Quali sono le parole della quarantena? O meglio quali sono le parole ci provengono dalla quarantena? Sono quelle che restano dinanzi allo sgomento della malattia e della morte. Sono le parole dell’impotenza umana, della presa di coscienza nichilistica dell’evanescenza della vita, della estrema casualità del passaggio umano nel mondo.
Parole delle quali non abbiamo potuto fare a meno. L’inedita condizione di forzato isolamento al quale ci ha costretti la pandemia del 2020 ci ha mostrato, fra l'altro, come l’uomo abbia bisogno di parole, come esso sia l’essere simbolico per eccellenza e come la sua capacità di creare simboli e linguaggi sia legata radicalmente alla sua socialità.
Nel riparo stoico dall’esistenza i filosofi, si sa, ci stanno bene, loro che per indole e per mestiere amano l’isolamento produttivo del pensiero, fatto della compagnia silenziosa ma loquace dei libri e delle solipsistiche cogitazioni; quell'isolamento in cui a scandire le ore e i giorni non ci sono i Dpcm (troppi se ne sono avvicendati), ma le pause di riflessione necessarie tra una lettura e l’altra, nel dialogo incessante di sé con se stessi.
In un libro recente - Parole della quarantena (diogeneedizioni) -, Leo Annunziata ci racconta la quarantena di un uomo di riflessione prestato al mondo della vita attiva. La pausa imposta può essere l’opportunità per ritrovare il giusto tempo per le cose, ristabilire le priorità della nostra esistenza. Annunziata ci mostra che si può trarre profitto dalla stasi apparente e dall’immobilità dei corpi, ridando ossigeno alle menti.
In un momento apicale della crisi del mondo contemporaneo, nel quale vengono messi in dubbio gli stili di vita, le abitudini, i sistemi di lavoro, i sistemi economici e sociali e gli assetti politici, nel momento in cui la ricerca di una nuova normalità fa i conti con la rassegnata accettazione dell’inevitabile impossibilità di un ritorno alle nostre abitudini prepandemiche, il filosofo, come Socrate nel mezzo della battaglia di Potidea, si ferma a pensare, a riflettere, a tentare di capire.
In queste giornate, a tenere compagnia a noi filosofi, insieme ai pensieri, sono stati gli affetti intimi, i più cari, quelli del focolare familiare, ma anche e soprattutto – strano a dirsi – i nostri animali, gli unici in grado di sopportare la sedentarietà della riflessione, permanendo presso di noi, con noi, per le svariate ore della nostra immobilità produttiva. Nel libro di Leo Annunziata Fofò è l’insolito protagonista di una sorta di terapia intensiva dell’animo umano. Un gatto, visto che i gatti, sin dall'antichità egizia, sono il simbolo di una introspezione intimistica e insieme esseri che vivono il passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Come il filosofo, il gatto predilige lo stoico isolamento ed ama passare ore alla finestra col suo sguardo solenne e distaccato nei confronti del mondo. Secondo i monaci Zen i gatti ci “indicano la via”: non insegnano nulla, ma col loro essere indicano il modo nel quale andrebbe osservata e agita la vita. Come la sfinge di Edipo, Fofò in qualche modo interroga, incuriosisce e stimola la mente del filosofo nel suo rifugio pandemico.
Le pagine del libro di Leo Annunziata sono il diario di bordo della quarantena. E come sulle navi, costrette a largo dei porti per quaranta giorni, si utilizzava questo tempo per riassettare l'imbarcazione, sistemare le vele, verificare i fasciami del ponte, così il filosofo profitta di un periodo di sospensione per dedicarsi alla cura dell’anima, della mente, degli affetti. Nel farlo, egli ci mostra un modo, il suo modo, per osservare l’inedita realtà dei nostri giorni e interpretare le nostre recondite preoccupazioni, per curarle, sopirle e inventare una nuova normalità.