La crisi mondiale, a livello sanitario, sociale ed economico, prodotta dalla pandemia del coronavirus ha reso urgente un cambio di paradigma nel modo di intendere la responsabilità, già auspicato dal filosofo tedesco Hans Jonas nel suo scritto Il principio responsabilità (1979). Siamo divenuti consapevoli che le nostre azioni hanno ripercussioni a livello interpersonale e sociale, in una dimensione temporale che supera il momento presente e che implica uno sguardo rivolto al futuro. Con ciò, si è resa necessaria una forma di responsabilità non limitata all’agire immediato di un unico individuo e alle conseguenze di questo agire sul singolo stesso: una forma di responsabilità che possa rendere ragione del carattere relazionale dell’agire umano, che comporta inevitabilmente l’entrare in relazione con l’altro, riconosciuto come soggetto di pari dignità e libertà alla nostra, e con lo stesso ambiente in cui viviamo. Forse mai come in questi mesi il nuovo imperativo categorico formulato da Jonas fa breccia dirompente nelle nostre coscienze, invitandoci a ponderare il nostro agire nel rispetto della vita umana stessa: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra», oppure, riformulato in modo negativo, «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita» (PR, 16). È, in fondo, ciò che siamo stati chiamati a fare attivamente negli ultimi mesi: soppesare le nostre scelte, determinare le nostre azioni evitando che esse possano rappresentare un pericolo non solo per noi stessi, ma anche per gli altri, in un’ottica globale.
Si tratta di un’assunzione di responsabilità che è divenuta quindi co-responsabilità, legata allo sforzo condiviso di risolvere un grave problema che accomuna tutti. Come solidarietà di una comunità volta alla soluzione di un problema, essa viene tematizzata nell’etica della comunicazione e del discorso da Karl-Otto Apel e da Jürgen Habermas. Ci riconosciamo oggi in quanto scriveva Apel già trent’anni fa, e cioè che ogni singolo è chiamato a «partecipare a tutti i livelli della cultura, secondo la propria competenza e capacità, all’organizzazione della responsabilità solidale degli uomini nei confronti delle conseguenze di portata mondiale dell’agire umano» (ED, 42). Questa forma di co-responsabilità solidale ha riguardato, nei mesi di pandemia, non solo le azioni dei singoli individui (pensiamo, ad esempio, all’impegno di ognuno a rimanere in casa durante il lockdown, che ha avuto conseguenze positive sui numeri di contagi a livello nazionale e internazionale), ma anche l’attenzione di ogni cittadino nel reperire e nel diffondere informazioni.
Se, da un lato, è riconosciuto ad ogni individuo dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il diritto «di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere», dall’altro lato, i rischi legati al reperimento e alla diffusione di false informazioni sono noti. Il problema delle fake news è da anni dibattuto, soprattutto con riferimento ai nuovi mezzi di comunicazione di massa e alla difficoltà del fruitore di distinguere, nel mare magnum di informazioni reperibili, ad esempio, su internet, le false notizie da quelle veritiere. Negli ultimi mesi questo problema si è accentuato, mostrando la sua pericolosità a livello sociale, sanitario e politico. La manipolazione di informazioni rappresenta infatti una minaccia per l’ordine democratico stesso, nel momento in cui può rendere i cittadini schiavi di false credenze, diffondendo, in questo caso, il razzismo nei confronti di determinati gruppi etnici considerati responsabili della pandemia, istigando all’odio e producendo frodi ai danni dei consumatori (spinti a comprare i cosiddetti “prodotti miracolosi”).
Si pensi alle notizie che circolavano sul web sui presunti rimedi contro il coronavirus, diffuse viralmente tramite messaggi e social network: l’informazione, di per sé non paragonabile ad un comando, che assumere molta vitamina C favoriva le difese immunitarie contro il virus e addirittura contribuiva a prevenirlo ha portato i consumatori a svuotare i supermercati di arance e limoni. In quel caso si trattava di prodotti non nocivi, che non potevano più di tanto influire negativamente sul consumatore; in altri casi, tuttavia, informazioni fuorvianti (come il presunto braccialetto anti-Covid dal costo di circa 700 €) potevano gravare economicamente sulle finanze di famiglie, che in quel momento si affidavano a qualsiasi informazione esistente per intraprendere un’azione che potesse contrastare il virus.
In questi mesi di crisi e di panico collettivo, “diffondere informazione” è divenuto così un implicito “educare, istruire all’azione”, mostrando la necessità di una comunicazione responsabile da parte di tutti i possibili partecipanti al discorso, oltre che la necessità di una acquisizione e diffusione responsabile dell’informazione. E ciò non ha riguardato solamente gli organi preposti a tali compiti, ma appunto ognuno di noi.
In quest’ottica e nel tentativo di “rafforzare la capacità dei cittadini di riconoscere e reagire a questo tipo di disinformazione”, si è espressa la Commissione Europea con una comunicazione congiunta al Parlamento Europeo, al Consiglio Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, del 10 giugno 2020, concentrandosi “sulla risposta diretta alla disinformazione che circonda la pandemia di coronavirus”, esaminando “le misure già adottate” ed esplorando “azioni concrete che possano essere avviate rapidamente sfruttando le risorse esistenti”. La comunicazione affronta infatti il problema della cosiddetta “infodemia”, ovvero della diffusione di un eccesso di informazioni, spesso fuorvianti, scoppiata insieme alla pandemia del coronavirus, proponendo misure per combatterla.
Per favorire una comunicazione trasparente, proattiva e positiva, la Commissione Europea ha inaugurato, in particolare, una pagina web in cui vengono forniti degli strumenti per combattere la disinformazione sul coronavirus. Oltre a questo, si rende però necessario l’esercizio della capacità di giudizio, come sottolinea a ragione Giorgio Erle nel suo intervento per il Diario della crisi, “La crisi, la concordia e la dimora”, nonché l’esercizio attivo e costante del pensiero critico da parte dell’opinione pubblica.
Ma cosa significa, in questo caso, “esercitare il pensiero critico”? Anzitutto, ci sembra, ciò comporta la verifica della verità dell’informazione appresa, e la veridicità della fonte che la diffonde in un confronto dialogico con altri partner del discorso. Come è noto, la veridicità si riferisce alla corrispondenza di quanto viene detto con la reale opinione di colui che sta comunicando un’idea, un’informazione, mentre la verità si riferisce alla corrispondenza dell’informazione allo stato reale dei fatti. Veridicità e verità costituiscono, insieme alla comprensibilità del senso e alla giustezza normativa, le pretese di validità dell’argomentazione, quelle esigenze che rendono un discorso valido. Ora, nella situazione reale tali pretese possono tuttavia essere disattese e per questo devono essere verificate. La fiducia che il destinatario di una comunicazione ripone normalmente in ciò che recepisce non deve pertanto rimanere cieca, ma deve divenire, piuttosto, consapevole.
Lo scopo è quello di contrastare la diffusione di notizie false proprio per favorire i diritti e le libertà fondamentali nell’ambito della libertà di espressione e di comunicazione, insieme alla possibilità per i cittadini di verificare ed esaminare le informazioni che ricevono da fonti private ma anche istituzionali. Come si legge infatti nella comunicazione sopracitata: «La libertà di espressione e il diritto dei mezzi di comunicazione e della società civile di esaminare l’operato dello Stato sono più importanti che mai durante questa crisi: le autorità non dovrebbero essere dispensate dall’obbligo di rendere conto delle proprie azioni perché esercitano poteri di emergenza. Al contrario, sono tenute a garantire la trasparenza del proprio operato, che rinsalda il rapporto di fiducia con i cittadini e consente il controllo dei processi decisionali. La libera circolazione delle informazioni non solo contribuisce a proteggere la vita e la salute umana, ma crea anche condizioni favorevoli e stimola il dibattito e i processi decisionali in campo sociale, economico, politico e in altri settori strategici».
Proprio tramite l’esercizio del pensiero è possibile per l’uomo realizzare pienamente la sua libertà, anche in ambito politico e sociale, come insegna Hegel, e rendersi responsabile per le sue azioni come membro di una comunità etica. Tramite il suo agire, l’individuo può contribuire alla persistenza dell’umanità sulla terra: questa è forse l’imperitura consapevolezza che la condizione di precarietà e di paura vissute ci può lasciare.
Bibliografia:
K.-O. Apel, «Limiti dell’etica del discorso? Tentativo di un bilancio intermedio» (abbreviato nel testo con: ED), in K.-O. Apel/R. Bubner/J. Habermas/ E. Tugendhat/A. Wellmer/U. Wolf: Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, a cura di T. Bartolomei Vasconcelos e M. Calloni, Marietti, Genova 1990, pp. 28-58.
- Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (abbreviato nel testo con: PR), a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 2009 [I ed. 1990].
Giulia Battistoni è assegnista di ricerca in Filosofia morale, presso il Dipartimento di Scienze Umane, Università degli Studi di Verona