In questi giorni riaprono perfino le palestre, con energumeni sudati che sprigionano umori in ambienti chiusi. Ma scuole e università no, ci mancherebbe: classi pollaio, insegnanti anziani, piani di ripresa mai stilati, rischi e timori del tutto indeterminati. E in fondo che fretta c’è? Che diavolo volete? Tanto non producete reddito, lo stipendio vi arriva lo stesso e una lezione si può fare anche attraverso il computer, mentre uno spritz o una corsa sul tapis-roulant (ancora) no. Così il senso comune traveste da ragioni tecnico-economiche un dato primariamente politico, in cui l’ossessione securitaria di oggi si fonde con il mirato, sistematico svilimento delle istituzioni formative che sta massacrando scuola e università da almeno due decenni. E allora teniamole proprio chiuse, queste pericolose istituzioni, perché tanto si può fare lezione da casa: magari anche in autunno, e poi tutto l’anno prossimo, come ha già annunciato la gloriosa università di Cambridge, e poi chissà. Così potremo realizzare il sogno della preside Trinciabue, in un corrosivo romanzo di Roald Dahl: «una scuola perfetta, una scuola finalmente senza bambini!».
Di cosa significhi insegnare nell’era del Covid-19 si sta discutendo da mesi, strappando faticosamente piccole porzioni di un dibattito pubblico monopolizzato da virologi superstar e dilettanti allo sbaraglio. Da parte mia, ho cercato di farlo in un e-book gratuito pubblicato da Nottetempo, Insegnare (e vivere) ai tempi del virus, mentre si moltiplicano gli interventi su blog, social e anche giornali mainstream. Torno dunque sulla questione per fissare solo quattro punti sintetici, conclusi da altrettanti impegni ad agire subito (in corsivo). E se non ora, quando?
- In questi mesi molti di noi hanno praticato la didattica a distanza con stati d’animo ambivalenti o apertamente conflittuali. Difficile capirlo senza esperienza diretta. Provare per credere. Da un lato l’incertezza, la novità, l’esperimento, anche l’euforia di reagire attivamente allo stato di minorità del confinamento con la parte migliore del nostro lavoro: insegnare, mettere in comune, cucire un filo con gli studenti, garantire comunque uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. Dall’altro i dubbi, le perplessità, la sensazione che tutte quelle energie spese con autentico spirito di servizio andassero in gran parte disperse, o che addirittura venissero sfruttate per altri fini. Nel frattempo, alcuni di noi hanno capito che uno straordinario sforzo tecnico e umano stava diventando un clamoroso errore politico (e comunicativo): diceva cioè al governo e al popolo: tranquilli, qui va tutto bene, le università e le scuole possono restare chiuse perché tanto c’è la didattica a distanza. E invece no, lo ribadisco: le cose non vanno affatto bene. Non vanno bene all’università e non vanno bene a scuola, dove la situazione è molto più drammatica, perché la didattica a distanza è una procedura emergenziale e solo un pallido surrogato di quello che deve avvenire in aula, tra muri e corpi, soggetti in carne ed ossa che si fronteggiano in luoghi fisici e politici, non solo per trasferire competenze ma per mettere a confronto idee, modelli di sapere e visioni del mondo. Dunque un primo impegno su cui non cedere nemmeno un millimetro: appena ci saranno le condizioni igienico-sanitarie dovremo tornare in aula, senza variabili o compromessi.
- La tecnologia è un falso problema, un palazzo di Atlante che genera ombre e riflessi, giochi di ruolo in cui ognuno assume una parte per attaccare un nemico fantasma. Così io faccio l’apocalittico, tu fai l’integrato e ci scambiamo sonore mazzate sulla testa, mentre le multinazionali del software e i provider di servizi informatici si fregano le mani. È un falso problema soprattutto all’università, dove non avevamo certo bisogno del Covid-19 per imparare a usare le tecnologie digitali, che sono un normale e istituzionale strumento di lavoro da molti anni, con una gamma di applicativi che ormai copre quasi tutte le attività amministrative, didattiche e di ricerca. E dunque basta con la retorica della “grande occasione”, con il riflesso condizionato di un ingenuo “make it new!”. Basta con l’equazione automatica tra strumenti digitali e innovazione, come se fosse sufficiente mettere un tablet nelle mani di docenti e studenti per realizzare ipso facto una “didattica innovativa”, formula ormai immancabile sulla bocca di dirigenti e rettori. Un bravo (o un cattivo) insegnante resta tale sia in classe che davanti a un computer: è una banalità che non vorremmo più dover ribadire. Anzi, come accade sempre più spesso, la tecnica è uno schermo opaco, alibi perfetto per deresponsabilizzare scelte e interessi: nasconde cioè dietro vincoli esterni e una presunta neutralità operativa decisioni del tutto opinabili e contingenti. Se continuiamo ad accapigliarci sul mezzo perdiamo completamente di vista lo scopo e soprattutto la posta in gioco di questa partita, che non è tecnica ma innanzitutto psicologica, sociale e politica. Se c’è una questione da porre sulla tecnologia, è piuttosto l’uso di software e piattaforme proprietarie da parte delle istituzioni pubbliche. È ormai francamente intollerabile che la scuola, l’università e tutta la pubblica amministrazione foraggino multinazionali come Microsoft o Google e cedano quote incalcolabili di dati sensibili. E dunque un’altra cosa da fare subito: un investimento nazionale per dotarsi di piattaforme informatiche basate su software libero, pubblico, che escluda forme di profitto e garantisca la custodia attenta dei dati personali.
- Blended è la nuova parola magica della neolingua accademica, da aggiungere a quella batteria di keywords che di fatto governano le politiche, i discorsi, la distribuzione dei fondi e soprattutto il funzionamento dei cervelli dentro l’università: premiale, competitivo, efficienza, efficacia, criticità, buone pratiche, accreditamento, autovalutazione, didattica innovativa e naturalmente eccellenza, il più vacuo feticcio ideologico dei nostri tempi, strumento di un marketing passe-partout che va dal made in Italy ai dipartimenti universitari, dagli atleti olimpici al prosciutto di Parma. Blended non designa un tipo di whisky ma un regime misto tra didattica in presenza e didattica a distanza che promette di essere il business del futuro. Sarà una soluzione quasi inevitabile nella prossima fase, quando il paventato calo delle immatricolazioni spingerà gli uffici marketing degli atenei a cercare soluzioni flessibili per accalappiare gli studenti dei paeselli, bloccati dalla crisi economica o da nuove misure di contenimento per un’eventuale ripresa del virus. Così, invece di risolvere i problemi strutturali (ampliare le aule, costruire studentati, ridurre le tasse, aumentare le borse di studio, calmierare gli affitti che taglieggiano i fuori sede), adotteremo una soluzione di compromesso che negli anni successivi potrà andare a regime, trasformandosi nel business perfetto: meno aule, meno docenti, lezioni riproducibili e moltiplicabili a piacere, studenti che pagano le tasse ma che non gravano fisicamente su strutture e costi di gestione. Per capire che non è uno scenario distopico ma una previsione realistica basta guardare la nostra macchina del tempo, gli Stati Uniti, dove tutto questo si sta già realizzando. E così le belle parole della Costituzione (articoli 3 e 34) saranno definitivamente carta straccia: non solo avremo università di serie A e di serie B, come auspicato dall’Anvur e dalla ragione sociale dell’università dell’eccellenza, ma anche studenti di serie A e di serie B, perché la modalità blended realizzerà un’automatica selezione di classe: da un lato lezioni in presenza riservate a studenti privilegiati (cioè non lavoratori, di buona famiglia, capaci di sostenere un affitto fuori sede), e dall’altro corsi online destinati a studenti confinati dietro uno schermo e nei più remoti angoli d’Italia, che resteranno al paesello con mammà e non rischieranno di immaginare un orizzonte diverso per le loro vite. Un cortocircuito perfetto tra il capitalismo avanzato e la morale di padron ‘Ntoni. Ecco dunque un appello rivolto a tutti i miei colleghi: rifiutiamoci di fare didattica blended. Piuttosto, meglio continuare solo online finché le autorità sanitarie ci permetteranno di tornare tutti in aula. Nel caso potremo appellarci all’articolo 33 sulla libertà di insegnamento, oppure fare come Bartleby: “I would prefer not to”.
- Serve dirlo? La didattica a distanza non ha nulla a che fare con il fascismo. È una procedura emergenziale che la stragrande maggioranza dei docenti italiani ha praticato obtorto collo, solo per il bene dell’istituzione e degli studenti. Non stupisce che molti si siano sentiti mortalmente offesi dalla sparata di Giorgio Agamben: «i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista». Il parallelismo storico, anzi la copula identitaria («sono il perfetto equivalente») è talmente fuori luogo che non servirebbe nemmeno replicare. Se lo faccio, è solo perché la provocazione volutamente incendiaria rischia di appiccare il fuoco dalla parte sbagliata. Bisogna infatti correggere il tiro e scagliare la freccia sul bersaglio giusto: il nemico non è un’improbabile dittatura che toglie la cattedra a chi si ribella (rischio effettivo solo per i precari, a prescindere dalla didattica a distanza), ma un ben diverso modello di potere che Agamben può capire meglio di chiunque altro. Paradossalmente, se un dittatore manesco o anche telematico ci chiedesse di giurare fedeltà al regime sarebbe tutto più semplice. Ma nulla del genere nell’università dell’eccellenza, dove il potere funziona in forma microscopica, capillare, con una serie di deleghe a catena e soprattutto un’interiorizzazione di obiettivi e protocolli da parte di tutti. È vero peraltro che i dispositivi giuridici hanno legittimato de iure queste pratiche diffuse: la Legge 240, che l’ex-Ministra Gelmini ha avuto il coraggio di chiamare “antibaronale”, non ha fatto che accentrare il potere al vertice, ridurre gli spazi deliberativi, avocare a pochi organismi monocratici e oligarchici (rettori, direttori di dipartimento, consigli d’amministrazione, commissioni di soli professori ordinari) tutto il governo formale e sostanziale dell’università. Con questo, un’istituzione che non ha mai brillato per democrazia ha finito per sposare i sistemi tecnocratici del “new public management” e i valori dell’economia neoliberale (eccellenza, merito, valutazione, efficienza, competizione, rating e ranking, quality assurance), prima imposti dall’alto e poi interiorizzati come un seconda natura. È questo il nemico da combattere, innanzitutto dentro di noi. È il condizionamento insensibile, lo slittamento dei confini, la collaborazione in buona fede sfruttata come instrumentum regni. Ed è su questo modello che si innesta a meraviglia non tanto la teledidattica in sé, ma l’uso che se ne potrà fare dopo la fine dell’emergenza. Perché nell’università dell’eccellenza gli studenti non sono cittadini che reclamano il diritto al sapere ma clienti da soddisfare, consumatori di beni e servizi, acquirenti di una cultura in scatola che si preleva come un pacchetto dagli scaffali. Nulla di meglio di una televendita del sapere e di quell’ennesima evoluzione antropologica del capitalismo che chiamiamo smart working. Per questo dobbiamo opporci a forzature tecnologiche prive di qualunque ragione didattica o culturale, costringendo i vertici accademici a condividere ogni decisione con tutta la comunità accademica.
Su un punto Agamben ha pienamente ragione: dobbiamo prendere partito, stanare tutti dalla zona grigia. Negli ultimi decenni, la supina acquiescenza del corpo docente ha di fatto lasciato campo libero al fanatismo ideologico dei “riformatori”, legittimando più o meno in silenzio qualunque vessazione o degradazione sistemica del nostro lavoro. Quindi su questo c’è davvero poco da offendersi. Ma non è mai troppo tardi per reagire. E ora non dobbiamo scegliere tra il digitale e il giurassico, tra la servitù volontaria e il ribellismo anarchico, ma tra due diversi modelli di università (e di società). In fondo la più grande sconfitta del fascismo è scritta nella lettera e nello spirito della Costituzione, che basterebbe tradurre finalmente nella prassi. E dunque, più che rifiutare giuramenti immaginari, dobbiamo chiederci se siamo disposti a difendere fino in fondo un’idea di università (e di scuola) pubblica, aperta, generalista, bene comune ed essenziale, non solo luogo di trasmissione della conoscenza ma strumento imprescindibile di uguaglianza sociale. Non è troppo tardi. E ne vale ancora la pena.