Nel quinto capitolo del secondo libro dei Discorsi, Nicolò Machiavelli osservava come le «memorie dei tempi» per diverse ragioni si spengono: «delle quali parte vengono da gli uomini», come le variazioni delle lingue e delle religioni; «parte dal cielo» ovvero naturali, le quali «spengono la umana generazione e riducano a pochi gli abitatori del mondo». Tra le cause naturali che determinano lo spegnersi della memoria dei tempi, egli inserisce la peste: essa porta via con sé non soltanto i corpi dei morti, ma anche la memoria dei vivi, purgando le umane generazioni e imponendo l’oblio di ciò che è stato prima, a cui segue il desiderio dei sopravvissuti di dimenticare per ricominciare. Se, da un lato, l’emergenza di un’epidemia induce a vivere nell’attimo e nell’attuale, in giornate dal tempo sospeso e nell’attesa di un futuro incerto, dall’altro, tende a far dimenticare il prima, ad accettare la normalità dell’anormale. Nell’Epistola sulla peste destinata a Lorenzo Strozzi, Machiavelli descrive quello della peste che colpì Firenze nel 1523 come il tempo in cui «le cose presenti ci offendono, le future ci minacciano, e così nella morte si travaglia, nella vita si teme».
Nel tempo della sospensione, il timore e il rifiuto della dimensione sociale, il sospetto o il disgusto del corpo altrui, sia esso un estraneo o un conoscente, divengono tratti comuni di un presente incerto in cui «sono serrate le botteghe, gli esercizi fermi, i giudici o le corti tolti via, prostrate le leggi», in cui non sappiamo immaginare un futuro libero dalla paura. Le parole di Machiavelli paiono descrivere una realtà a noi vicina, non certo nel tempo, ma nei modi in cui l’umanità, pur nelle sue diverse generazioni e nelle differenti epoche, ha affrontato le epidemie, con le sue paure, come con i suoi rimedi e precauzioni, sempre gli stessi: la chiusura, l’isolamento, la distanza. Riviviamo come in un ciclo ciò che l’umanità ha sempre vissuto. Non ci è estranea la descrizione delle abitudini quotidiane in tempo di peste, in cui «gli uomini vanno soli, e in cambio di amica, gente di questo pestifero morbo infetta si riscontra. L'un parente, se pure l'altro trova, o il fratello il fratello, o la moglie il marito, ciascuno va largo». O ancora, potremmo trovare delle assonanze con il tenore dei discorsi che può capitare di ascoltare: «chi dice: il tale è morto, quell'altro è malato, chi fuggito, chi in casa confitto, chi all’ospedale, chi in guardia, chi non si trova, e somiglianti nuove, atte con la sola immaginazione a fare Esculapio, non che altri, ammorbare […]. Questi sono i piacevoli ragionamenti, che ad ogni ora si sentono». Ma come riviviamo le paure, i rimedi e le precauzioni, così riviviamo anche quel senso di rimozione e di perdita di memoria dei tempi.
La nuova “peste” che stiamo attraversando costituisce una forma di vissuto in grado di riportare alla memoria un patrimonio di ricordi e di esperienze con cui l’umanità ha da sempre fatto i conti nel corso della sua storia. La comparsa dell’epidemia ha fatto riemergere un senso d’impotenza, del limite e della morte, individuale e collettiva, capace di mettere in crisi la pretesa di esser giunti a un tale livello di modernità e di progresso da essere diventati immuni da ciò che, invece, ci ha sempre accompagnati. La crisi è, in questo senso, crisi di memoria, di conoscenza e di coscienza storica, incapacità a legare insieme i pezzi dei nostri tempi: laddove ogni cosa diviene “attualità”, sono spezzati i fili che legano il nostro presente al nostro passato, con la possibilità di proiettarci in un futuro che sia radicato, non nell’incertezza e nella paura, ma in una memoria collettiva cosciente e preparata.
Basterebbe ripensare alla diffusione del virus della spagnola, l’influenza H1N1, che tra il 1918 e il 1920, appena quattro o cinque generazioni fa, provocò tra i cinquanta e i cento milioni di morti, arrivando a infettare più di cinquecento milioni di persone in tutto il mondo, per riannodare le fila di un’esperienza collettiva che ha sempre costituito parte della nostra storia. Seppur quest’evento rappresenti un vissuto che direttamente o indirettamente è giunto fino a noi, spesso attraverso racconti familiari, esperienze come questa appaiono lontane non soltanto dalla nostra memoria collettiva, ma ancor più dalla nostra coscienza storica. Nello sfogliare un manuale di storia, ci meraviglieremo oggi di ciò che fino a ieri non ci stupiva, ovvero della rara presenza, se non della totale assenza, della spagnola dalle sue pagine. La testimonianza della vera prima pandemia della nostra epoca si è trasmessa per lo più attraverso racconti, memorie private e familiari, piuttosto che tramite l’approfondimento storico, se non quello specialistico e legato alla storia locale, assottigliandosi sempre più, per poi cadere in una forma d’oblio e di rimozione di un trauma collettivo. Se prendessimo in considerazione le cronache di allora, i diari e le memorie private, le lettere e le corrispondenze, ci renderemmo conto della portata globale e dell’importanza che quella pandemia ebbe sulle vite di tutti. Se sfogliassimo le fotografie di quegli anni, ci imbatteremmo in frammenti di una realtà a noi talmente prossima da lasciarci straniati per la somiglianza con il nostro modo di vivere l'odierna “peste”.
La rimozione, l’oblio e la perdita di memoria dei tempi costituisce, dunque, uno dei tratti caratteristici comuni e quasi inscritto nel nostro modo di rapportarci a questa tipologia di eventi. Eppure, oggi possediamo conoscenze, strumenti, tecniche e risorse che ci permetterebbero non soltanto di avere memoria della nostra impotenza e del nostro limite, ma ancor più di salvaguardarci e di metterci al riparo dall’assenza di cure, di posti letto negli ospedali, di mezzi per intervenire in tempo ed efficacemente, limitando la diffusione dei contagi e delle morti. La crisi di memoria che viviamo non è legata soltanto alla dimensione sanitaria, ma anche a quella culturale, politica e ancor più economica. Le conquiste scientifiche e tecnologiche, la modernità e il progresso del nostro tempo si rivelano come una luccicante chimera, laddove non possono tendere, per voluta scarsità di risorse, alla protezione e al sostegno di tutti, facendo piuttosto risaltare i limiti di un sistema di società che reitera e amplifica le disuguaglianze: disuguaglianze tra quanti hanno accesso a cure, a un posto letto in ospedale e quanti no; tra chi ha un sostegno economico pur non lavorando, come sta avvenendo in Francia, in Spagna, in Inghilterra, e chi no; tra quanti possono ripararsi nelle proprie case e aspettare che l’emergenza passi e quanti no.
Nel 1931, a dieci anni dalla fine della diffusione della spagnola e in piena grande depressione, l’economista inglese John Maynard Keynes, alle cui teorie dobbiamo i trent’anni di maggiore benessere che l’Occidente abbia mai conosciuto, osservava, nella prefazione al suo Essay in Prophecy and Persuasion, che il «problema economico […], il problema del bisogno e della miseria e la lotta fra classi e paesi, non è che un terribile pasticcio, un pasticcio contingente e non necessario»: il mondo occidentale – aggiunge Keynes – in realtà disporrebbe «già delle risorse, ove sapesse creare l’organizzazione per utilizzarle, capaci di relegare in una posizione di secondaria importanza» tale problema, che invece «assorbe oggi le nostre energie morali e materiali».
Potremmo allora, forse, voltarci indietro per interrompere la ripetizione di un ciclo, per recuperare memoria, per rimettere in discussione la presunta modernità e il progresso che viviamo, per pensare a un cambio di paradigma che ci proietti in un futuro meno incerto e radicato nella nostra memoria e nella consapevolezza della nostra storia.