Agamben ama provocare. Tende i concetti fino all’estremo, radicalizza gli esempi, forza le analogie. Ma così ci aiuta a pensare. Possibile che si sia persa la coscienza del ruolo della provocazione intellettuale, dell’invettiva, del J’accuse? Quali tempi di piatta omologazione, di moralistica indignazione senza morale, che ignora l’enormità dell’abisso sul quale ci stiamo sporgendo, denunciano questa rimozione? Su un’altra scala, Agamben fa quello che faceva Pasolini con la poesia, nella scrittura e nel cinema: profetizza, intuisce apocalitticamente, mette in guardia. Pensa un’alterità come salvezza dal naufragio. Grandi momenti della storia intellettuale sono segnati dall’invettiva, dal paradosso, dalla denuncia. Di fronte a un rischio esiziale – il transito di tutta la vita, e del sapere, su piattaforme digitali antisociali lo è – è giusto, anzi necessario, gridarlo alto e forte, anche con l’iperbole. Si può criticare e denunciare per altra via: con nettezza, ma distinguendo. Personalmente, sento questa strada più mia. Soprattutto, credo sia giusto mantenere aperto l’orizzonte della lotta, e non dare tutto per perduto, definitivamente. Resterebbe solo la possibilità di rifugiarsi in nuovi monasteri, dove salvare dal naufragio l’eredità di una tradizione, o coltivarne una nuova. Una prospettiva spiritualmente elitaria, la cui disperazione talvolta comprendo, ma che rifuggo. L’università non deve essere morta, se vale ancora lottare per la sua autentica natura. Chi ha fatto didattica on line, pur sapendo che di un surrogato si tratta, e si prepara a battagliare, a mobilitarsi, perché si esca al più presto da questa fase temporanea, e si rigetti nettamente l’eternizzazione dell’inganno telematico, travestito oscenamente da progresso smart e comodità efficientistica, non mi pare meriti alcuno stigma. Ma chi propaganda superficialmente, o cinicamente, la necessità di un salto epocale e le magnifiche sorti e progressive che questa transizione antropologica e politica resa possibile da una tecnologia de-socializzante assicurerebbe, va combattuto con durezza e denunciato. Dietro questa operazione c’è il finanzcapitalismo con le sue crisi strutturali: credo vada sottolineato più di quanto non faccia Agamben. La sua è una prospettiva metapolitica, che non condivido. Essa muove però da un’intuizione acuta di rischi effettivi: lo slittamento dallo stato di emergenza allo stato di eccezione, la perdita del senso spirituale delle comunità umane, la sacralizzazione dello scientismo (che è quanto di più estraneo al metodo razionale possa immaginarsi), la politicizzazione della tecnica come altra faccia della spoliticizzazione della vita sociale realizzata attraverso tecnocrazie economiche saldate ad apparati di sicurezza ormai insofferenti dello Stato costituzionale di diritto. A mio avviso queste tendenze dilagano anche grazie all’assenza dell’inclusione sociale e di un conflitto politico non mimato. La diagnosi di Agamben è tutta interna al simbolico: una dimensione fondamentale, per carità, che se scissa dalle ragioni sociali dell’attuale perdita di anticorpi rischia però di leggere la de-civilizzazione in corso come esito puramente culturale, e non anche economico e politico. E tuttavia: quante volte le sfide intellettuali, e persino gli eccessi del pensiero di Agamben mi hanno sollecitato e riflettere, a chiarire il modo in cui va concepita l’implicazione di normalità tecnico-amministrativa e dismisura dell’eccezione oggi, cosa essa ci dice della persistenza del potere come trascendenza nell’immanentizzazione della teologia politica, delle persistenti sfide della violenza, dei bisogni di identità e protezione (a dispetto della narrazione neoliberale). Non credo alla politicità alternativa della violenza divina contrapposta a quella mitica (del diritto politico), che Agamben sulla scia di Benjamin vagheggia. Dubito che inoperosità e potere destituente offrano argini e alternative efficaci ai pericoli che Agamben denuncia. Ma accetto la sfida culturale che egli avanza quando recupera il mito del Giardino terrestre come disattivazione della logica del katéchon. L’onere di pensare un katéchon diverso dal Grande Inquisitore è il nostro.
Agamben pensa che tutto sia perduto, che un destino si stia compiendo, annunciato fin dall’origine (delle diverse origini: la metafisica, il diritto, il linguaggio). In questo senso, replica la drammaturgia di Dialettica dell’Illuminismo: retrocedendo nella genealogia del dominio si trova sempre un nuovo dominio, fino ad Ulisse prototipo del borghese, e ancora prima, fino all’immediatezza incatturabile delle differenze, che possono essere solo alluse, indicate, ma non elaborate compiutamente in pensiero. Ciò che l’incontro della teologia economica con la logica dell’eccezione compie oggi, nella forma paradossalmente para-hobbesiana e post-politica dell’assicurazione della mera sopravvivenza sanitaria, sarebbe dunque l’ottemperanza a un’ipoteca antica, il dispiegamento della sua potenza. Credo che le cose stiano in maniera più complessa, meno destinale. Ma anche che i segni della risorgenza dell’arcaico, da un lato, e della demolizione delle istituzioni che mitigano e includono, dall’altro, siano di fronte a noi. Forse è vero che lo Stato sociale di diritto è stata un’eccezione nello sviluppo del capitalismo. Ma siamo pronti ad accettare il prezzo che i capitalismi politici generati dalla globalizzazione e dalla sua crisi si preparano a farci pagare in termini di legittimazione, consenso, forma di vita? Non si tratta solo di formule politiche, di retorica e propaganda. Ma di significati performativi, veicolo di riconoscimento reciproco e stabilizzazione del caos. Non sarà così facile liquidarli. Forse in nuove universitates, in nuove comunità incarnate potremo andare non in pochi, ma in tanti, riappropriandoci anche delle università che ci sono, con il conflitto e la lanterna della critica.
L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici non censura pensieri, autori, libri. Promuove dibattiti liberi e confronto critico. Da sempre, questa è la sua cifra. E non cambierà certo ora con il coronavirus. Agamben può e deve essere discusso e criticato. A volte si ha come l’impressione di un grande cantante d’opera che, per strafare, sbaglia l’attacco sulla prima nota, o perde la linearità del canto. Ma meglio una stonatura, o un suono acre, che segnala un problema reale, e tragicamente sottovalutato, che la levigatezza vacua di chi non va mai fuori tono, ma non smuove nulla, non comunica alcuna verità negletta. Giorgio non ha bisogno di difensori. Ma, criticandolo spesso, e sentendomi sempre proficuamente provocato dalla sua intelligenza, oggi voglio dirgli grazie.