Le prese di posizione di Giorgio Agamben a proposito della gestione dell’emergenza sanitaria hanno prodotto discussioni estenuanti, esponendo il loro autore alla volgarità della società cinica in cui viviamo. In un mondo disincantato e ormai memeizzato, gli alti lai del filosofo romano, le sue lamentazioni, sono stati liquidati come geremiadi. È successo di nuovo con l’intervento Requiem per gli studenti, che Agamben ha pubblicato su queste pagine. Riflessioni durissime, nelle quali Agamben paragona chi non si rifiutasse di praticare la cosiddetta ‘didattica a distanza’ a quei professori che giurarono fedeltà al regime fascista. E invita gli studenti a non iscriversi alle università così trasformate, ma a costituire nuove universitates studentesche.
Personalmente, non condivido la lettura che Agamben ha dato del Covid-19 e di come è stato affrontato. Il suo polittico, pubblicato a puntate sul suo blog sul sito dell’editore Quodlibet, dove sono confluiti i suoi interventi scritti anche altrove (a partire dal primo, criticatissimo, sul manifesto), a mio avviso risente dei limiti del suo pensiero. Ché gli scritti di questi mesi non sono solo d’occasione, ma rappresentano una messa alla prova di alcuni dei punti fondamentali delle sue tesi, disseminate in libri molto letti, che ne hanno fatto uno dei pensatori più apprezzati al mondo.
In questi articoli, Agamben ripropone la sua concezione di un potere trans-storico che, senza soluzione di continuità, dai romani ad Auschwitz, cattura tutti noi in quanto homines sacri. È il ‘paradigma del campo’ (di concentramento) ciò che caratterizzerebbe il Moderno, ma che in fondo non fa che rinnovare la pulsione tanatopolitica di ogni potere in ogni tempo. Ma se il potere è questa cattura, questo contemporaneo essere dentro e fuori del diritto, allora siamo vittime sacrificali che vivono in un mondo in cui le Furie si alzano in volo precedendo la colpa. Siamo gli uomini kafkiani sempre in procinto di essere pugnalati, i copisti melvilleani che non possono fare altro che morire rannicchiati accanto alle mura di cinta delle Tumbs di New York. Senza sapere perché.
Insomma, se l’orizzonte è la cattura e se l’unica alternativa è introflettersi, la filosofia agambeniana è una filosofia disperata, un essere-per-la-morte. E non è solo questo: è una necropolitica reazionaria che pensa che il diritto, lo Stato, i diritti, ovvero le promesse che il Moderno non è stato in grado di mantenere, siano inutili. Occorre gnosticamente, per Agamben, accogliere il proprio destino, far sì che tutto il male si consumi. E che ci consumi.
Se dunque è così, per Agamben valgono le parole severe che Edward Said scrisse a proposito del Michel Foucault di Sorvegliare e punire: «In realtà egli era lo scriba del potere. Egli in realtà scriveva della vittoria del potere. Ho trovato davvero poco nel suo lavoro […] che aiutasse a resistere alle pressioni di tipo amministrativo e disciplinare che egli descrive così bene».
Al contrario, mi pare che occorra invece un progetto neo-moderno, che ci consenta di sperare che il Moderno si possa davvero compiere, che lo Stato sociale di diritto non sia stato, come ha scritto Preterossi e come sembrerebbe forse pensare Agamben, un’eccezione nello sviluppo del capitalismo, un accidente. Che i diritti, per quanto problematici, possano ancora servire come strumenti di lotta all’oppressione.
Su queste pagine ancora Preterossi richiamava la Dialettica dell’Illuminismo. Un riferimento che evoca intanto quell’Abgrund Hotel in cui Lukacs aveva sistemato gli apocalittici francofortesi e che mi pare oggi ospiti anche Agamben (il quale dovrebbe spiegare perché egli, come loro, sfugga alla ‘cattura’), quanto quella critica alla razionalità europea che oggi Agamben vede dispiegarsi nella dittatura della tecnica contro una vita ‘autentica’. Ma, come scriveva proprio Foucault «croyez-moi, la déraison est tout aussi oppressive». O, per stare all’amato Fortini, in questo ‘francofortese eretico’ che emenda il dictum adorniano, non c’è vita vera se non nella falsa.
Ma allora, se Agamben non ci convince, occorre bruciare Agamben? Occorre marchiare come famigerato il suo pensiero sul Covid? Se Agamben è l’unico, o uno dei pochi (almeno in Italia), ad alzare la propria voce per denunciare – in modo anche scomposto, esagerato – la pandemic shock doctrine, come Naomi Klein ha chiamato la dottrina dello shock pandemico che sta già producendo una nuova ‘teoria’, lo Screen New Deal, che ha tra i principali obiettivi proprio il sistema dell’istruzione, allora egli merita di essere famigerato. Egli vorrebbe chiamare alla rivolta, ma in realtà ciò che ci fornisce è l’armamentario di un Bartleby, quel preferirei di no che non ci serve come arma per rispondere all’asse tecnopolitico che oggi vuole prendere la palla al balzo e rendere l’istruzione (universitaria) un affare: minori salari, lavoro precario istituzionalizzato (ancora di più?), risparmi sulle dotazioni ‘fisiche’. Del resto Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York, ha chiesto retoricamente «all these buildings, all these physical classrooms – why, with all the technology you have?». Niente aule, niente palazzi, ‘avete tutta quella tecnologia’, e pazienza per il divide, che non è solo una realtà delle relazioni tra Nord e Sud del mondo, tra Est e Ovest, ma gerarchizza l’Occidente stesso; pazienza se i device devono essere privati e non pubblici, e se non li puoi comprare o se non hai una casa con una stanza per ogni discente.
Coerentemente con la posa aristocratica che contraddistingue il suo lavoro, egli si sobbarca l’onere dello scandalo. In un mondo in cui la filosofia è service alle imprese o alle istituzioni (anche a quelle politiche, che ‘ripagano’ attraverso il sistema del finanziamento, per esempio quello europeo: vuoi fondi? Allora a domanda rispondi), oppure ricognizione sociologica dell’esistente, o ancora counseling per anime belle e coach aziendali, Agamben è il famigerato, scrive ciò che non si osa scrivere, dice ciò che non si osa dire. Osa farlo male perché ritiene che vada comunque fatto, pur sapendo che non saremo d’accordo (perché il fascismo non c’entra niente con il fare la DAD).
Il suo è un sistema acustico d’allarme. Ma l’idea che la DAD sia ‘una volta e per sempre’, ecco cosa emerge dall’allarme apocalittico agambeniano. Che non ci sia già più niente da fare. Occorre davvero prendere sul serio Agamben? Occorre rifiutarsi di fare la didattica a distanza? Occorre ritrarsi e dire preferirei di no? No, perché, come ricorda Derrida, Bartleby ‘preferirebbe’ di no, ma poi dice di sì. Alla politica sta scendere da quelle altezze, e considerare, più prosaicamente, quello dell’istruzione un campo di battaglia, dove far valere ancora e di più quel progetto neo-moderno: lotta attraverso i diritti, contrasto al precariato, rivendicazione della centralità dell’istruzione gratuita per tutti, investimenti nel settore. In questo, con buona pace di Agamben, anche la DAD diventa un campo di battaglia, un riempimento critico degli spazi. Ché la politica non è sempre una cattura da fuori.
Insomma, il problema non è aver detto che fare la DAD è come giurare fedeltà al fascismo. Il punto è piuttosto la politicità della teoria agambeniana. E con questo Agamben ci pone davanti a un dilemma che non vorremmo affrontare: siamo davvero costretti a decidere tra una filosofia scandalosa ma inoperosa e una filosofia appiattita sull’esistente?