Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Enrico Donaggio - Requiem per i fascisti

24 maggio 2020

 

“Come faccio a spiegare che cos'è un virus a chi crede che la terra sia piatta?”. Con queste parole Luiz Henrique Mandetta, ministro della salute che aveva invano insistito per il lockdown, commentava il suo licenziamento da parte del presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Nel momento in cui scrivo queste righe il Brasile è il secondo paese più colpito al mondo dalla pandemia del Covid 19: le previsioni sul numero dei morti, in particolare tra l'elettorato bolsonarista che non ha rispettato nessuna misura di protezione, sono spaventose. Nel paese più toccato al mondo dalla pandemia, gli Stati Uniti di Donald Trump, modello e precettore del presidente brasiliano, il “New York Times” ha pubblicato oggi in prima pagina i nomi dei primi centomila morti causati dal virus.

Sul sito del più prestigioso istituto di studi filosofici del mondo, il filosofo italiano più famoso del mondo pubblica un articolo in cui scrive: «I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista».

Appartengo a un paese, a una cultura e a una generazione per cui “fascista” rappresenta la peggiore e più infamante offesa pubblica che possa essere rivolta a qualcuno. Come la maggior parte degli esseri umani sulla terra, ho passato il periodo della pandemia provocata dal Covid 19 chiuso in casa ad ascoltare le notizie, preoccuparmi, provare noia, rabbia, speranza e paura; mangiare, dormire, pensare, lavorare. Dall'inizio della pandemia – come più o meno tutti i miei colleghi del mondo – lavoro on line.

Il mio mestiere principale è insegnare filosofia a ragazzi italiani, spesso molto svegli e esigenti. Nel resto del tempo, tra l'altro, faccio la stessa cosa con ragazzi europei dello stesso tipo. In stragrande maggioranza questi giovani provano uno schifo infinito per la vita che li attende da adulti, sanno pochissimo di come andava il mondo prima della loro data di nascita, dimostrano una voglia di sapere e impegnarsi impressionante, cercano e trovano strumenti per criticare la società in cui vivono, scelgono di abbandonare il luogo in cui sono nati alla ricerca di qualcosa di meglio.

La cosa non deve sorprendere: studiare filosofia significa potersi permettere quotidianamente il lusso di confrontarsi con alcune delle migliori menti di sempre – tutte rigorosamente morte, quindi con un sacco di tempo a disposizione – in quel settore dell'attività umana che la società italiana oggi disprezza forse più di ogni altro. Avere delle idee: nuove, grandi, belle, originali, libere.

Per un periodo limitato di tempo, questi studenti mettono nelle mie mani una delle cose più preziose e vulnerabili che si possiede a quell'età: i loro pensieri su se stessi e sul mondo. Tenere corsi e seminari all'università, seguire, per mesi o per anni, una tesi, o la scrittura di un primo libro di un giovane sveglio e esigente, è un lavoro privilegiatissimo e delicato. Ho sempre ricambiato la fiducia accordata non intervenendo mai sui contenuti, ma soltanto sulla forma, la lucidità, la coerenza e la chiarezza dei loro pensieri.

La pandemia, il lockdown, la fine del mondo provocata dal virus hanno ovviamente imposto un cambiamento anche al mio modo di lavorare. Non parlo solo di parole, volti, corpi, tempi e interazioni che diventano nel giro di un giorno rettangoli grigi e muti sul monitor di un computer. Parlo della comunanza forzata di una situazione imprevista – fatta di disorientamento, solitudine, novità – che scombussola le distanze ed entra necessariamente nei discorsi. Di un confronto inevitabile su come si sta vivendo un evento inaspettato che si insinua in scambi e conversazioni che non riescono più a vertere esclusivamente su altro: un programma d'esame, il contenuto di una lezione, il capitolo di una tesi o di un libro da mettere a punto. Parlo di filosofia che diventa lavoro collettivo di docenti e studenti.

Non un solo docente e non un solo studente con cui ho avuto a che fare in questi mesi ha accolto con favore questa catastrofe non desiderata. Nessuno considera l'insegnamento on line migliore o più auspicabile di quello in presenza. Quelli che nel frattempo non sono morti o non si sono ammalati – docenti e studenti – hanno a lungo discusso e inventato forme che continuassero a garantire il massimo possibile di umanità, competenza, passione per il proprio lavoro in circostanze che fanno di tutto per negarli. Nessuno sembra avere sentito il bisogno di un illuminato che venisse a spiegare come questa occasione possa anche essere sfruttata per distorcere e distruggere quel poco di buono che ancora resta nell'insegnamento della filosofia in un'università pubblica. Lo sapevamo già tutti. Il mito della caverna e del filosofo liberatore è passato di moda da un paio di millenni.

Quasi tutti hanno la speranza e la certezza che solo la situazione eccezionale della pandemia abbia reso necessaria questa dolorosa mutazione provvisoria del nostro modo di vivere e lavorare. Perché il virus esiste, desta preoccupazione, uccide: soprattutto i più poveri, i più deboli, i più ignoranti

Davanti a chi afferma che il virus non esiste, non preoccupa, non uccide. Davanti a chi afferma che la stragrande maggioranza degli esseri umani è vittima serva, compiaciuta, volontaria ed entusiasta del più grande esperimento biopolitico di rincoglionimento di massa. Davanti a terrapiattisti, evangelici, no vax, rossobruni, libertariani, complottisti e agambenisti, per chi ha il privilegio e la responsabilità di dover spiegare ai propri studenti perché ha preso una decisione sgradevolissima ma inevitabile – insegnare on line – credo sia giunto il momento di manifestarsi e schierarsi. Per non ritrovarsi come il ministro della salute brasiliana davanti al suo presidente: “Come faccio a spiegare ai miei studenti che faccio lezione on line se il virus non è mai esistito?”.

C'è insomma da decidere se il virus, la pandemia, i suoi effetti e i suoi morti siano quelli che ci stanno raccontando i governi e gli scienziati di tutto il mondo. Allora l'accusa di fascismo che ci viene mossa è il delirio narcisistico di ignoranti, fanatici, fascisti e pensionati che non ne hanno azzeccata una dallo scatenarsi della pandemia.

Se invece siamo le vittime imbecilli e fasciste del più immenso esperimento distopico della storia del genere umano, loro sono dei geni. E noi che restiamo a casa e dormiamo male la notte pensando alle nostre vecchie madri e ai nostri giovani studenti, siamo semplicemente dei cretini e dei servi volontari.

Durante la guerra di Spagna, la notte, radio clandestine scandivano liste di nomi. Erano quelli dei fascisti e dei loro collaboratori. Alla fine di ogni trasmissione, la formula magica della memoria come speranza politica: “Ricordate questi nomi”.

Quando tutta questa storia sarà finita, sarà interessante vedere quali nomi saranno scritti e ricordati nella lista dei fascisti.

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