Un giorno gli si darà ragione e più che mai si capirà che, molto prima degli altri, ha visto lontano, in anticipo sui tempi. Anche noi, perciò, non dobbiamo frapporre indugi.
L’homme des Lumières: così s’intitolava un congresso internazionale, tenuto a San Pietroburgo e a Parigi. Gerardo Marotta ne raccolse gli atti in un libro pubblicato a Napoli nel 1992. Ma questo titolo merita un’attribuzione: a mio avviso “l’homme des Lumières”, oggi come domani, è lui, Gerardo Marotta. Se mi si domandasse a bruciapelo di rispondere alla domanda «qual è il modello per l’homme des Lumières nel 1996», non troverei identificazione migliore.
Mi piace pensare all’avvocato e mi accorgo che la mia ammirazione per quest’uomo fuori del comune non ha misura: è sorridente, affettuosa, ma soprattutto grande e singolare. Sì, è dentro di me, ma più grande di me. Grande come il mondo eppure stretta, penetrante e in salita, come un vicolo soleggiato di Napoli.
L’ammirazione non è disgiunta dalla gratitudine per ciò che ho ricevuto da quest’ospite incomparabile, io come tanti altri, quando son stato a casa sua, nel sud dell’Italia. Ma l’ammirazione riguarda soprattutto quel che, prima di essere un dono di ospitalità, è degno di essere ammirato. Un’ammirazione che è più grande di me, come ho detto, perché comprende il mondo che l’avvocato ha fatto suo: la causa dell’universalità, la causa della ragione difesa appassionatamente, in Europa e nel mondo, nelle aule di quei giganteschi tribunali che sono le istituzioni internazionali, da Strasburgo a New York, dal Parlamento europeo alle Nazioni unite. Una causa proclamata dalle tribune dell’umanità dove Gerardo Marotta ebbe l’inaudita audacia di chiamarci perché unissimo la nostra voce al suo Appello per la filosofia. Cittadino del mondo e amante della res publica, quest’illuminista ha osato lanciare al mondo un appello per la salvezza, il passato e l’avvenire della filosofia, per il rispetto incondizionato del pensiero, a favore del sapere e dei libri, per la pedagogia e per la ricerca, per l’umanesimo e per la scienza.
La mia ammirazione è singolare perché questa figura esemplare di fede nell’illuminismo del nostro tempo e di domani, è contornata da un’aura di seduzione irresistibile: è il carisma di un uomo gracile, modesto, sorridente ed arguto, riservato, anche se sempre presente a tutti, sensibile di volta in volta ai casi individuali dei suoi amici, dei suoi colleghi e dei suoi studenti. Sì, sono tutti suoi ospiti, e se nel ricevere le persone egli intende raccoglierne il pensiero, la filosofia, il sapere, l’umanità, gli scritti, non dimentichiamo che mentre riceve, egli dona: dà la parola all’ospite e gli fa dono della sua. Sempre egli rende visita ai suoi ospiti, anche quando essi sono a casa sua. È pronto ad ascoltare, suprema cortesia, come se fosse lui l’invitato. È questa la grande arte, un’arte rispettosa delle leggi dell’ospitalità.
Dirò ancora che la mia ammirazione è singolare, perché vivificata nella memoria da un insieme di sensazioni: sono sussurri, immagini e profumi. Per ritrovare Marotta a volte mi basta rievocare un’intonazione: faccio risuonare il suo nome all’italiana, come i conducenti dei taxi quando si è a Napoli, e si è in ritardo per l’Istituto. Appena sentono quel nome, loro sanno dove andare: ma non dove, sanno da chi si deve andare. Perché l’Istituto, quest’asilo o santuario della filosofia universale, è innanzi tutto una casa, è casa sua. Nel tornare indietro col pensiero si procede come al rallentatore, perciò spesso mi compiaccio di salire lentamente – questa volta senza taxi – un viale di ricordi. Mi soffermo, mi abbandono al piacere di analizzare nel dettaglio un singolo episodio, depositato in fondo alla mia immaginazione; oppure analizzo le tappe del mio viaggio per Napoli, quando recarsi in questa città è come andare nel centro del mondo. Allora scopro il cosmopolitismo, quello di cui parla Kant nell’orizzonte della “pace universale”, il “diritto cosmopolita”: lo scopro in fondo a un vicolo inondato da profumi, colorato dalla frutta, gremito di grida, ombre e luci; e il ricordo va a una strada di Algeri, nella mia infanzia.
Ovunque mi trovi, posso sempre fantasticare di risalire la via Monte di Dio, mentre mi reco all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Vi sono stato spesso, ma ricordo bene la prima volta, parecchi anni fa. Non conoscevo ancora il fascino di Gerardo Marotta, efficacemente protetto dalla virtù della sua discrezione. Il suo è un nome di risonanza mondiale, lui è un grande navigatore della cultura: questo è l’audace Gerardo Marotta, ma nel fondo è un uomo timido, riservato, prudente (il contrario dell’uomo mondano). Ho scoperto il suo fascino poco per volta, tutte le volte che tornavo in cima a quella collina, in quei luoghi di meditazione e discussione che meriterebbero d’esser rappresentati in un affresco o in un romanzo d’altri tempi. Ho detto “quei luoghi”, al plurale, perché non saprei contarli. L’Istituto per me rappresenta un insieme di cause e di cose: una dimora abitata da sussurri e cigolii, ma anche un castello dove i lavori di costruzione e restauro sono sempre in corso, un monumento storico rivestito da un’impalcatura perenne (l’ “impalcatura” rende bene l’idea dell’attività di quest’intraprendente architetto), un monastero al riparo dal mondo, un’università superstite del Medioevo e un Collegio internazionale del xxi secolo «mondializzato», provvidamente già nato. Ecco i navigatori multimediali, qui sono i fax e la e-mail, lì le telecamere e i sistemi video, si organizzano conferenze simultanee e poliglotte, i sistemi di archiviazione sono rigorosamente high-tech.
Il disordine magistralmente organizzato dell’Istituto può essere paragonato a quello di un mercato meridionale dove le merci si trovano tutte però al loro posto, e così il mangiare e il bere: l’Istituto è insieme una fiera del libro, un forum, un’agorà, un parlamento di filosofi, dov’è possibile incontrare in gran numero ascoltatori assorti, studenti d’ogni età, professori venuti da Napoli, Roma e Milano, ma anche da tutto il mondo, fotografi con flash impietosi, giornalisti che vi carpiscono un’intervista all’ingresso di un salone, uomini e donne di cultura che negl’intervalli fra le relazioni si aggregano in capannelli e continuano a dibattere i temi del seminario, della presentazione di un libro o di una tavola rotonda.
Gerardo Marotta sta nell’ombra, con una raffinatezza pari alla sua generosità, ma è lui la sorgente della luce che si diffonde ovunque la filosofia lo reclami. Prima di tutto e senza dubbio a Napoli, poiché Napoli rende attuale, attraverso lui, il ricordo del suo passato di grande capitale della filosofia: l’Istituto conserva l’eredità di questo passato senza però arroccarsi, aprendosi, al contrario, a tutti i venti della modernità. Ma l’Istituto non è presente soltanto a Napoli. (Ricordo una bella giornata all’isola di Capri, insieme con Ferraris, Gadamer, Gargano, Trias, Vattimo, Vitiello, gli editori Laterza e Marchaisse: ero stato invitato a parlare della religione, argomento di non poco respiro, tra i Faraglioni e il Vesuvio.) L’Istituto è presente in tutta Italia, e poi in Francia e ovunque in Europa, nell’insegnamento e nella ricerca, in progetti editoriali audaci e necessari. È presente nei rapporti con le istituzioni pubbliche e private, quando apre la strada a nuove forme contrattuali fra lo Stato e la società civile, definendo i ruoli dell’intervento pubblico e delle fondazioni private, prendendo iniziative locali, nazionali, europee e internazionali.
Non conosco al mondo, oggi, un progetto analogo, e altrettanto esemplare, attuato con tanta dolce ostinazione, con un tal genio dell’ospitalità. In nessun altro posto, in nessun’altra istituzione, ho trovato maggiore apertura e maggiore tolleranza, una così vigile attenzione nel tener presente contemporaneamente la tradizione culturale e le occasioni dell’avvenire.
Gerardo Marotta si propone, da un lato, di far rivivere le tradizioni culturali minacciate e i loro tesori, spesso inaccessibili, come testimoniano le rigorose, sobrie, ma splendide edizioni internazionali di libri realizzati nel rispetto delle regole dell’arte e con rigore scientifico: sono centinaia di edizioni, in più lingue, che è possibile ammirare nella mostra organizzata nella Cappella della Sorbona. Basti per tutti l’esempio dell’edizione delle opere di Giordano Bruno.
D’altro canto però un eguale interesse per la storia, e un uguale coraggio di scopritore, lo spingono verso altri continenti, altri modi di esprimersi o comunicare, verso nuovi “supporti” d’informazione, anche molto popolari. Il fine è quello di mettere alla portata di tutti il pensiero, ma senza inutili o pericolose concessioni. Penso in particolare a quella grande biblioteca multimediale in via di realizzazione. Essa sarà, secondo il desiderio del suo propugnatore, universale e televisuale. Io stesso ho avuto l’onore di esser chiamato a far parte del progetto. Mi è stato chiesto – una terribile responsabilità, come sempre, quando si tratta di definire delle priorità – d’indicare le prime dieci opere del pensiero: sarebbero state incluse nella biblioteca multimediale e poi sarebbero state diffuse. Quindi mi è stato chiesto di giustificare la mia scelta: questo avveniva nel corso di un’intervista da registrare in video! Ho provato a fuggire, poi ho accettato di correre questo rischio. Mi sono rassicurato dicendomi: se lo fa lui…
Mentre mi sforzavo di spiegare davanti ad una telecamera perché, per esempio, il Timeo di Platone dovesse figurare accanto a una certa opera di Marx o di Blanchot, pur soffrendo l’inferno, andavo dicendomi, a mano a mano, sempre più convinto: questo è tuttavia quel che Marotta, a conti fatti, ha ragione di fare. Lui corre dei rischi e presta il fianco alle critiche, dal momento che i nemici, come Dio vuole, non gli mancano. Se ha ragione di far così, ha ragione di chiederci di fare altrettanto e noi dobbiamo essergliene grati. Marotta vede chiaro e lontano, precorre i tempi. Si presenta all’appuntamento in anticipo. Ha ragione. Bisogna dargliene atto. Bisogna dargli ragione. Avrà avuto ragione prima di tutti gli altri.