneo questo problema teneva banco da circa quattro secoli. Rispetto ad esso, le tesi di Averroè rappresentavano una svolta razionalista promettente, ma talmente radicale da risultare difficilmente addomesticabile una volta entrata in contatto con le menti più effervescenti. Fu Tommaso d’Aquino, domenicano, tra i primi dottori della neonata università napoletana, la prima laica d’Europa sul modello dell’università di Fez in Marocco, a tentare, intorno al 1250, una complessa quanto elevata sintesi di contenimento: credo ut intelligam et intelligo ut credam: credo per capire e capisco per credere.
Purtroppo, nel XIII secolo non tirava aria di compromesso. A tutti i livelli. Dal punto di vista dottrinale, lo scontro si era acceso all’interno delle istituzioni ecclesiastiche tra i due ordini mendicanti che erano stati istituiti nel 1208 da Papa Innocenzo III: Francescani e Domenicani. Ambedue impegnati nella lotta agli infedeli, sebbene i primi più accaniti contro le influenze arabe sul pensiero cristiano, i secondi più accaniti contro gli eretici in Europa. Del resto, la situazione geopolitica era complessa. Nel Mediterraneo, dopo alcuni successi militari, le Crociate finirono con delle sconfitte per i Cristiani e gli stati musulmani divennero una minaccia spaventosa e costante. Nel 1258, i Mongoli giunsero fino alle porte del Vicino Oriente conquistando Baghdad e crearono così la via terrestre tra Oriente e Occidente: la via della seta percorsa da Marco Polo che aprirà il varco alla Peste nera del secolo seguente, come ha raccontato McNeill nel suo memorabile saggio La peste nella storia. Domenicani e Francescani entrarono nelle principali università d’Europa, sollevando la reazione dei magister secolari e poi piegandone la resistenza grazie al potere della Chiesa Cattolica Romana. Lo studio di Aristotele, soprattutto attraverso i commentari di Averroè, fu ostacolato e poi bandito perché contagiava le giovani menti in formazione degli studenti: le notorie condanne del 1270 e del 1277 delle tesi di derivazione aristotelica sancite alla Sorbona di Parigi non risparmiarono neppure alcune tesi di Tommaso d’Aquino, che pure era stato una figura di primissimo ordine accademico di quello stesso ateneo. Qualsiasi teoria o idea avesse a che fare con l’influenza araba fu prima stigmatizzata in termini di Aristotelismo eterodosso, in seguito denigrata in termini razziali come arabismo.
A dire il vero, l’insofferenza del potere ecclesiastico nei confronti di Averroè non si spiega interamente con ragioni geopolitiche. In fondo, le autorità cristiane si comportarono in modo non dissimile dal modo in cui si erano comportate quelle islamiche pochi decenni prima. Il problema era sempre lo stesso: l’intelletto collettivo indeboliva l’intero assetto del potere fondato sull’individualismo: se il singolo individuo non è condannabile in eterno alle pene dell’inferno perché il suo intelletto è parte di qualcosa d’immortale e generale, il potere della religione svanisce. E di conseguenza, la dimensione mentale e spirituale della condanna individuale depotenzia anche il potere delle autorità secolari nei confronti della singola persona, specialmente per quei reati compiuti collettivamente; del resto, nelle rivolte, le autorità giudiziarie e di polizia tendono sempre a isolare e punire il singolo. E lo stesso vale per le forme di lavoro che accanto al servaggio iniziavano a configurarsi come rapporti di lavoro stabiliti tra padroni e prestatori d’opera, mediati dallo scambio di denaro. Infatti, nel XIII, la fragilità dell’élite del mondo cristiano corrisponde alla crisi dalla struttura sociale che gli storici del medioevo chiamano dei Tre Ordini: laboratores, bellatores, oratores. Di fronte alla crisi di potere, le autorità divennero intolleranti e aggressive.
Eppure, dopo otto secoli dalla sua morte, siamo ancora qui a parlare di Averroè. Le sue idee sopravvissero alle condanne e riaccesero i cuori e le menti di alcune tra le figure più importanti nella storia del libero pensiero, sebbene a spese della propria libertà individuale, il più delle volte. Mi sovviene alla mente la vicenda di quel tale Filippo Bruno, Nolano di nascita e poi di nome, che nel corso di un’ingenerosa disputa sulla validità del sistema copernicano presso i puritani di Oxford, ribatté agli sfottò sul suo incerto accento inglese sfottendo il rettore e la sua corte di lacchè: «Napolitano, nato ed allevato sotto più benigno cielo». Rispetto al XIII secolo, le coordinate del dibattito filosofico erano radicalmente mutate. Il pensiero rinascimentale, negli anni che seguirono la caduta di Costantinopoli (1453), era intriso di neoplatonismo e di saperi esoterici. Due tra i principali effetti di questo mutamento nell’immaginazione vengono in rilievo in questa sede: la nozione di anima e il pensare per immagini. Quanto alla prima, era convinzione diffusa che l’anima fosse il veicolo fatto di sostanza pneumatica intermediario tra l’Essere e l’Uomo. Sostanza pneumatica, ossia soffio divino, che connetterebbe l’intero cosmo in una singola entità. Quanto al pensare per immagini, invece, la fantasia dotava la prosa dei filosofi rinascimentali di una potenza evocativa inaudita, tant’è che se confrontiamo gli scritti di Bruno con quelli di Averroè, i secondi appaiono taglienti come lame, glaciali come tramontana, nitidi come cieli d’alta quota, scheletrici come fossili dell’Uomo di Cro-Magnon; i secondi, pastiche barocchi. Eppure, per Bruno, quelle immagini non sono metafore, come le intenderemmo noi. Sono ancora una volta espressioni figurate di una medesima sostanza, dalla quale le forme particolari emanano.
Fatta questa premessa, possiamo concentrarci su un singolo aspetto del pensiero di Giordano Bruno che emerge dalle carte del processo Romano. Un fil rouge connette Bruno ad Averroè attraverso tre secoli. Tra le varie accuse comprovate man mano da testimoni che con Bruno condividevano la cella e sulla cui affidabilità ci sarebbe molto da ridire, ne spicca una in particolare. Bruno avrebbe sostenuto, sia a voce sia nei suoi scritti, la possibilità della metempsicosi, vale a dire, la trasmigrazione delle anime. La tesi era senza dubbio in contrasto con il dogma cristiano, al pari di quanto contrarie al dogma cristiano erano altre religioni mondiali, specialmente orientali, nonché una varietà di eresie che da quelle religioni in vario modo e per vie complicate derivavano. Ma il nodo teorico sollevato da Bruno a sua difesa, e soggiacente alla questione della metempsicosi, è ben più fitto d’implicazioni politiche.
Bruno sostenne la validità «filosofica» della trasmigrazione delle anime, per quanto ammettesse che de facto essa non avvenisse; così come stabilito dalla verità di fede. Spiegò che siccome l’anima è immortale e ha esistenza distinta dal corpo, che invece è mortale, non è impossibile che in via teorica l’anima possa informare un nuovo corpo. La distinzione tra la verità di fede e quella di ragione, che Bruno deve ad Averroè, mostrò agli inquisitori chiaramente che il Nolano era recalcitrante ad ammettere che qualcosa di pensabile non fosse anche, in linea teorica, realizzabile. E questa radicale fiducia nel libero pensiero fondato sulla nozione di una dimensione sostanziale ma invisibile delle connessioni che intercorrono tra umani nonché, a un livello più profondo, tra umani e cosmo, era indigesta alle autorità ecclesiastiche perché razionale e allo stesso tempo più potente di qualsiasi verità rivelata. Non solo. Bruno era anche uno strenuo difensore della natura pneumatica dell’anima del mondo. Ragion per cui, egli considerava la Terra dotata di un’anima non soltanto «sensitiva ma anco intellettiva; come la nostra o forse più!». L’entusiasmo dovette tradire ancora una volta le sue più vere convinzioni circa la relazione costitutiva tra la finitezza del singolo uomo, la natura come entità capace di agire, la singola intelligenza individuale, e l’intelligenza propria del Pianeta: un singolo intelletto collettivo – come quello di Averroè – vieppiù ecologico.
Bruno fu bruciato vivo con la mordacchia sulla lingua a vietargli di proferir parola perfino in punto di morte. Il ragazzo era un bambino difficile, come disse Albert Hofmann a proposito della sua creatura: l’LSD. Ma quella condanna ha finito per aumentare a dismisura la potenza con cui oggi possiamo soffiare nella cerbottana del libero pensiero fino a estendere la gittata degli aculei oltre le soglie del già pensato, del già realizzato. Inutile dilungarsi sulla miriade di questioni sostanziali che siffatta visione non-antropocentrica del cosmo solleva a fronte dei disastri ambientali di cui l’Uomo in primis paga il conto salato. Il rischio sarebbe di fare di Bruno un alfiere della reazione romantica alla tecnologia ed associarne surrettiziamente le idee all’apologia acritica delle conoscenze di matrice indigena non europea, la cui ricchezza e rilevanza non può essere oggetto di queste note a margine della pandemia. Tuttavia, è forse il caso di suggerire nuove alleanze teoriche, politiche ed ecologiche. \Per questa ragione, chi scrive non ha remore nello scomodare Donna Haraway. Di fronte alle sfide disumane, Donna non si è mai tirata indietro.
La studiosa americana, nel 2016, ha dato alle stampe un volume dalla prosa alquanto ostica, intitolato Staying with the Trouble, convivere con i guai; titolo trasfigurato in italiano con la tempestiva locuzione Pianeta infetto. Donna Haraway muove dalla constatazione che il Pianeta è popolato da critter, termine ironicamente vezzeggiativo, a metà tra creature e bestiole. La stessa Haraway, in nota, chiarisce: «Critter è un’espressione usata nel linguaggio quotidiano in America per indicare animali nocivi di ogni genere. Gli scienziati parlano continuamente di critter, così come il resto delle persone, ma forse soprattutto negli stati del Sud. La parola critter non è contaminata da «creature» né dalla «creazione»; se doveste vedere questa sorta di cirripede semiotico attaccato a questa parola, raschiatelo via. In questo libro, critter è riferito indistintamente a microbi, piante, animali, esseri umani e non-umani, e a volte anche alle macchine»». Anche il Covid-19 è un critter. Un virus cui l’uomo ha dato un nome davvero bello. Tecnologico, seriale, convesso: acuminato come l’aculeo grazie al quale il Virus entra nelle cellule per sopravvivere. Un essere bio-sensuale, sia concesso di azzardare. Del resto l’utilizzo dei social media avvicina la nostra esperienza quotidiana non soltanto ai commenti di Averroè, ma alla forma virale di vita come condizione desiderabile. Ottenere condivisioni, vedere frammenti di se stessi replicati il più alto numero di volte possibile nel minor tempo possibile, sperare che i meme modifichino il frammento originale generando delle mutazioni che consentano una diffusione ancora più estesa: sono tutte aspettative che compongono un orizzonte di vita simile a quello del virus più di quanto siamo disposti ad ammettere. Noi e il Virus condividiamo, insieme a miliardi di altre creature, lo stesso pianeta che Donna Haraway ha ribattezzato Terrapolis. Terrapolis è uno spazio n-dimensionale che trova espressione matematico-linguistica nella seguente equazione integrale immaginaria:
Ω
∫ Terra[x]n = ∫∫∫∫ . . . ∫∫Terra(x1,x2,x3,x4, . . . ,xn,t) dx1 dx2 dx3 dx4 . . . dxndt = Terrapolis
α
x1 = materia/physis, x2 = capacità, x3 = socialità, x4 = materialità, xn = dimensioni-ancora-da-venire
(alpha) = epigenesi multispecie della biologia evoluzionistica dello sviluppo integrata nell’ecologia
Ω (omega) = recuperare il pluriverso della Terra
t = il tempo del farsi mondo, non il tempo come contenitore, tempi del passato/presente/futuro ancora da venire aggrovigliati tra loro
L’aspetto esoterico della formulazione di Donna Haraway dischiude il senso matematico-epistemologico originario della citata nozione di analogia, su cui si fonda il pensiero libero come intelligenza collettiva. È una formulazione insieme attraente e repulsiva. È perturbante. Vista più da vicino, però, contiene tre elementi reciprocamente necessari: un elemento descrittivo, vale a dire i parametri che compongono l’equazione; un elemento relazionale, vale a dire i vincoli tra i diversi parametri simbolici, numerici e lessicali della funzione; un elemento spaziotemporale: ancora-da-venire. Questo elemento è di per sé indefinito: non corrisponde al futuro tout court. Il suo significato disarticola la consecutio temporum: «… dimensioni-ancora-da-venire» e «tempi del passato/presente/futuro ancora da venire aggrovigliati tra loro». Questo terzo elemento esprime cioè la condizione di immanenza e transitorietà che ci vincola in modo inestricabile a tutte le altre creature, in mezzo a sostrati inerti e flussi di energie indistinguibili dalla singolarità di ciascuno. Tuttavia, Terrapolis non è affatto il biblico Paradiso perduto né il mondo armonioso dei pensatori rinascimentali. Tutt’altro. È il pianeta infetto, in troubles, nel quale è necessario stabilire alleanze tra critter collocati in diversi e spesso distanti luoghi, anelli della catena alimentare, scale dimensionali, ecosistemi, e spazi immaginari. E non è detto che critter della stessa specie collaborino per trovare insieme un elemento condiviso che consenta la sopravvivenza dei propri simili in equilibrio dinamico con altri esseri, ai quali prospettare simbiosi definibili solo con le parole ancora-da-venire. Pertanto, le parole lette fin qui hanno senso solo nella misura in cui qualcun altro lo legga, perché l’individuo che le ha articolate in frasi e periodi, da solo, è perfettamente insignificante…