Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Elenio Cicchini - Programma per una "universitas"

27 giugno 2020

Il testo prova a raccogliere l’invito formulato da Giorgio Agamben nel Requiem per gli studenti pubblicato sul “Diario della crisi” il 23 maggio 2020



I.

L’esigenza di una universitas, di cui si presenta qui il programma, si mostra nel momento stesso in cui il pensiero si dà coscienza del proprio rapporto col destino delle università. Queste si presentano oggi come un accumulo di conoscenze che lo studente può acquistare in qualità di cliente, e di cui può servirsi nel mercato del lavoro in veste di competenze.

    Il destino storico della trasmissione del sapere come circolazione di merci è preconizzato dal fatto che la conoscenza sia stata concepita, almeno fin dalla modernità, come un avere, una proprietà riposta nella memoria. L’imporsi di una digitalizzazione dell’insegnamento è, pertanto, in linea col primato della conoscenza e della nozione, interamente riproducibili attraverso un algoritmo. Così come l’algoritmo celebra l’ideale grammatico di una divisione finita della lingua in «parti», così la trasmissione di conoscenze sotto forma di podcast sembra realizzare l’ideale pedagogico-farmaceutico di “pillole” o bossoli di conoscenza. Così, di fronte a un mercato delle conoscenze digitali che ne supera di gran lunga le possibilità di circolazione, l’università non ha oggi altro mezzo per sopravvivere se non quello di produrre un grande magazzino di oggetti preconfezionati secondo ogni tipologia e sensibilità. È l’università stessa che, come in una commedia di Menandro, conia i “tipi” della conoscenza. Cosicché ognuno possa estinguere il proprio bisogno di apprendimento, dall’approfondimento alla suggestione, dalla lezione interattiva alla conferenza dall’altra parte del globo. In questa condizione, il professore diventa egli stesso una merce e i suoi dottorandi sono ridotti a pubblicitari.

    Vi è più di un’analogia fra l’accumulo delle materie del primo capitalismo industriale e l’accumulo delle conoscenze del capitalismo high-tech. Lo stato delega i mezzi di produzione delle conoscenze alle multinazionali dei server, che diventano gli autentici rettori delle università. Essi elaborano costantemente, accanto a supporti d’insegnamento sempre più omologanti, una quantità enorme di dati sulle tendenze del momento. Le tendenze ereditano la funzione che un tempo era svolta dalle conoscenze, e dirigono l’interesse per le ricerche, così come le competenze ne circoscrivono il campo d’azione. La didattica diventa il mezzo attraverso cui catalogare le tendenze secondo il gusto degli studenti. La musa dell’insegnamento non è più il dialogo ma la statistica. Se, come notava Ivan Illich, «l’alienazione della società moderna in senso pedagogico» va di pari passo con l’alienazione economica, oggi l’una viene a coincidere con l’altra. Frequentare le università significa oggi produrre l’alienazione. 

II.

La situazione storica di cui l’università deve venire a capo è quella che per tempo ha eliminato la differenza essenziale, che ne definiva la stessa possibilità, fra scuola professionale e libero studio. Indice di questo processo storico è la vita odierna del rapporto fra studenti e professori. 

    Come scrive Walter Benjamin in Das Leben der Studenten (“La vita degli studenti”, 1913), la vita degli studenti universitari non è che il sintomo della vita della propria epoca in generale, ovvero del rapporto fra società e istruzione. A tal proposito, Benjamin distingue nettamente fra studio e professione. «Per la maggior parte degli studenti universitari», egli lamenta, «il sapere è una scuola professionale»: lo studio è concepito come mero strumento per acquisire competenze e titoli in vista di una carriera. Gli studenti sono apatici e riluttanti nei confronti dell’idea pura di studio, divenuta per le università un vero e proprio «mistero», e riservano alla goliardia i momenti più veri della loro vita universitaria. 

    È impossibile negare l’attualità del compianto benjaminiano per gli studenti del suo tempo. Anche i nostri studenti, catturati nel processo di aziendalizzazione delle scuole di ogni ordine e grado, non vedono altra aspirazione che quella dell’impiego. Essi nutrono la speranza di poter ottenere un lavoro in cambio dello studio. Tutti i loro sforzi sono così votati all’acquisizione di competenze socialmente utili, ma sarà proprio il mercato del lavoro a spazzare via ogni loro illusione. Il confinamento nei campus e l’estenuante compilazione di progetti per borse di studio sono, del resto, il modo in cui si neutralizza la loro pulsione erotica, ciò che li destinava a essere i cospiratori di una nuova forma della giustizia e i custodi di un nuovo rapporto col linguaggio. 

    Questo rapporto, che si era conservato nelle avanguardie artistiche ed espresso nei movimenti di protesta, è oggi spezzato dagli stessi gruppi di studio universitari. La civitas universitaria riceve l’universale e restituisce alla civitas mundi il particolare, li accoglie studenti e li licenzia professionisti senza professione. Un tempo custodi delle esigenze rivoluzionarie, gli studenti odierni sembrano essere i veri conservatori dello status quo. La loro è una senilità di secondo grado nata dall’impossibilità di vivere l’eros della loro età. 

 

III.

Qualche anno dopo la pubblicazione del testo di Benjamin sugli studenti, Karl Jaspers pubblica il pamphlet Die Idee der Universität (“L’idea di università”, 1923). È sulla vita dei docenti universitari che questa volta il saggio si sofferma. Costoro non assumono più alcun rischio intellettuale e la vita dei loro dipartimenti è paragonata al bosco sacro di Benares: «su ogni palma da cocco siede una scimmia, tutte sembrano molto mansuete e non s’interessano l’una dell’altra, fin quando una di loro non vuole arrampicarsi sulla palma dell’altra. Quella comincia allora a scaraventarle contro tutte le noci di cocco». 

    Le critiche di Jaspers ai professori sono così attuali da apparire persino scontate. Chi abbia frequentato negli ultimi anni le università non può non essersi accorto di quanto la comunità studentesca resti profondamente separata da quella dei docenti. I quali, se non selezionano i loro iniziati, affidando loro le poche risorse disponibili attraverso un sistema di scambio e parola d’onore di cui quelli sono strumento, in una perenne altalena fra protezione e ricatto, a loro volta si incastellano nelle beghe più astratte e faziose fra dipartimenti.

    Pertanto, se il compianto benjaminiano non lasciava alcuna possibilità per gli studenti, Jaspers sembra invece affidare proprio a questi ultimi il compito di redimere l’università: «nessuna autorità prestabilita, nessuna condotta conforme e carriera accademica da manuale deve governare la vita degli studenti». 

    L’immagine kafkiana di un’università dei professori che trasmette conoscenze solo a patto di  cancellare la capacità di apprendimento, dev’essere integrata con quella di Jaspers di un’università degli studenti che comincia solo adesso perché senza futuro. L’eventuale rinascita dell’università passa per una nuova esperienza dello studio, e il suo luogo coincide interamente con una forma di vita in comune fra studenti e docenti. Conseguentemente, la divisione fra le figure dello studioso che l’ultimo secolo ci consegna (matricola, dottorando, ricercatore, professore associato e ordinario) dev’essere revocata in questione. Essa non è che il modo attraverso cui l’università si scinde al suo interno in infinite corporazioni e rende irraggiungibile l’idea di studio. 

 

IV.

Qualcosa che destina l’università a un archivio di tendenze finalizzato alla professione non può essere compianto.

    L’affermazione di Giorgio Agamben, secondo cui la vita delle università, «durata quasi dieci secoli, ora finisce per sempre», va compresa attraverso quella dello Hamm di Beckett in Fin de partie: «la fine è nel principio, e tuttavia gioca». La partita a scacchi è segnata: chi non ne coglie l’imminente fine non può ricominciare da una nuova strategia. Così, solamente ciò di cui si recita il commiato può essere liberato dalle maglie della storia. Solamente tra coloro che, fra professori e studenti, si facciano carico dell’eros del passato, può nascere la nuova università. 

    È auspicale, pertanto, interrogare il momento storico del suo costituirsi. Se la sua più antica forma, la jamiʿa al-Qarawiyyin di Fez (859), nasce, per mano di una donna, Fatima al-Firhi, come un’istituzione privata mista di culto e insegnamento, la vera e propria universitas sorge a Bologna (1088) come una libera associazione di studenti. È questa singolare forma della comunità fondata sullo studio che deve tornare ad avere un senso nel contemporaneo.

    Decisiva per la sua nascita è la figura del trasferimento dello scriptorium monastico nell’ordine profano della città. Così come la «fuga dal mondo» era stata a fondamento della vita monastica, con l’università il monaco fa il proprio ritorno al mondo nelle vesti dello studioso. Di qui lo statuto anfibio dello studente universitario, costantemente teso fra il cittadino e il chierico. Questi si organizza ancora una volta nelle forme di una vita comunitaria (universitates, secondo il diritto secolare), come un tempo si era regolato nei cenobi. E tuttavia, i membri di queste nuove comunità non godono della piena cittadinanza, ma vivono una nuova forma di esilio (amore scientiae facti exules). Costituendo cioè qualcosa come una città nella città, un spazio extraterritoriale appellato studium generale (aperto, cioè, a ogni natio, ogni luogo di provenienza, così come un tempo i socratici, provenienti da ogni parte della Grecia, si riunivano in scuole secondo la dianoia, il pensiero, e non la physis, l’origine). L’universitas è gestita in piena autonomia dagli studenti, i quali eleggono i propri rappresentanti (rectores) e incaricano i propri magistrii.

    Come nelle prime università, anche gli studenti degli ultimi decenni, gli Erasmus e Leonardo, sono peregrini causa studiorum. Conoscono le città attraverso lo studio e lo studio attraverso le città. E tuttavia, come imprigionati nella fiaba del Bengodi, si nutrono del tempo stregato di una comunità sospesa, nell’impossibilità di una loro universitas. La storia dell’università ci insegna che in ogni epoca di decadenza le condizioni ideali per lo studium sono sorte al di fuori di essa. Così gli eruditi del Seicento si riunirono in nuove Accademie, e alcuni studiosi del Novecento hanno fondato nuovi centri per la filosofia a Napoli e Parigi. È tutt’ora possibile che gli studiosi del XXI secolo, facendosi carico dell’esilio dalle loro università, si organizzino in un nuove forme dello studio.

     

V.

Alla situazione di una università senza studium si accompagna oggi quella di uno studio senza universitas. Se è vero che studenti e professori non riescono a costituire un luogo in grado di superare la distinzione fra insegnamento e apprendimento, è altrettanto evidente che lo studio non sia più concepito come l’esperienza generale di una vita in comune fra professori e studenti.  

    Questa impossibilità sembra rinvenire il proprio paradigma nella tensione crescente che, nelle università medievali, finisce per contrapporre l’universitas degli scolari a quella dei maestri. Il conflitto fra le corporazioni non è naturale, ma frutto di un quadro politico non meno paradigmatico per la situazione attuale.

    Quando a Parigi (a differenza di Bologna), sarà la stessa universitas magistrii, cioè la sola corporazione dei professori, a fondare la Sorbonne (1215), le più antiche università europee erano già divenute da tempo un vero e proprio strumento politico nelle mani del sovrano. Così, quando Enrico II d’Inghilterra, Filippo II di Francia e Gregorio IX attuano con appositi disposti la concessione di privilegi a scholarii e magistrii per accrescere il prestigio delle università del proprio regno, i sovrani europei spezzano il necessario equilibrio fra università e città, destinando gli studenti, da un lato, a un conflitto manifesto coi cittadini; dall’altro, a un conflitto latente coi professori. Le università non sono più delle libere associazioni per gli studi, e i continui tumulti fra universitari e cittadini sono il mezzo attraverso cui si perpetra all’interno del regno una guerra fra le monarchie. 

    Pur essendo profondamente mutate le condizioni giuridiche ed economiche, l’università odierna concepita come un’azienda le cui decisioni, laddove non sono delegate a un privato, passano per decreti di organi ministeriali gestiti da funzionari esterni al mondo accademico, rinviene nelle universitates medievali governate attraverso l’emissione di costituzioni e bolle il proprio paradigma. 

    Nel 1229 la gilda dei professori di Parigi sospese le lezioni per ben due anni, finché il re non fu costretto a proclamare l’indipendenza dell’università. Una simile reazione al processo in corso appare remota: tanto più urgente, allora, svolgere altrove il programma per una nuova universitas.

 

VI.

Se è vero che nelle università si è prodotto uno scarto insormontabile fra le forme del sapere e la loro trasmissione nell’insegnamento, non si tratta qui di recuperare l’arcano di una loro unione, ma di situarsi interamente in questo scarto e assumerlo come definitivo.

    Esso risale, infine, al costante processo di separazione del sapere dall’arte o dalla forma di vita che lo incorpora. La cosiddetta società della conoscenza non è infatti che l’esito di una continua produzione di nudo sapere – un sapere che sia, cioè, formulabile al di là delle attività che lo mostrano. Secondo questo postulato, le conoscenze possono essere dissociate da una vita, un’attività – quella del docente –, che può rendersi esemplare per gli studenti, e costituiscono, invece, delle regole di cui l’arte deve servirsi a posteriori.

    Così, le due grandi forme di divisione che governano la storia dell’università – quella fra scuola professionale e istituto di ricerca (Hochschule/Universität, école polytechnique/université), e fra discipline naturalistiche e discipline umanistiche (cosiddette humanities) – tentano disperatamente di venire a capo di questo scarto, finendo invece per proseguirne la traccia. 

    Il processo descritto da Ivan Illich di un progressivo aumento di università (concepite come scuole per diplomi) a discapito delle scuole professionali è infatti coinciso con l’integrazione nell’istruzione superiore della totalità delle capacità tecniche facilmente apprendibili al di fuori dell’istituzione scolastica. Così oggi accade che mansioni lavorative come la cucina o l’infermieristica passino anch’esse per l’università, e persino attività naturali come il passeggio e il dormire necessitano di un attestato. L’intera capacità di conoscenza della società è stata demandata a quella che chiamano «istruzione permanente»: la scuola ti accoglie bambino e ti assiste giorno per giorno, rendendo l’intera esistenza una forma di controllo dell’apprendimento.

 

VII.

Un ruolo fondamentale nel rapporto fra produzione e trasmissione di conoscenze, saperi e arti, è giocato dalla filosofia. È possibile, infatti, che a produrre il loro scollamento sia proprio quest’ultima – dal momento in cui, più precisamente, si continui a concepirla come «scienza prima», in grado di determinare i principi delle altre scienze. L’istituzione di tale privilegio, da Aristotele a Kant, e sino alle humanités transformées di Derrida, non è, a ben vedere, che il ripetuto tentativo di smarcarsi da ciò che fin dalla sua nascita ne segna i confini, e cioè l’estenuante corpo a corpo con le arti pratiche e le tecniche. Per affermare la propria esistenza fra le tecniche, la filosofia deve ogni volta ribadire la propria differenza teoretica. Ciò vale tanto nel medioevo per l’universitas di filosofia rispetto a quelle di diritto e medicina, quanto in Kant per la Fakultät di Philosophie nel suo «conflitto» con quelle di Jura e Medicin. Eppure, così facendo essa destina inevitabilmente la teoria (e, per suo tramite, le cosiddette «scienze umane») a una sede separata dalla prassi, e arroga per sé la forma di vita contemplativa.  

    Pertanto, una università (o universitas) che sia all’altezza del proprio compito deve non solamente superare ogni forma di inter-, multi-, o transdisciplinarietà (esse non sono che la cristallizzazione di un irrecuperabile rapporto fra distinti), ma altresì tendere quanto più possibile al pensiero di un’immanenza fra arti e saperi, momento pratico e momento contemplativo.

 

VIII.

Il modo corretto per intendere lo scarto fra sapere e trasmissione, conoscenza e insegnamento, è indicato nel Menone. Nel dialogo, Platone introduce tra i due poli in questione lo spazio di un terzo, quello delle idee. A Isocrate e Gorgia, maestri di conoscenze, contrappone Socrate, il quale non trasferisce contenuti di sapere, ma si cura, piuttosto, di qualcosa come l’aver luogo stesso del trasferimento, e cioè dell’eros. In tal modo, l’insegnamento si scopre esso stesso un fraintendimento del rapporto autentico fra memoria e idee: invece di riempire la memoria con sostanze (ousiai sono anche, e innanzitutto, i beni economici), Socrate la sgombra attraverso un’arte delle domande opportune, che motivino la possibilità stessa di un apprendimento. Così, anche la più povera fra le esperienze – quella del servo di Menone – può entrare, laddove ne venga sollecitato il vivo ricordo, in rapporto di analogia con altri possibili modi di operare e relative forme di sapere. 

    Un programma per una universitas non può pertanto prescindere dalla distinzione essenziale fra conoscenza e conoscibilità, “archivio di nozioni” e “lanterna delle idee”. Agamben definisce «barbarie» il processo di standardizzazione del rapporto allievo-maestro. Benjamin definiva negli stessi termini un’istituzione scolastica che miri, come se fosse «la cosa più naturale al mondo», all’individualismo borghese e al pubblico impiego. Ma barbara è forse, e innanzitutto, secondo quanto designa lo stesso termine, quella istituzione del sapere che produce atti linguistici non in grado di aprire alcuno spazio di conoscibilità, ove cioè non venga comunicata alcuna idea. 

    La relazione fra archivio e lanterna equivale alla stessa che, nella teoria platonica del linguaggio, intercorre fra il nome e le idee, il metodo della divisione e quello delle analogie – o ancora quella che nella retorica classica distingue fra memoria e inventio. Le idee sono la fine dei nomi. Esse sorgono nel vaglio dei materiali d’archivio, pendono dal catalogo dei nomi, come una inventio, un’apertura storica di senso. Come un archivio senza lanterna resta necessariamente buio, così delle nozioni che non siano veicolo per l’elaborazione di idee, e una conoscenza che non si faccia tramite di contemplazione, devono rimanere imprigionati nelle biblioteche come negli schermi. Non compito, ma presupposto dei compiti che l’universitas si pone è dunque la costante, vitale, tensione fra archivio e lanterna, memoria e inventio, codice e possibilità di lettura.

 

IX.

Le idee non nascono dalle conoscenze, ma sono piuttosto la spia di un loro esaurimento. Esse s’impongono come il sintomo di un’insufficienza pratica, cui rispondono con un’apertura di senso. Idea significa che qualcosa, nel corso di un’arte o una pratica, esige di essere ripensata da capo. 

    Così, il compito dei platonici non era quello di catalogare enciclopedicamente i saperi e dividere fra le conoscenze. Né tantomeno quello d’imporre l’esercizio di un metodo per il controllo delle tecniche, come in Bacone. Si trattava, piuttosto, di immaginare un complesso delle differenti nature umane e dei differenti saperi tale da legittimare il disegno della kallipolis, la città buona e giusta. Pur essendo distinte nella materia, si tentava cioè di pensare le tecniche in modo analogo secondo l’idea di bene (ciò che importava non era tanto il “che cosa”, ma il “come”), e la comunità delle conoscenze si costituiva, di riflesso, come una comunità delle idee. Ricondurre ogni forma di sapere alla sua idea legittimava, pertanto, un pensiero della politica e destinava la teoria alla propria vocazione pratica. 

    Contrariamente al paradigma antico, l’effetto della somministrazione di conoscenze è sempre stato quello di dividere fra la teoria e la prassi. Di qui discende il primato della competenza, la quale è tutt’altro fuorché l’abito di un saper fare. La tensione a superare conoscenze e competenze in vista dell’elaborazione di un mondo delle idee definisce invece il punto in cui teoria e prassi coincidono. Così, il superamento delle divisioni del sapere e del rapporto fra teoria e prassi costituisce il luogo del pensiero e la sua esperienza coincide con quella dell’universitas.



 

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