Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Serenella Iovino - Una teoria per la pandemia (e non solo)

8 giugno 2020

  

 

La parola “teoria” ha un’etimologia molto affascinante. Come molte di quelle che usiamo, specialmente nel lessico scientifico, viene dal greco ed è riconducibile a due termini, theá (spettacolo) e oráo (vedere). In origine significava proprio questo: assistere a uno spettacolo. Anche la parola “teatro” ha alle stesse radici. Solo in età ellenistica “teoria” diventa un sinonimo di contemplazione, conoscenza—la nostra teoria, appunto. È interessante, questo passaggio dal concreto al concetto, perché ci spiega che la teoria, come in un teatro, ci permette di guardare lo “spettacolo” degli eventi da una prospettiva più elevata, creando una cornice che tenga insieme le parti, anche quelle lontane dal centro della scena. Mettendo le ali allo sguardo della mente, la teoria ci permette di abbracciare le cose, di com-prenderle, prenderle insieme e connettere le cause con gli effetti, traendone una forma di sapere. Anche (anzi proprio) sacrificando i tratti singolari, la teoria generalizza, universalizza, e così facendo diventa adoperabile per spiegare casi diversi. 

Certo, non tutte le teorie sono uguali. Quando i casi da spiegare sono complessi, la semplificazione è una strategia facile. Questo spiega l’abbondanza delle cosiddette “teorie del complotto”: grandi narrative che, proprio per la loro fumosa generalità, si adattano bene a spiegare un po’ di tutto. Ne sono circolate diverse anche per il CoViD-19. La più famosa è quella del virus “cinese” creato in laboratorio, poi ci sono le manovre delle grandi multinazionali farmaceutiche, i servizi segreti russi, gli americani, gli alieni… Insomma, va bene tutto, purché sia rigorosamente lontano da verifiche empiriche. Ricordo la lectio magistralis che Umberto Eco dedicò proprio alle conspiracy theories nella primavera 2015, quando l’Università di Torino gli conferì la sua ultima laurea honoris causa. La forza delle teorie del complotto, sosteneva Eco, è nella loro non-falsificabilità: esse tengono, appunto, perché non sono dimostrabili. Simili a verità rivelate, richiedono atti di fede e non sforzi di ragione. Queste teorie, infatti, suppliscono alla complessità del reale con la logica della fiction: la stessa logica rassicurante di un film in cui alla fine tutto viene al pettine, e i legami nascosti si rivelano. Sollevandoci dalla fatica di pensare, le teorie del complotto ci assolvono dalle responsabilità, anche involontarie, che vengono dall’essere parte del gioco. 

Ora, pazienza se restano chiacchiere da bar. Il problema è quando s’insinuano nel discorso politico. Sono teorie del complotto quelle che i negazionisti del cambiamento climatico utilizzano per contrastare misure che andrebbero contro gli interessi delle lobbies dei combustibili fossili, per esempio. Anche la narrativa che ha portato Trump a uscire dagli accordi climatici della COP 21 di Parigi o, proprio in questi giorni, a tagliare i fondi all’OMS rientra in questo tipo di teorie: quelle che dicono che le responsabilità sono sempre di qualcun altro che, misteriosamente, attenta al nostro benessere. Teorie così non ci servono a molto, perché hanno come unico risultato quello di lasciare la realtà fuori dalla scena, il che è sempre un rischio, perché la realtà torna a chiederci il conto: basta vedere quello che sta succedendo nel Brasile di Jair Bolsonaro.

Eppure, più che mai al tempo del coronavirus, abbiamo bisogno di teoria. Io ne vorrei proporre una che mi pare avere l’utilità di farci esercitare davvero a pensare alla complessità, e magari a vedere qualche connessione in più senza sfidare la nostra immaginazione narrativa. L’ha elaborata alcuni anni fa Timothy Morton, un filosofo inglese che insegna alla Rice University, in Texas. Si chiama “teoria degli iperoggetti”, e Morton la usa per spiegare—anzi per visualizzare—il global warming. Diversamente dagli oggetti del razionalismo classico che siamo abituati a pensare come individuali e localizzati (l’albero fuori dalla mia finestra adesso), gli iperoggetti sono “cose distribuite massivamente nel tempo e nello spazio relativi agli esseri umani”. Qualche esempio? Il sistema solare, la biosfera, la somma di tutti i materiali radioattivi della terra, o di tutti i combustibili fossili.  Che questi oggetti siano “massivi” e “distribuiti” non significa necessariamente che siano anche smisurati. Anche una coppa di polistirolo è, per Morton, un iperoggetto. Può essere sul mio tavolo adesso; eppure, è anche “distribuita massivamente” nel futuro nella forma delle miriadi di microplastiche che si disperderanno negli oceani e nelle discariche del pianeta, o nei nostri corpi. Sfidando il senso comune, la teoria degli iperoggetti ci consegna quindi un altro spettacolo, facendoci vedere il mondo in un modo che rompe la linearità della relazione tra spazio, tempo e materia. Ciò che è qui-e-ora non è mai solo qui e non è mai solo ora, e anche il suo essere ha molti strati. Prendiamo il cambiamento climatico. Pensiamo alle emissioni inquinanti e ai ghiacciai che si sciolgono, alle correnti oceaniche, alle precipitazioni atmosferiche, ai gas serra e all’anidride carbonica catturata dalla biomassa terrestre, ai fenomeni climatici estremi e alle siccità prolungate… tutti questi eventi apparentemente disparati non sono solo un sistema. Sono un oggetto massivo (perché ramificato, interconnesso), distribuito nello spazio (il cambiamento climatico è in ogni angolo della terra), e nel tempo (perché dura dalla rivoluzione industriale e continuerà per i prossimi secoli). 

Anche il CoViD-19 è un iperoggetto. È un oggetto massivo costituito dalla somma totale di tutto il coronavirus del mondo, nel corpo di ogni persona, di ogni singolo pangolino, pipistrello e animale selvatico. Quest’oggetto è ramificato nei depositi virali delle foreste del globo, nascosto nei wet market orientali, custodito nei laboratori di analisi e di ricerca, aggrappato ai miliardi di particelle di inquinanti che fungono da vettori. E tutte queste ramificazioni, tutte queste singolarità comunicanti e interagenti bisogna immaginarsele nel tempo: il tempo lento dell’evoluzione e quello veloce delle divisioni cellulari, il tempo della quiescenza e il tempo del contagio, il tempo della malattia e quello dell’immunità, e l’estendersi lento della durata di tutto questo messo insieme. Aggregato a quest’iperoggetto, ci sono le cause e gli effetti del loro passaggio sulla scena della realtà: gli habitat che vengono cancellati e la biodiversità che si spegne, i legami bio-geo-chimici che vengono infranti, anni di discorsi neoliberistici e le loro conseguenze sui sistemi sanitari mondiali, la ricerca medica, le mappe biopolitiche, industriali e finanziarie della globalizzazione. E insieme al presente, c’è già tutto il futuro. A guardarla bene, allora, anche una mascherina, come una coppa di polistirolo, è un iperoggetto. Ogni volta che ne vediamo una, magari dovremmo provare a vedere col pensiero anche tutto questo. Fa girare la testa, lo ammetto, ma non è privo di realismo. Perché la realtà, a pensarla tutta insieme, fa girare la testa, eccome. 

Una caratteristica degli iperoggetti è di essere vischiosi: si attaccano l’uno all’altro e non è facile separarli. È per questo che alla pandemia e al coronavirus si congiunge, in maniera potente, il cambiamento climatico. Questi iperoggetti s’intersecano perché hanno molti punti in comune: anche qui, l’impatto delle attività umane sugli ecosistemi e gli equilibri del pianeta, simili combinazioni di discorsi politici ed effetti tremendamente materiali sulla vita degli esseri viventi, umani e non. E poi, virus e clima comunicano: si è detto, per esempio, che lo scioglimento del permafrost potrà liberare agenti patogeni che riposano nei ghiacci da centinaia di migliaia di anni. Climi più caldi, del resto, stanno già favorendo la diffusione di molti virus un tempo solo presenti in zone tropicali. Per non parlare del problema della giustizia sociale, la diseguaglianza tra le persone. Anche questa mancata giustizia si attacca, come un ineliminabile corollario, all’esplodere della crisi climatica e di quella sanitaria. Insomma, se una teoria funziona come strumento cognitivo, non puoi usarla per vedere una cosa e non un’altra. E quindi, non si può affrontare la crisi del coronavirus lasciando fuori dalla porta le crisi ecologiche del pianeta. Quando l’emergenza CoViD-19 finirà, non avremo più scuse per non occuparci di queste crisi, perché se abbiamo visto la pandemia, abbiamo visto anche tutto il resto. 

Forse la teoria degli iperoggetti è un gioco, o forse no. Secondo me è molto utile, perché ci consente di navigare in un mondo veramente complesso, e soprattutto ci aiuta a non assolverci, perché del mondo facciamo parte anche noi, e quindi il modo in cui lo guardiamo diventa importante. E allora, che sia questa degli iperoggetti o un’altra, qualsiasi teoria che ci aiuti a spiegare la realtà senza scorciatoie rassicuranti è uno strumento prezioso.

Anche un racconto può essere una teoria. Ce n’è uno di Primo Levi che s’intitola “La Grande Mutazione”. In un paesino in mezzo alle valli, forse piemontesi, all’improvviso comincia a diffondersi un virus. Questo virus, dice il narratore, non è una malattia. Ha però effetti profondi e irreversibili. In coloro che lo contraggono, infatti, avviene una strana metamorfosi: ali d’uccello spuntano tra le scapole, e in men che non si dica, si vola. È la cosa che capita a Isabella, la giovane protagonista, che si ritrova immersa in un’altra natura che non cancella la umanità, ma la completa, la cambia, la proietta in un altro cielo. Il primo volo avviene un giorno di agosto. Superata la paura di non riuscire a governare i movimenti, e con un po’ di pratica, volare diventa la cosa più facile del mondo, come ridere e cantare.  Non tutti gli infetti però sopportano questa strana ibridazione. Il padre della ragazza, per esempio, non riesce ad abituarsi alle ali e se le fa amputare. 

Le teorie sono le nostre ali, perché ci fanno vedere dall’alto le cose, più cose. Ma a scegliere di volare dobbiamo essere noi. In un mondo di fenomeni iperconnessi, difficili da percepire eppure impossibili da ignorare, la pandemia ci richiede una trasformazione, una metamorfosi collettiva. Non sappiamo realmente come sarà il mondo dopo quest’emergenza. Sappiamo però che ci saranno altre emergenze, quasi tutte legate all’impatto umano sul pianeta. Una cosa è certa: nulla sarà più lo stesso, e nulla dovrà più esserlo. Per muoverci in questa terra incognita, buone teorie saranno fondamentali, quasi quanto un robusto paio di ali.  

 

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Serenella Iovino è professoressa ordinaria di Italian Studies and Environmental Humanities all’Università della North Carolina. 

 

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